Marco Dondero

 

Il trionfo degli scartafacci.

Le edizioni critiche del secondo Novecento

 

 

 

1. Che cosa si intende per ‘scartafacci’ di un autore? Nell’accezione tecnica poi assunta negli studi filologici, il termine venne utilizzato la prima volta da Benedetto Croce, ma in senso dichiaratamente spregiativo, per indicare i manoscritti corretti degli autori, le minute; e il dispregio non riguardava naturalmente gli oggetti ma la loro utilizzazione in funzione critica [1].

Il termine (ossia il concetto critico da questo indicato) venne orgogliosamente rivendicato da Gianfranco Contini in uno scritto del 1948, La critica degli scartafacci [2], che rispondeva al crociano Nullo Minissi, il quale su “Belfagor” aveva preso posizione contro la “corrente critica” definita “pedagogica” [3], quella che sarà poi nota come “variantistica”. L’oggetto della questione era Manzoni [4], e dunque non questo ora tanto ci interessa, quanto l’entrata in uso del termine ‘scartafaccio’, e più le chiarificazioni di carattere metodologico che si ricavano dallo scritto continiano. Esse riguardano in particolare la possibilità di riconoscere un “valore” letterario non solo al testo definitivo, ma anche ad una sua redazione anteriore: da ciò la possibilità di studiare profittevolmente le varianti, se non quelle “instaurative”, senz’altro quelle “sostitutive”, cioè quelle che comportano “la rinuncia a elementi frammentariamente validi per altri organicamente validi, l’espunzione di quelli e l’inserzione di questi” [5]. Altro elemento essenziale nel lavoro variantistico continiano risulta il concetto di “sistema”, attivo a partire dal Saggio d’un commento alle correzioni del Petrarca volgare [6] e importantissimo negli scritti leopardiani dello studioso. Si tratta di un concetto genialmente semplice: all’interno di un processo correttorio, “gli spostamenti [leggi varianti d’autore] sono spostamenti in un sistema, e perciò involgono una moltitudine di nessi con gli altri elementi del sistema e con l’intera cultura linguistica del correttore” [7].

Le indicazioni teoriche ora accennate vennero fatte fruttare in alcuni scritti apparsi parallelamente alla disputa manzoniana, che riguardavano le varianti di A Silvia [8]. Si trattava di Sull’autografo del canto “A Silvia” di Giuseppe De Robertis, Implicazioni leopardiane di Gianfranco Contini, cui rispondeva ancora De Robertis, Biglietto per Gianfranco Contini [9]. Importantissime sia le risultanze specifiche delle indagini dei due critici (pur nelle differenze di impostazione: eminentemente letteraria la formazione derobertisiana, e attenta al singolo particolare — interpretato grazie al raffinato gusto del critico — la sua lettura; improntata alle acquisizioni ‘scientifiche’ della linguistica e della filologia la lettura continiana, e attenta alle diverse implicazioni all’interno del sistema poetico [10]), sia le risultanze — ancora — metodologiche: il raffinamento del metodo di analisi delle varianti “sostitutive” e del concetto di “sistema” (con il corollario sulla necessità di un “giudizio unitario”, che porti alla valutazione dell’opera nel suo complesso), e soprattutto il definitivo accoglimento a livello di coscienza critica generale del fattore tempo nello studio delle opere d’arte, cosicché nell’analisi “alla nozione statica di ‘opera’ si sostituisce la nozione dinamica di ‘processo’, alla descrizione contemplativa del ‘fatto’ una partecipe ricostruzione del ‘fare’ artistico, verificando, con pazienza analitica, come l’intuizione venga, per tentativi, precisandosi e attuandosi nella forma” [11].

 

2. Ci siamo soffermati sulla nascita della variantistica e sui suoi concetti cardine, per un duplice motivo: da una parte, su di essi si sarebbero basate, come vedremo, numerose esperienze future, non solo critiche ma anche ecdotiche. D’altra parte, per una fruttuosa concatenazione di rapporti, lo sviluppo della critica delle varianti testimonia del successo arriso alle prime edizioni critiche ‘d’autore‘, e della funzione di stimolo fondamentale che quelle edizioni, le prime informate ai criteri che saranno della ‘filologia d’autore’, esercitarono sugli esordi della variantistica [12]. Le edizioni di cui parliamo sono quelle dei Canti di Leopardi procurata da Francesco Moroncini nel 1927, e dei Frammenti autografi dell’ “Orlando furioso” procurata da Santorre Debenedetti nel 1937 [13].

L’edizione Moroncini dei Canti (ma non bisogna dimenticare le altre importanti edizioni fornite dallo studioso, dalle Operette morali alle Opere minori approvate, fino al pregevolissimo Epistolario di Giacomo Leopardi) costituì il primo, fondamentale tentativo italiano di produrre un’edizione di tipo diacronico, che mirasse non solo a fornire il testo nella forma definitiva ma anche a ricostruire e rappresentare la storia del testo, la sua genesi e il suo ventennale sviluppo: ciò venne reso possibile grazie al metodo della “rappresentazione in colonna”, da lui elaborato [14].

L’edizione rappresentò veramente un punto di svolta per gli studi leopardiani, sia dal punto di vista della critica sia da quello dell’ecdotica (e più in generale per la “nuova filologia” italiana [15]). Per quanto riguarda l’analisi critica, sin dallo stesso anno, Giuseppe De Robertis nel suo commento ai Canti poté mettere a frutto una serie di varianti tratte dall’edizione Moroncini, e lo stesso fece tre anni dopo Mario Fubini nel commento e nell’introduzione alla sua edizione dei Canti [16]. E non si possono non ricordare gli studi sull’Elaborazione della lirica leopardiana di Piero Bigongiari o quelli di Angelo Monteverdi [17] (e mi piace ricordare come la variantistica sia stata utilizzata, a livello didattico, anche da uno studioso che se ne direbbe altrimenti alieno: Walter Binni, il quale nelle sue lezioni leopardiane tenute all’Università di Roma tra il 1964 e il 1967, ha fornito, sulla base dell’edizione moronciniana dei Canti, esemplari letture diacroniche di testi [18]).

Per quanto riguarda direttamente l’ecdotica, bisogna riconoscere che l’attuale situazione editoriale delle opere leopardiane, quale si è venuta configurando dopo il fondamentale lavoro moronciniano (ma non vanno dimenticate, negli stessi anni, le edizioni, importanti anche sotto il profilo testuale, di Bacchelli-Scarpa e Flora [19]), deve essere considerata da due punti di vista. Da una parte, non si può non notare la mancanza di una Edizione nazionale (un onore riservato anche a scrittori di profilo ben più basso) e di edizioni critiche soddisfacenti di varie opere ‘minori’. D’altra parte, si deve ricordare la presenza di numerose edizioni critiche di grandissimo valore, condotte da alcuni tra i migliori filologi italiani; edizioni fondamentali non solo per quanto riguarda la resa testuale delle opere, ma anche per quanto riguarda le tecniche editoriali. Nel complesso, grazie alla qualità dei singoli studiosi e alla disponibilità degli editori (con una eccezione, su cui torneremo: la difficoltà di pubblicazione del testo critico dello Zibaldone), si può affermare che la filologia leopardiana post-moronciniana ha mantenuto una posizione di primato all’interno del panorama dell’ecdotica nazionale.

Le pagine che seguono vogliono tracciare esclusivamente una mappa orientativa delle varie edizioni leopardiane succedutesi negli ultimi decennî, senza pretesa di esaustività. L’attenzione sarà puntata in particolar modo sulle edizioni di due tra le più importanti opere leopardiane, i Canti e lo Zibaldone di Pensieri; edizioni che permettono un’analisi comparativa tra diverse metodologie ecdotiche.

 

3. “Si pubblicherà in breve un volume intitolato Canti di Giacomo Leopardi. Saranno parte ristampati, parte nuovi: gli stampati si troveranno riformati molto dall’autore. Tutte le poesie pubblicate dal medesimo per lo passato, che non si leggeranno in questo volume, e così le altre edizioni fatte, sono rifiutate”.

Sono parole tratte dal Manifesto che annunciava la pubblicazione fiorentina dei Canti (Presso Guglielmo Piatti, 1831), stampato nell’ “Antologia” del giugno 1830 [20]. L’edizione fiorentina assume un’importanza strategica nella storia editoriale delle poesie leopardiane: per la prima volta, infatti, esse erano riunite insieme in un libro unitario, che selezionava attentamente e raccoglieva i frutti migliori delle precedenti sperimentazioni [21].

Inscritto nelle parole del Manifesto anche un destino comune ai versi leopardiani: essi erano “riformati molto”, come del resto “riformati molto” essi erano già stati prima, nelle stesure manoscritte, e lo sarebbero stati poi in tutte le stampe controllate dall’autore, a partire dalla prima, contenente le canzoni Sull’Italia e Sul Monumento di Dante (Canzoni di Giacomo Leopardi, Roma 1818, Presso Francesco Bourlié), fino all’ultima, napoletana: Canti di Giacomo Leopardi. Edizione corretta, accresciuta, e sola approvata dall’autore, Napoli, presso Saverio Starita, 1835 [22].

Tra le due edizioni, una lunga storia testuale, a testimonianza della cura con cui Leopardi seguì la pubblicazione dei suoi versi: la Canzone di Giacomo Leopardi ad Angelo Mai, stampata a Bologna nel 1820 presso Iacopo Marsigli; le Canzoni, pubblicate grazie alla mediazione di Pietro Brighenti presso la stamperia Nobili di Bologna nel ‘24; e poi gli Idilli pubblicati nel milanese “Nuovo Ricoglitore” dello Stella, nei numeri del dicembre ‘25 e gennaio ‘26, i Versi comparsi a Bologna presso la Stamperia delle Muse nel ‘26 (la raccolta leopardiana più composita, e più sacrificata al momento della selezione per i Canti [23]), e la già ricordata edizione fiorentina [24].

Ma in parallelo, e anzi a volte in sovrapposizione, alla storia delle stampe, sta la complessa vicenda dei manoscritti poetici. Di molti dei Canti possediamo infatti gli autografi. Il gruppo più cospicuo di essi, appartenente all’eredità Ranieri, è conservato presso la Biblioteca Nazionale “Vittorio Emanuele III” di Napoli [25], ma altri si conservano nella Biblioteca Leopardi di Recanati, nell’Archivio del Comune di Visso e nel Civico Museo Storico di Como [26]: un patrimonio ragguardevole, dal quale sono purtroppo esclusi gli autografi dei periodi fiorentino e napoletano [27]. Importa qui sottolineare la peculiare caratteristica degli autografi leopardiani che ci sono rimasti. Essi, infatti, non contengono le prime redazioni dei versi, ma il risultato di tutta la prima fase di composizione. Essi rappresentano la copia in pulito derivante da precedenti abbozzi non conservati; del lavoro pregresso testimoniano comunque alcuni stadi, dal momento che conservano, in appunti marginali, numerose varianti tratte da stesure anteriori a quella trascritta — insieme a varianti alternative, usufruibili, al pari delle genetiche, in occasione delle future rielaborazioni dei testi [28].

Bisogna infine specificare quanto detto sulla ‘sovrapposizione’ di autografi e stampe. Nei processi compositorî leopardiani il momento della stampa, fondamentale, pure non si identifica automaticamente con il momento di arrivo, ma anzi diventa occasione di riscrittura, di perfezionamento [29]. Oltre naturalmente alla varia fenomenologia elaborativa successiva alla princeps attestata dalle varianti delle stampe, ci rimangono tre esempi (riguardanti la poesia) di una particolare ‘intersezione’ tra fase manoscritta e a stampa: l’esemplare dell’edizione romana delle canzoni Sull’Italia e Sul monumento di Dante, e quello dell’edizione bolognese della canzone Ad Angelo Mai, entrambi ampiamente postillati da Leopardi in vista della nuova edizione delle poesie; e soprattutto la cosiddetta ‘Starita corretta’, cioè l’esemplare sciolto dell’edizione Starita su cui Leopardi eseguì correzioni e aggiunte (in parte di persona, in parte dettandole a Ranieri) in vista dell’edizione delle sue opere complete progettata presso il libraio parigino Baudry. La ‘Starita corretta’ rappresenta dunque l’ultima volontà dell’autore, salvo alcuni casi in cui essa (una bozza non definitiva) presenta discordanze tipografiche rispetto alla versione stampata [30] (e salvo, naturalmente, i due ultimi canti, Il tramonto della luna e La ginestra, composti nel 1836-1837 [31]).

Tale la situazione testuale relativa ai Canti leopardiani. All’inizio degli anni Ottanta due studiosi procurarono nuove edizioni critiche, entrambe vòlte (secondo i dettami della ‘filologia d’autore’ [32]) a ricostruire e rappresentare la storia dell’opera: Emilio Peruzzi e Domenico De Robertis [33]. Le due edizioni permettono un’analisi comparata di metodi filologici, dal momento che sono improntate a criteri ecdotici radicalmente diversi (esse sono però accomunate dalla presenza in entrambe dei facsimili degli autografi leopardiani).

L’edizione curata da Peruzzi può definirsi ‘tradizionale’, essendo basata sul modello moronciniano. Basata, si badi, solo per l’impostazione generale. Da Moroncini, infatti, Peruzzi accoglie il metodo della “rappresentazione in colonna”, caratterizzato dall’accoglimento come ‘testo base’ dell’ultima volontà dell’autore e da un apparato ‘genetico’, che sciorina a fondo pagina, in ordine cronologico, tutte le varianti contenute negli autografi e nelle stampe controllate dall’autore.

La nuova edizione si distingue però non solo grazie ad un aumento della duttilità — e dunque dell’efficacia — dei  metodi di rappresentazione del processo correttorio (ad esempio la distinzione, attuata tramite lettere greche, delle varie fasi di elaborazione di ciascun verso), ma soprattutto per l’abbandono di due criteri operativi generali adottati da Moroncini, che toglievano alla sua edizione il carattere di ‘scientificità’ richiesto da una edizione critica. Egli infatti programmaticamente separò nel suo apparato le varianti ‘formali’ (riguardanti la grafia e la punteggiatura) da quelle ‘sostanziali’ (che investono direttamente il significato), e inoltre non trascrisse le varianti nella forma esatta annotata da Leopardi, ma sviluppò dalle singole parole gli emistichi o gli interi versi che da esse sarebbero (probabilmente) germinati.

Giustamente Peruzzi si oppone a questi due criteri, notando innanzitutto come “spesso basti una virgola per modificare il senso di un enunciato, e tanto più in poesia, dove la punteggiatura serve anche a scavare le pause, scandire il ritmo, [...] fattori prosodici che determinano un particolare significato” [34]; e poi notando come lo sviluppo dei versi dalle singole parole “non sia più edizione critica, ma personale interpretazione. Infatti, [...] non si possono escludere a priori soluzioni diverse” [35]. Insomma Peruzzi condanna i “criteri essenzialmente soggettivi” dell’edizione Moroncini, in favore invece di un’edizione critica ‘scientifica’, dalla quale sia bandita ogni “interpretazione” dell’editore [36].

L‘interpretazione, anche in sede di edizione critica, viene invece fortemente rivendicata da Domenico De Robertis, il quale si ricollega a questo proposito ad altri maestri della nuova filologia italiana, da Barbi a Contini (si citano insieme proprio in quanto profondamente diversi). Se il primo, infatti, nell’Introduzione alla sua Nuova filologia del ‘38, scriveva: “Già la nostra generazione reagiva ai suoi maestri che volevano l’edizione critica senza la critica, l’emendatio senza l’interpretatio, e mirava a uno storicismo totalitario e distingueva benissimo che la vera vita del poeta non era quella esteriore” [37]; il secondo, solamente un anno dopo, commemorando Joseph Bédier scriveva che “un’edizione critica è, come ogni atto scientifico, una mera ipotesi di lavoro, la più soddisfacente (ossia economica) che colleghi in sistema i dati” [38]. Così De Robertis, nel 1990, scrive negli “Studi di filologia italiana”: “Non si ripete mai abbastanza, visto che la questione non cessa d’essere risollevata, che un’edizione critica è uno strumento di lavoro, fondata su un’ipotesi e per servire al riconoscimento di una situazione storica: che, nel caso di testi a tradizione non d’autore, mira alla ricostruzione di una realtà esistita, ma non esistente, sulla base dell’esistente, ossia all’interpretazione dell’esistente come testimonianza dell’esistito, [...] nel caso di testi a tradizione d’autore, alla ricostruzione e all’interpretazione della tradizione stessa (con caratteristica identificazione dei due termini fondamentali del recupero storico di un prodotto letterario, storia della tradizione e critica del testo: la tradizione è il testo), rendendo conto della formazione ed elaborazione dell’opera, abbia questa avuto o no compimento”; e ancora, ricorda come in un’edizione critica di un’opera a tradizione d’autore ciò che deve essere giustificato “non è il testo, in quanto ha la sua giustificazione nella volontà (o nell’arbitrio) dell’autore, ma la sua storia; e sia pure storia di successivi ‘compimenti’, abbiano o no fatto capo a una stampa, dei quali si dovrà pur cogliere le interrelazioni e porre a confronto i documenti: anche in questo caso per una possibile diversa ricostruzione della storia” [39].

De Robertis scrisse queste parole in occasione di una disputa ungarettiana, non pertinente in questa sede; ma esse, oltre a possedere un valore generale di teoria ecdotica [40], ci serviranno da guida per analizzare la sua edizione dei Canti [41], che risponde a criteri molto diversi da quelli già considerati, dal momento che si basa su una nuova ipotesi metodologica.

Due le opzioni teoriche fondamentali su cui è costruita l’edizione critica derobertisiana: la netta separazione della tradizione manoscritta da quella a stampa (con l’esclusiva utilizzazione di quest’ultima al fine della ricostruzione del percorso testuale); e la scelta, quale ‘testo base’, della prima edizione a stampa di ogni canto (esclusi, naturalmente, Il tramonto della luna e La ginestra, mai stampati da Leopardi: del primo De Robertis riproduce il manoscritto, della seconda fornisce un’edizione ‘ricostruttiva’, sulla base dei tre apografi ranieriani conservati [42]. In questi due casi, l’edizione coincide con quella di Peruzzi; ed entrambe con quella di Moroncini).

La scelta di privilegiare la princeps come base del processo ricostruttivo, viene giustificata da De Robertis con la considerazione della particolare fisionomia del lavoro elaborativo leopardiano, cui prima abbiamo accennato: la prima stampa di ogni canto, esclusi i tre casi ricordati di interventi manoscritti sulle stampe, in genere corrisponde allo stadio finale del testo come esso si presenta nell’autografo; l’elaborazione manoscritta avviene insomma in una fase precedente alle stampe, e di questa elaborazione la princeps presenta l’esito. De Robertis rivendica dunque la non arbitrarietà della scelta, assumendo la prima stampa il valore forte di spartiacque tra la ricerca privata del poeta e la presentazione pubblica di un risultato considerato definitivo (si tratta quindi della prima definizione organica della volontà dell’autore).

A partire da quest’ultima considerazione, si giustifica anche la scelta di non fornire un apparato che renda conto dell’elaborazione manoscritta (nelle dettagliate schede descrittive premesse ai facsimili, si trovano però elencate le varianti dell’ultima redazione autografa rispetto alle stampe utilizzate come ‘testo base’), ma di fornire solo le varianti effettivamente esperite nelle stampe, le uniche varianti che ebbero un reale riconoscimento ‘storico’ nella vicenda dei Canti [43]. Le varianti a stampa sono riportate cronologicamente a piè di pagina, distinte in fasce corrispondenti alle successive redazioni, incolonnate ai versi; ma soprattutto, esse sono significativamente stampate senza alcuna distinzione di corpo tipografico rispetto al ‘testo base’: “al fine di non istituire gerarchie” [44].

Si tratta di un accorgimento che rivela l’interpretazione sottesa all’intera operazione ecdotica. Ciò che De Robertis mira a fornire, infatti, non è l’edizione di un testo definitivo, del quale si riportino in posizione subordinata, come fossero ‘scarti’ di lavorazione, anche le varianti precedenti. Ciò che viene presentata al lettore è invece la rappresentazione dei diversi testi (tutti ‘autorizzati’), delle diverse tappe (tutte autonomamente significative) attraverso cui il libro definitivo dei Canti si è formato; è una complessiva ‘storia del libro’ in cui, per riprendere alcune parole di Gino Tellini, “più della mèta valgono i percorsi, più dell’epilogo la pratica dei procedimenti adottati nel corso vivo della narrazione” [45].

Proprio nella valorizzazione della diacronia consiste principalmente la differenza rispetto all’edizione Peruzzi, che si presenta come un’edizione del testo definitivo dei Canti. E proprio l’attenzione alla storia del testo, determina l’altra profonda differenza dell’edizione De Robertis rispetto all’edizione Peruzzi: l’imponenza dell’apparato introduttivo della prima (che comprende un  rapido ma illuminante capitolo di storia della filologia leopardiana, un’esposizione approfondita dei nuovi criteri metodologici proposti per l’edizione, una ricostruzione completa e approfondita delle vicende che portarono a ciascuna edizione leopardiana, le migliori descrizioni ad oggi disponibili di manoscritti e stampe leopardiani [46] e degli utili Cenni sull’ortografia leopardiana [47]), in confronto alle sole otto pagine dedicate dalla seconda alla Premessa e al paragrafo Per l’uso dell’edizione (vòlti a fornire avvertimenti pratici).

L’edizione derobertisiana, caratterizzata dall’importanza attribuita alla ricostruzione del percorso dei testi (non bisogna dimenticare però che la tappa finale della ricostruzione è rappresentata dal testo definitivo, facilmente fruibile nell’ultima fascia di apparato), e altresì dalla scelta di utilizzare la princeps come ‘testo-base’, può essere considerata un esempio della relativamente recente tendenza che mira a contestare il criterio dell’ ‘ultima volontà dell’autore’ [48]. Credo però che i suoi presupposti teorici vadano piuttosto ricercati nella tradizione filologica italiana che si è richiamata nel primo paragrafo di questo scritto, e specificamente nel lavoro di Contini. Si può ravvisare infatti nella strategia di valorizzazione di ogni tappa del percorso elaborativo (e nell’apprezzamente delle diverse caratteristiche di ogni tappa [49]) un elemento di continuità con la nozione continiana di “sistema”, e con la forte indicazione, ancora continiana, riguardo la necessità di un riconoscimento di “valore” anche a redazioni precedenti la definitiva.

Non vanno taciuti però, alla fine di questa disamina, due fattori ‘stranianti’ che derivano dalla lettura dell’edizione di De Robertis. Il primo viene denunciato dallo stesso studioso, come “più grave” rispetto ad altre innovazioni [50]: “e cioè che la storia ossia la vicenda della ricerca poetica s’impongono tanto all’acquisizione definitiva, al testo che possiamo dire reçu, da disporre i testi secondo cronologia e da rompere l’ ‘intreccio’, the plot a cui approda il libro, per riprodurne la lunga e complessa ‘fabula’ “ [51]; così, ad esempio, il lettore abituato a trovare prima l’Inno ai Patriarchi, poi l’Ultimo canto di Saffo e di séguito la serie degli Idilli, non può non stupirsi di fronte a un indice che propone invece la disposizione Ultimo canto di Saffo, Inno ai Patriarchi, e sùbito Alla sua Donna, seguita dalle Annotazioni — per non dire della posizione del Passero solitario, qui senz’altro situato, secondo la ben nota ipotesi critica derobertisiana [52], al ventiseiesimo posto, tra i canti pisano-recanatesi e quelli fiorentini (e sùbito seguito dal Consalvo). Il secondo: il lettore che aprendo, poniamo, alla pagina di A Silvia, trova il primo verso nella forma “Silvia, sovvienti ancora”, e deve discendere fino all’ultima fascia dell’apparato per rinvenire l’appagante rimembri, sulle prime non può che rimanere sconcertato. Eppure, è necessario superare i piccoli disagi iniziali: si sa che un’edizione critica è uno strumento di lavoro per studiosi, non un ameno libro di lettura.

 

4. Il manoscritto autografo dello Zibaldone di Pensieri è conservato presso la Biblioteca Nazionale di Napoli. Esso si compone di 4526 facciate, attualmente raccolte in sei volumi rilegati in pergamena. Scritto a partire dal 1817 fino al 1832, con notevoli variazioni quantitative a seconda dei giorni e degli anni (mille ottocento pagine nel 1821, solo tre pagine dal 1830 al ‘32), lo Zibaldone contiene appunti e riflessioni sugli argomenti più vari, dalla filologia alla filosofia, alla letteratura, ma anche riguardanti la vita privata di Leopardi, e presenta molte forme di scrittura, dalle più brevi (citazioni, aforismi, ricordi) a veri e propri trattatelli. Pur assumendo in varie occasioni un carattere letterario, lo Zibaldone si presenta essenzialmente come scrittura privata.

Queste caratteristiche si riflettono sul manoscritto autografo, che presenta infatti correzioni, cancellature, ampliamenti, ripensamenti, condotti sia contestualmente alla scrittura sia addirittura a distanza di anni da Leopardi, il quale non si distaccò mai dal proprio “scartafaccio”, sino alla fine della sua vita.

La storia del manoscritto successiva alla morte di Leopardi si inscrive immediatamente sotto il segno della precarietà: rimasto nelle mani dell’amico Ranieri, esso venne da questi lasciato in eredità alla sua morte (3 gennaio 1888) a due domestiche, solo dopo la morte delle quali sarebbe potuto passare, insieme a tutte le altre carte conservate da Ranieri, alla Biblioteca Nazionale di Napoli. Il direttore della Biblioteca, Vito Fornari, tentò naturalmente di ottenere subito la custodia delle carte leopardiane [53], dando così inizio a una serie di controversie legali tra la Biblioteca, le due beneficiarie dell’eredità e la famiglia Leopardi, che si conclusero solo nel 1897 quando, in séguito all’impegno del senatore Mariotti [54], i manoscritti vennero espropriati dallo Stato. Successivamente essi vennero consegnati alla Commissione (presieduta da Giosue Carducci) nel frattempo costituita al fine di studiarli e scegliere quelli adatti alla pubblicazione. Proprio lo Zibaldone venne scelto per iniziare le pubblicazioni: esso uscì in occasione del primo centenario della nascita del poeta, con il titolo Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura, ricavato dal primo dei cosiddetti ‘indici parziali’ [55]. Successivamente lo Zibaldone venne stampato varie volte, soprattutto in forma antologica [56], ma anche integralmente [57].

Negli ultimi dieci anni sono state pubblicate parallelamente le due edizioni di cui ci occuperemo: la riproduzione fotografica integrale del manoscritto, a cura di Emilio Peruzzi [58], e finalmente l’edizione critica e annotata curata da Giuseppe Pacella [59].

Ce ne occuperemo, sia detto come tra parentesi, dando per scontata — ciò che non è — la liceità, per così dire, morale della pubblicazione postuma di scritti a carattere privato; tanto più in un caso come il presente, dove l’autore ha esplicitamente negato la possibilità di stampare il materiale, in mancanza di una profonda rielaborazione: si consideri ad esempio la lettera ad Antonio  Fortunato Stella del 13 settembre 1826: “Quanto al Dizionario filosofico [che Leopardi avrebbe dovuto ricavare dallo Zibaldone], le scrissi che io aveva pronti i materiali, com’è vero; ma lo stile, ch’è la cosa più faticosa, ci manca affatto, giacché sono gettati sulla carta con parole e frasi appena intelligibili, se non a me solo. E per di più sono sparsi in migliaia di pagine [...] e per poterne estrarre [...] bisognerebbe che io rileggessi tutte quelle migliaia di pagine, segnassi i pensieri che farebbero al caso, li disponessi, gli ordinassi ec.” [60] (si vedano però le convincentissime argomentazioni, vòlte ad autorizzare la pubblicazione anche di scritti privati, esposte recentemente da Alfredo Stussi [61]).

La pubblicazione delle edizioni fotografica di Peruzzi e critica di Pacella fu occasione di vivaci discussioni, suscitate dall’evidente diversità dei criteri che guidarono le due opere [62]. In particolar modo, riguardo all’opportunità di fornire dell’ “immenso manoscritto, o scartafaccio” una riproduzione fotografica. Emilio Peruzzi, confermando anche in questo la sua già ricordata avversione per l’interpretazione all’interno dell’edizione, per la ‘mediazione’ del filologo tra il lettore e il testo, ha proposto come valida unicamente la lettura diretta del manoscritto. Lo strumento offerto agli studiosi è preziosissimo per analisi grafiche e topologiche, ma non permette, naturalmente, di trarre alcuna informazione sulla carta, di leggere sotto le cancellature o le riscritture, e neanche, essendo l’edizione monocromatica (nero su grigio), di studiare la qualità e i cambi degli inchiostri [63].

A questi inconvenienti di ogni riproduzione meccanica è chiamata a rispondere l’edizione critica. L’edizione Pacella ha provocato però anch’essa discussioni, dal momento che lo studioso ha costruito l’apparato critico seguendo il principio, assolutamente non scontato, che all’editore critico debba essere lasciato un margine di discrezionalità nella scelta dei fenomeni da registrare (si veda ad esempio: “Nell’apparato critico [...] ho incluso tutte le particolarità che ho considerato significative per il pensiero e per lo stile. In un’opera così voluminosa [...] è naturale che i lapsus siano vari e frequentissimi [...]. In linea di massima non ho notato quelli che mi sono parsi insignificanti e di nessuna utilità per il lettore e il filologo” [64]). Ora, questo modus operandi appare senz’altro in contraddizione con lo statuto stesso di un’edizione critica, nella quale il testo critico si presenta sì come risultato di determinate scelte dell’editore, ma deve essere accompagnato da tutti gli elementi che consentano al lettore di controllare e verificare quelle scelte, e al limite di compierne determinate altre. Ritengo perciò fondate le riserve espresse da Peruzzi nell’introduzione all’edizione fotografica, quando scrive che “A tutti si deve concedere piena libertà di giudizio, ma non la libertà di eliminare dall’autografo di un autore ciò che si stima meno importante. Nessuno può prendersi l’arbitrio di giudicare per gli altri, e impedire agli altri di giudicare quel che è stato soppresso. Ciò che uno studioso ritiene insignificante, ad altri può apparire significativo” [65].

Ma oltre a valutare le questioni di principio, è buona norma in filologia verificare soprattutto i risultati concreti di un lavoro. Apriamo dunque l’edizione critica proprio alla prima pagina del manoscritto (i, p. 3): dopo le prime due frasi compaiono i sette endecasillabi che si iniziano “Era la luna nel cortile”, riportati a testo incolonnati. Guardando l’apparato alla pagina corrispondente (iii, p. 3), troviamo registrate esclusivamente l’indicazione della correzione di una svista leopardiana e l’indicazione che la data apposta alla fine del passo successivo ai versi, “Onde Aviano raccontando una favoletta [...]”, è una “aggiunta nel rigo”. Proviamo ora a leggere la pagina nell’edizione fotografica (i, p. 1): oltre a renderci conto del fatto che della data non si può solamente segnalare che venne aggiunta nel rigo, ma andrebbe anche rilevato che l’operazione venne compiuta in un diverso momento, come si deduce chiaramente da una cambio di inchiostro, ci sono due elementi che a mio parere non andrebbero passati sotto silenzio: 1) i cambi di inchiostro che si riscontrano si tra l’appunto iniziale e i versi sia tra i versi e il successivo paragrafo dedicato alla “favoletta” di Aviano (probabilmente ci fu anche un cambio di penna): informazione non trascurabile — dal momento che implica una differenza, sia pur minima, nei tempi di stesura — in vista di una corretta interpretazione dei passi in questione e dei loro presunti rispettivi legami [66]; 2) la posizione dell’endecasillabo che nell’edizione critica si legge come sesto, “Mandava un suon, cui precedea da lungi” [67]: esso nell’autografo non è incolonnato correttamente tra i versi quinto e settimo, ma si legge di séguito al quinto verso, nella stessa riga di scrittura. Ritengo si tratti di una particolare non ininfluente, dal momento che se alla considerazione della particolare disposizione del testo nella pagina si unisce l’osservazione che il modulo dell’ultima parola del verso diminuisce rispetto al resto dei versi (evidentemente al fine di contenere la scrizione all’interno della riga), appare fondato pensare di trovarsi di fronte ad un errore di trascrizione compiuto da Leopardi per l’occasione copista di sé stesso: avendo dimenticato di trascrivere un verso egli lo aggiunse in un secondo momento, utilizzando lo spazio rimasto libero nella sesta riga. L’intervento compiuto da Pacella per ripristinare la disposizione dei versi è assolutamente condivisibile; ma appunto di intervento critico si tratta, non di semplice trascrizione dell’autografo: sarebbe stato opportuno avvertirne i lettori nell’apparato.

Non si vuole però con questo senz’altro affermare che l’edizione fotografica sia preferibile, e sufficiente a leggere in maniera corretta lo Zibaldone: per i motivi sopra specificati. Considerando i passi appena analizzati, notiamo che: 1) l’edizione fotografica permette sì di notare i cambi di inchiostro, ma a causa della sua monocromaticità impedisce di raffrontare con sicurezza gli inchiostri inividuati nella pagina con gli altri inchiostri presenti nel manoscritto; 2) la qualità non buona della riproduzione non permette di leggere correttamente diversi caratteri (ad esempio la parola “tintinnìo”, nell’ultimo endecasillabo, che risulta illeggibile a causa della sovrapposizione delle aste delle lettere g contenute nella parola “passegger” del verso vergato sùbito sopra).

La considerazione che vorrei trarre da questa minima analisi è semplice: gli studiosi leopardiani si trovano in una situazione privilegiata, disponendo per un testo così importante di una doppia possibilità di fruizione. Si tratta dunque, per compiere una lettura attenta ai dati filologici, di utilizzare entrambe le edizioni contemporaneamente, al fine di sfruttare i vantaggi offerti da ciascuna. Si veda l’ottimo esempio, fornito recentemente da Giorgio Panizza, di utilizzazione dell’edizione fotografica non per una lettura alternativa all’edizione a stampa (va da sé, più comoda), ma per la correzione di alcune scelte di Pacella riguardo alla distinzione dei vari pensieri [68].

Infine, solo una segnalazione riguardo al fatto che dalle analisi condotte rispettivamente da Pacella e da Peruzzi deriva anche una diversa ricostruzione del metodo di lavoro utilizzato da Leopardi per stendere lo Zibaldone. Secondo Pacella lo Zibaldone sarebbe frutto di una stesura ‘di getto’; secondo Peruzzi esso sarebbe (almeno in parte) una bella copia. Le ricerche condotte negli ultimi anni dagli studiosi che operano presso la Biblioteca Nazionale di Napoli fanno propendere senz’altro per la seconda ipotesi: essi hanno infatti rinvenuto fra le Carte Leopardi tre schede di lavoro, nelle quali hanno potuto riconoscere delle “selezioni tematiche preliminari alla riflessione del manoscritto”, delle vere e proprie “scalette” finalizzate alla stesura di futuri pensieri zibaldoniani. Le tre schede costituiscono la prova — finora mancante — del lavoro preparatorio che Leopardi dovette condurre al fine di comporre almeno i passi di più complessa struttura; esse documentano la prima fase di quel lavoro [69].

 

5. Per concludere, dedicherò non più che pochi appunti, a scopo semplicemente informativo, alle molte altre edizioni critiche di opere leopardiane pubblicate negli ultimi anni, seguendo orientativamente l’ordine di composizione dei testi.

Possediamo oramai testi criticamente accertati di praticamente tutte le opere giovanili leopardiane, a cominciare da quelle poetiche, editate criticamente da Maria Corti nel 1972 [70], accompagnate dalle traduzioni delle Odi oraziane e da prose in latino e in italiano. Altre traduzioni giovanili, de La Torta e del secondo libro dell’Eneide, sono state pubblicate criticamente da Luigina Stefani negli “Studi e problemi di critica testuale” [71].

Per quanto riguarda le prose giovanili, si dispone finalmente dell’edizione critica delle Dissertazioni filosofiche, curata da Tatiana Crivelli nel 1995 (con un ampio commento e la riproduzione delle fonti utilizzate da Leopardi [72]); la stessa Crivelli ha poi pubblicato l’edizione del Dialogo filosofico sopra un moderno libro intitolato “Analisi delle idèe ad uso della gioventù”, del 1812 (per la prima volta corredato delle lunghe note che accompagnano il testo [73]).

I due importanti saggi del 1813 e 1815, la Storia dell’astronomia e il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, purtroppo non sono ancora leggibili in veste critica; ma del Saggio sopra gli errori popolari promette un’edizione critica Giovanni Battista Bronzini, introducendone una recente ristampa [74]. L’edizione critica dell’orazione Agl’Italiani. In occasione della liberazione del Piceno è stata fornita da Giuseppe Rando, in appendice alla ristampa di un saggio sulle Due redazione dell’opera [75].

Un’ottima edizione critica dell’Appressamento della morte è stata fornita da Lorenza Posfortunato [76], con un esauriente studio introduttivo sulla tradizione testuale e sulle varie fasi di elaborazione della cantica.

Per le opere filologiche ed erudite della giovinezza si dispone delle importanti edizioni critiche condotte sotto il patrocinio del Centro studi leopardiani di Recanati, che ad esse ha dedicato la collana “Scritti di Giacomo Leopardi inediti o rari”. Sono stati pubblicati nel corso degli anni gli Scritti filologici (1817-1832), curati da Giuseppe Pacella e Sebastiano Timpanaro [77], ottavo volume della collezione; le due opere inedite Fragmenta Patrum Graecorum - Auctorum Historiae Ecclesiasticae Fragmenta (1814-1815), quinto volume della collezione, a cura di Claudio Moreschini [78], il quale oltre ad un’attenta descrizione degli autografi fornisce un commento vòlto ad indagare quale importanza quegli studi abbiano avuto non solo nella formazione di Leopardi, ma anche nell’àmbito della critica riguardante gli autori da Leopardi esaminati [79]; il Porphyrii de vita Plotini et ordine librorum eius, curato da Claudio Moreschini nel 1982 (per la Olschki di Firenze), terzo volume della collezione. Dopo una lunga interruzione, finalmente le pubblicazioni della collana sono riprese nel 1997, in collaborazione con l’Istituto Italiano di Studi Filosofici, con l’edizione del Giulio Africano, curato ancora da Moreschini [80].

Un’ottima edizione del Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica è stata procurata nel 1988 da Ottavio Besomi [81], in collaborazione con vari suoi allievi dell’Università di Zurigo [82]. Nell’introduzione Besomi ricostruisce il contesto in cui il Discorso venne scritto e si sofferma ad analizzare il manoscritto dell’opera e i suoi rapporti con i testi che ad esso si riferiscono: parti dello Zibaldone, Abbozzi precedenti la stesura del Discorso, e Osservazioni, seguenti. Anche se al centro dell’attenzione è significativamente posto sempre il Discorso, il volume fornisce l’edizione critica di tutti i testi ricordati e pubblica in appendice anche le Osservazioni del Di Breme, che provocarono l’intervento leopardiano.

Franco D’Intino ha pubblicato nel 1995 un’eccellente edizione degli Scritti e frammenti autobiografici  [83], comprendente le Memorie del primo amore, la Vita abbozzata di Silvio Sarno (testo tradizionalmente noto col titolo Ricordi d’infanzia e di adolescenza), il Supplemento alla vita del Poggio, il Supplemento alla vita abbozzata di Silvio Sarno e la Storia di un’anima. L’edizione presenta un’ampia introduzione critica, un imponente commento, e dettagliatissime Note ai testi, dove D’Intino descrive accuratamente gli autografi [84], ne determina in tre casi le probabili datazioni e fornisce apparati critici assai dettagliati [85].

Le Operette morali sono state editate criticamente nel 1979 da Ottavio Besomi [86]. L’edizione, come dichiarato dal curatore, offre poche novità rispetto al testo stabilito da Moroncini, ma ne offre invece molte quanto all’articolazione dell’apparato. Esso si presenta distinto in quattro sezioni, che dànno conto delle particolarità degli autografi, della relazione tra questi e le stampe, della situazione interpuntiva degli autografi e delle stampe, e — particolarmente importante — delle successive fasi di elaborazione testuale testimoniate dalle varie stampe. Si costruisce in questo modo una completa storia del testo, storia che è al centro dell’attenzione anche nell’importante introduzione, dove Besomi ricostruisce il progetto leopardiano a partire dalle “prosette satiriche” fino agli esiti ultimi della prosa morale leopardiana.

Chi scrive ha in preparazione un’edizione critica del Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani. Ne è stato fornito intanto, agli inizi del 1998, il testo critico, ricavato dall’autografo conservato presso la Biblioteca Nazionale di Napoli [87].

Il testo dei cxi Pensieri è stato recentemente oggetto dell’attenzione di Antonio Prete, il quale, fornendo un’edizione commentata dell’opera [88], si è avvalso dell’ausilio di Giuseppe Pacella per controllare sul manoscritto autografo la lezione stabilita da Moroncini e ha proposto una serie di emendamenti all’edizione critica. Una nuova edizione critica dell’opera è in corso di pubblicazione presso l’Accademia della Crusca, per la cura di Matteo Durante [89].

Infine, segnalo un promettente saggio di Luca Danzi, preparatorio ad un’edizione critica dei Paralipomeni della Batracomiomachia, nel quale alle considerazioni riguardanti l’impostazione generale del problema ecdotico seguono varie proposte di emendamenti al testo offerto da Francesco Moroncini [90].

 

Tratto da:

 

Leopardi a Milano. Per una storia editoriale di Giacomo Leopardi
a cura di Patrizia Landi.
Milano: Electa; Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 1998.
131 p.
Catalogo di mostra. Milano, Castello Sforzesco, Biblioteca Trivulziana 3 dicembre 1998
7 gennaio 1999

 



[1] B. Croce, Illusione sulla genesi delle opere d’arte, documentata dagli scartafacci degli scrittori, nel 9° dei “Quaderni della Critica”, iii (1947), pp. 93-94 (quindi in Nuove pagine sparse, Laterza, Bari 1966, pp. 238-239).

[2] G. Contini, La critica degli scartafacci, in “Rassegna d’Italia”, iii (1948), pp. 1048-1056 e 1156-1160; ora in Id., La critica degli scartafacci e altre pagine sparse, Con un ricordo di Au. Roncaglia, Scuola Normale Superiore, Pisa 1992, pp. 1-32.

[3] N. Minissi, Le correzioni e la critica, in “Belfagor”, iii (1948), pp. 94-97. Giustamente definita “pedagogica”: anche nello scritto di risposta Contini ribadirà l’ “utilità didattica” del metodo variantistico, sottolineandone nel contempo l’aspetto sperimentale: “Perché qui non si tratta di estetica ma di critica; perché si tratta di pedagogia” (La critica degli scartafacci cit., p. 17).

[4] A far scoccare la scintilla della polemica fu lo scritto di D. De Robertis (occasionato “dalle proteste che avverso l’edizione del Lesca degli Sposi promessi sollevò il filologo Ernesto Giacomo Parodi, per ‘ostilità teorica e generica contro gli abbozzi dei capolavori’ “; Contini, La critica degli scartafacci cit., p. 2), Nel segreto del Libro, in “Risorgimento liberale”, 22 settembre 1946; seguirono Croce, Illusioni sulla genesi delle opere d’arte cit., D. De Robertis, La via ai “Promessi Sposi”: Capire distinguendo è un bel capire, in “Corriere di Milano”, 30 marzo 1948, e i saggi citati di  Minissi e Contini.

[5] Sono parole tratte dal primo saggio variantistico continiano (occasionato dalla pubblicazione dei Frammenti autografi dell’ “Orlando furioso” da parte di Santorre Debenedetti): Come lavorava l’Ariosto, in “Meridiano di Roma”, 18 luglio 1937 (quindi in Esercizî di lettura sopra autori contemporanei, con un’appendice su testi non contemporanei. Edizione aumentata di “Un anno di letteratura”, Einaudi, Torino 1974, pp. 232-241).

[6] Sansoni, Firenze 1943 (ma scritto nel 1941). Ora in Varianti e altra linguistica. Una raccolta di saggi (1938-1968), Einaudi, Torino 1970, pp. 5-31.

[7] Sono parole di Contini, dal saggio Implicazioni leopardiane, in “Letteratura”, 33 (1947), pp. 102-109; ora in Varianti e altra linguistica cit., pp. 41-52 (la cit. da p. 41).

[8] Sulle quali, da ultimo, cfr. E. Peruzzi, Varianti di “A Silvia”, in Leopardi a Pisa ... cangiato il mondo appar ..., a c. di F. Ceragioli, Electa, Milano 1997, pp. 156-163; nello stesso volume, cfr. anche il saggio di L. Blasucci, Sul canto “A Silvia”, pp. 143-155. Di E. Peruzzi cfr. anche Saggio di lettura leopardiana, in “Vox Romanica”, xv (1956), pp. 94-163.

[9] Gli scritti di De Robertis in “Letteratura”, 31 (1946), pp. 1-9 (poi in Primi studi manzoniani e altre cose, Le Monnier, Firenze 1949, pp. 150-168), e in “Letteratura”, 34 (1947), pp. 117-118 (poi ivi, pp. 169-172). Gli scritti derobertisiani e continiano sono raccolti anche in d’A. S. Avalle, L’analisi letteraria in Italia. Formalismo, strutturalismo, semiologia (Con una appendice di Documenti), Ricciardi, Milano-Napoli 1970, fondamentale per una lettura critica di quegli scritti (cfr. in particolare le pp. 59-70). Sulla critica continiana e sul variantismo vedi anche D. Isella, Le varianti d’autore (critica e filologia) (1984), in Le carte mescolate. Esperienze di filologia d’autore, Liviana, Padova 1987, pp. 3-17; Id., Ancora sulla critica delle varianti (1990), in L’idillio di Meulan. Da Manzoni a Sereni, Einaudi, Torino 1994, pp. 306-323; il fascicolo ‘speciale’ di “Filologia e Critica”, xv (1990): Su / per Gianfranco Contini; e R. Antonelli, “Esercizî di lettura” di Gianfranco Contini, in Letteratura italiana. Le Opere, dir. A. Asor Rosa, iv / ii. Il Novecento. La ricerca letteraria, Einaudi, Torino 1996, pp. 339-406 (in particolare 379-385).

[10] Su questo aspetto in particolare: Avalle, L’analisi letteraria in Italia cit.; e Isella, Le varianti d’autore cit.

[11] Au. Roncaglia, Ricordo di Gianfranco Contini, in La critica degli scartafacci cit., pp. xv-xvi.

[12] La genesi della critica delle varianti è ricostruita, in maniera articolatissima, da F. Finotti, La storia finita. Filologia e critica degli “scartafacci”, in “Lettere Italiane”, xlvi (1994), pp. 3-43. Insiste in maniera persuasiva sulla funzione di stimolo determinante svolta delle edizioni — sottolineando come il primo saggio variantistico continiano fosse una recensione, e come anche degli altri incunaboli della critica degli scartafacci “ciascuno partecipasse in certa misura dei caratteri della recensione”— C. Giunta, Prestigio storico dei testimoni e ultima volontà dell’autore, in La filologia (“Anticomoderno”, 3), Viella, Roma 1997, pp. 169-198 (180). Notabile anche come tutti i primi scritti di critica variantistica uscissero in sedi non prettamente scientifiche.

[13] Canti di Giacomo Leopardi, Edizione critica ad opera di F. Moroncini, Discorso, corredo critico di materia in gran parte inedita, con riproduzioni d’autografi, 2 voll., Licinio Cappelli, Bologna 1927 (una riproduzione anastatica, con Presentazione di Gianfranco Folena, è stata pubblicata dalla stessa Casa nel 1978; l’ed. moronciniana è stata anche ristampata presso Tallone, Alpignano 1988); I frammenti autografi dell’ “Orlando furioso”, a c. di S. Debenedetti, Chiantore, Torino 1937.

[14] Sulla figura dello studioso recanatese, sulle sue benemerenze (e naturalmente anche sulle carenze delle sue edizioni), cfr. la Presentazione di G. Folena alla rist. anastatica dell’ed. critica dei Canti cit.; l’Introduzione di Domenico De Robertis ai Canti di Giacomo Leopardi, Edizione critica e autografi, a c. di D. De Robertis, 2 voll., Il Polifilo, Milano 1984; il capitolo “Filologia d’autore” di A. Stussi, Introduzione agli studi di filologia italiana, Il Mulino, Bologna 1994; e il saggio di Franco Brioschi compreso nel presente volume.

[15] Del 1934 è il volume di G. Pasquali, Storia della tradizione e critica del testo, Le Monnier, Firenze (nel quale lo studioso si soffermava anche sulla possibilità di identificare, nella tradizione dei classici, varianti d’autore) e del 1938 quello di M. Barbi, La nuova filologia e l’edizione dei nostri scrittori da Dante al Manzoni, Sansoni, Firenze (in cui al centro dell’attenzione erano testi caratterizzati da varianti redazionali).

[16] Rispettivamente Le Monnier, Firenze 1927 e Utet, Torino 1930.

[17] P. Bigongiari, L’elaborazione della lirica leopardiana, Le Monnier, Firenze 1937 (ora in Id., Leopardi, La Nuova Italia, Firenze 1976, pp. 51-250); A. Monteverdi, Frammenti critici leopardiani, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 19672.

[18] Ad esempio di A Silvia: cfr. W. Binni, Lezioni leopardiane, a c. di N. Bellucci con la collaborazione di M. Dondero, La Nuova Italia, Firenze 1994, pp. 489-498; ciò è stato acutamente notato da L. Blasucci, La lezione leopardiana di Walter Binni (1995), in I tempi dei “Canti”. Nuovi studi leopardiani, Einaudi, Torino 1996, pp. 243-255, 251-252: “Ma è la dimensione stessa dell’analisi linguistica e testuale, contenuta in limiti sobri, si direbbe perfino ascetici nel Binni saggista, che vien fuori in modo imponente da queste pagine [Lezioni leopardiane], rivelando nel loro autore (e come poteva essere diversamente?) una sensibilità formale tutt’altro che presa a prestito”.

[19] G. Leopardi, Opere, Saggi giovanili ed altri scritti non compresi nelle opere, Carte napoletane con giunte inedite o poco note, a c. di R. Bacchelli e G. Scarpa, Officina Tipografica Gregoriana, Milano 1935; Id., Tutte le opere, a c. di F. Flora, 5 voll., Mondadori, Milano 1937-1949.

[20] Cit. da G. Leopardi, Tutte le opere, con introduzione e a c. di W. Binni, con la collaborazione di E. Ghidetti, 2 voll., Sansoni, Firenze 19896 (1ª ed. 1969), i, p. 53.

[21] Ne è disponibile una ristampa anastatica, con presentazione di D. De Robertis (Identità dell’opera, pp. 169-225): Le Lettere, Firenze 1987.

[22] Su cui cfr. D. De Robertis, L’edizione Starita (1989), in Leopardi, la poesia, Cosmopoli, Bologna-Roma 1996, pp. 333-354. L’edizione è stata riproposta anche in facsimile: Marotta, Napoli 1967.

[23] Nei Versi erano contenuti gli Idilli, le Elegie I e II, i Sonetti in persona di Ser Pecora fiorentino beccaio, l’Epistola al conte Carlo Pepoli, la Guerra dei topi e delle rane e il Volgarizzamento della satira di Simonide sopra le donne.

[24] Lo studio migliore, sulla storia editoriale dei versi leopardiani, nel paragrafo “Storia del libro” contenuto nell’Introduzione di Domenico De Robertis alla sua già ricordata ed. critica dei Canti (pp. xxiii-lxviii).

[25] Si tratta degli autografi dei canti (secondo la numerazione dell’edizione definitiva) dal iv al x, dal xii al xviii, dal xx al xxv, del xxxiii (gli ultimi sei vv. di mano di Ranieri), e dal xxxvi al xli.

[26] Alcuni apografi di mano di Paolina Leopardi e di Antonio Ranieri (3 copie della Ginestra) si conservano a Palazzo Leopardi e alla Nazionale di Napoli.

[27] Esemplari descrizioni dei mss. leopardiani nel capitolo “Testimonianze manoscritte e a stampa” dell’Introduzione citata di Domenico De Robertis alla sua ed. critica dei Canti, pp. lxix-xcviii.

[28] Cfr. da ultimo sull’argomento F. Gavazzeni, Come copiava e correggeva il Leopardi, in “Operosa parva” per Gianni Antonini, Studi raccolti da D. De Robertis e F. Gavazzeni, Edizioni Valdonega, Verona 1996, pp. 281-292.

[29] Cfr. al proposito A. Petrucci, La scrittura del testo, in Letteratura italiana, dir. A. Asor Rosa, iv. L’interpretazione, Einaudi, Torino 1985, pp. 283-309 (301); e M. Andria-P. Zito, Appunti su progettualità e scrittura in Leopardi, in Biblioteca Nazionale Napoli, Giacomo Leopardi, Macchiaroli, Napoli 1987, pp. 151-155.

[30] Cfr. al proposito D. De Robertis, Le ultime volontà di Leopardi: la Starita con correzioni autografe, in “Italianistica”, xvi (1987), pp. 381-390.

[31] Del primo si possiede l’autografo (gli ultimi sei vv. di mano di Ranieri), del secondo tre apografi ranieriani. Va inoltre considerato anche il vol. i delle Opere di Giacomo Leopardi, Edizione accresciuta, ordinata e corretta, secondo l’ultimo intendimento dell’autore, da A. Ranieri, Le Monnier, Firenze 1845 (sul quale si veda ora il capitolo “L’edizione delle opere presso l’editore Le Monnier di Firenze” di N. Bellucci, Giacomo Leopardi e i contemporanei. Testimonianze dall’Italia e dall’Europa in vita e in morte del poeta, Ponte alle Grazie, Firenze 1996, pp. 315-350).

[32] Una trattazione finalmente completa — e di altissimo valore — sulla ‘filologia d’autore’ (dopo le fondamentali messe a punto metodologiche contenute in Isella, Le carte mescolate cit.)  è quella fornita da Alfredo Stussi nella sua Introduzione agli studi di filologia italiana cit., al quale rimando anche per l’esauriente bibliografia (alla quale si può aggiungere l’agile ma esaustiva sintesi di F. Brugnolo, Filologia d’autore ed ecdotica, in “Filologia e Critica”, xvii [1992], pp. 100-106).

[33] G. Leopardi, Canti, Edizione critica di E. Peruzzi, con la riproduzione degli autografi, Rizzoli, Milano 1981 (l’opera, dopo una ristampa nel 1987, è stata ripubblicata in questo 1998 nella BUR, in due volumi, dei quali il secondo contiene solo i facsimili — un’ottima scelta, che rende l’edizione tascabile anche più funzionale dell’editio maior); Canti di Giacomo Leopardi, Edizione critica e autografi, a c. di D. De Robertis, cit.

[34] Premessa all’ed. critica dei Canti cit., p. vi.

[35] Ibidem. Cfr. anche E. Peruzzi, Edizione e stratigrafia dei Canti leopardiani, in “Il Veltro”, xxxi (1987), pp. 513-530.

[36] Aspetto questo sottolineato da Gianfranco Contini nella sua recensione all’edizione Peruzzi, apparsa sul “Corriere della Sera” del 3 gennaio 1982 e ripubblicata, col titolo Radiografia di Leopardi, in Ultimi esercizî ed elzeviri (1968-1987), Einaudi, Torino 1988, pp. 285-291.

[37] Barbi, La nuova filologia cit., p. xxv.

[38] G. Contini, Ricordo di Joseph Bédier (1939), ora in Esercizî di lettura cit., pp. 358-371 (369).

[39] D. D[e] R[obertis], N[ota] d[el] D[irettore], in “Studi di filologia italiana”, xlviii (1990), pp. 301-307 (302-303).

[40] È proprio riportando queste parole che Alfredo Stussi conclude l’introduzione generale alla sua già citata esposizione sulla “Filologia d’autore”, chiosando che esse possono “riassumerne il senso” (p. 196).

[41] Nella quale il valore dell’ “interpretazione” è ribadito: “Sono convinto d’altra parte che l’ ‘interpretazione’ (e semmai un’interpretazione diversa dalla precedente) sia momento essenziale e costitutivo d’ogni edizione critica, inerente alla sua stessa definizione” (da A titolo di gratitudine (e a ragion venuta), pagine di premessa all’edizione).

[42] Cfr. il paragrafo “Per il testo del Tramonto e della Ginestra”, nell’Introduzione all’ed. critica cit., pp. civ-cix.

[43] Nel già citato Leopardi, la poesia (p. 27 n. 1), De Robertis riferendosi a questo criterio scrive di averne trovato “un’insperata (perché dimenticata) autorizzazione” nell’Introduzione ai Frammenti autografi dell’ “Orlando furioso” curati da S. Debenedetti (già ricordati), p. xv: “A me pare che non convenga mettere sullo stesso piano le varianti tratte dalle edizioni, che ebbero il loro effettivo riconoscimento, e quelle dei manoscritti, che talora vissero solo un istante, e non vissero se non per l’autore; né che scritture di questo genere si stampino in sede di varianti”.

[44] De Robertis, Introduzione all’ed. critica cit., p. xix.

[45] G. Tellini, Testo critico e autografi dei “Canti”, in “Paragone. Letteratura”, xxxv (1984), pp. 71-78.

[46] Ma si vedano a questo proposito, di E. Peruzzi, i fondamentali Studi leopardiani, i e ii, Olschi, Firenze 1979 e 1987; e, soprattutto per quanto riguarda il Consalvo, l’Appendice: Manoscritti e stampe dei canti fiorentini di F. Ceragioli, I canti fiorentini di Giacomo Leopardi, Olschki, Firenze 1981, pp. 173-204.

[47] Sull’argomento De Robertis si sofferma anche nel saggio Quae legat ipse ..., in “Operosa parva” per Gianni Antonini cit., pp. 269-280.

[48] Per il dibattito che si è svolto intorno a questo tema, in àmbito italiano, tedesco e anglo-americano, rimando al paragrafo “Testo di riferimento” di Stussi, Introduzione agli studi di filologia italiana cit., pp. 190-196. Importanti testi anglo-americani che affrontano l’argomento (sostanzialmente schierandosi dalla parte della ‘tradizione’) sono tradotti in Filologia dei testi a stampa, a c. di P. Stoppelli, Il Mulino, Bologna 1987.

[49] Si veda a questo proposito D. De Robertis, Problemi di filologia delle strutture, in La critica del testo. Problemi di metodo ed esperienze di lavoro. Atti del Convegno di Lecce (22-26 ottobre 1984), Salerno Editrice, Roma 1985, pp. 383-401, che si richiama anche al lavoro condotto per l’edizione critica dei Canti.

[50] È stato rimarcato anche da un recensore d’eccezione, non certo prevenuto, quale G. Gorni, Le gloriose pompe (e i fieri ludi) della filologia italiana, oggi, in “Rivista di letteratura italiana”, iv (1986), pp. 391-412.

[51] Introduzione all’ed. critica cit., p. xviii.

[52] Cfr. D. De Robertis, Una “contraffazione” d’autore: il “Passero solitario” (1976), in Leopardi, la poesia cit., pp. 279-332; ma già prima, dello stesso, La data dei “Canti”, in Leopardi e l’Ottocento. Atti del ii Convegno internazionale di studi leopardiani (Recanati, 1-4 ottobre 1967), Olschki, Firenze 1970, pp. 233-261; e l’importante A. Monteverdi, La data del “Passero solitario” (1958), in Frammenti critici leopardiani cit. (con due Poscritte, datate 1965 e 1966), pp. 67-101.

[53] Il loro contenuto venne reso noto, secondo l’inventario del notaio Alessandro delli Ponti, da C. Antona-Traversi, Il catalogo de’ manoscritti inediti di Giacomo Leopardi sin qui posseduti da Antonio Ranieri, Lapi, Città di Castello 1889.

[54] Si veda a questo proposito F. Mariotti, I manoscritti leopardiani. Interpellanza nel Senato del Regno, Forzani e C., Roma 1987, nel quale sono riportati gli interventi pronunciati a Palazzo Madama nella seduta del 9 aprile 1897 dedicata ai  manoscritti leopardiani, dei quali viene anche ripubblicato il catalogo (sempre tratto dall’inventario notarile).

[55] 7 voll., Succ. Le Monnier, Firenze 1898-1900. In séguito vennero pubblicati gli Scritti vari inediti di Giacomo Leopardi dalle Carte napoletane, ivi 1906. Le Carte leopardiane vennero consegnate alla Nazionale di Napoli solo nel 1907.

[56] Da segnalare fra le antologie quelle a cura di V. Piccoli (2 voll., Utet, Torino 1920-1921), della “Ronda” (Il testamento letterario di Giacomo Leopardi, La Ronda, Roma 1921; rist. con Premessa di P. Buscaroli, Fogola, Torino 1985), di G. De Robertis (Le Monnier, Firenze 1922, 19733; anche Zibaldone scelto, vol. iii delle Opere di Giacomo Leopardi, Rizzoli, Milano-Roma 1937), di V. Brancati (Società, lingua e letteratura d’Italia (1816-1832), Bompiani, Milano 1941, 19872), di S. e R. Solmi (t. ii delle Opere di Giacomo Leopardi, Ricciardi, Milano-Napoli 1966), di M.A. Rigoni (La strage delle illusioni. Pensieri sulla politica e sulla civiltà, Adelphi, Milano 1992, 19932; e Tutto è nulla. Antologia dello “Zibaldone di Pensieri”, Rizzoli, Milano 1997). In corso di pubblicazione presso l’editore Donzelli di Roma un’edizione tematica in sei volumi “stabilita sugli Indici leopardiani”, curata da Fabiana Cacciapuoti, con prefazioni di Antonio Prete (sinora usciti: Trattato delle passioni, 1997, e Manuale di filosofia pratica, 1998).

[57] A c. di F. Flora (2 voll., Mondadori, Milano 1937, 19738) e a c. di W. Binni, con la collaborazione di E. Ghidetti (vol. ii di Tutte le opere di Giacomo Leopardi, Sansoni, Firenze 1969, 19896).

[58] G. Leopardi, Zibaldone di Pensieri, Edizione fotografica dell’autografo con gli indici e lo schedario, a c. di E. Peruzzi, 10 voll., Scuola Normale Superiore, Pisa 1989-1994 (il vol. x. Indici e schedario, è stato curato dalla équipe che custodisce e studia le Carte Leopardi presso la Biblioteca Nazionale di Napoli: S. Acanfora, M. Andria, F. Cacciapuoti, S. Gallifuoco, P. Zito).

[59] G. Leopardi, Zibaldone di Pensieri, Edizione critica e annotata a c. di G. Pacella, 3 voll., Garzanti, Milano 1991. L’edizione, cui Pacella aveva lavorato per moltissimi anni, stentò a lungo a trovare un editore: pronta per la stampa già negli anni Ottanta, più volte annunciata come imminente e poi sempre rimandata, trovò infine collocazione nei prestigiosi “Libri della Spiga”, collana allora diretta da Lucio Felici. Sulla base del testo critico stabilito da Pacella sono state poi pubblicate, con opportune correzioni, due nuove edizioni dello Zibaldone: edizione commentata e revisione del testo critico a c. di R. Damiani, 3 voll., Milano, Mondadori 1997; Edizione integrale diretta da L. Felici, Premessa di E. Trevi, Indici filologici di M. Dondero, Indice tematico e analitico di M. Dondero e W. Marra, Newton & Compton, Roma 1997.

[60] Mentre scrivo (ottobre 1998) non è ancora uscito il desideratissimo nuovo epistolario leopardiano a c. di F. Brioschi e P. Landi; sono ancora costretto dunque a citare dall’Epistolario di Giacomo Leopardi, nuova edizione ampliata con lettere dei corrispondenti e con note illustrative a c. di F. Moroncini, 7 voll., Le Monnier, Firenze 1934-1941, iv, pp. 176-177.

[61] Nel citato capitolo “Filologia d’autore”, dell’Introduzione agli studi di filologia italiana, alle pp. 163-168.

[62] Oltre agli articoli apparsi sulla stampa quotidiana e periodica, per i quali cfr. E. Giordano, Il labirinto leopardiano II. Bibliografia 1984-1990 (con una appendice 1991-1995), Liguori, Napoli 1997, pp. 79-81 e 83-84, e all’intervento dello stesso E. Peruzzi, Lo “Zibaldone” leopardiano della Scuola Normale Superiore, in “Il Veltro”, xxxiv (1990), pp. 455-462, cfr. tra gli altri N. Bellucci, L’edizione critica dello “Zibaldone” leopardiano, in “La Rassegna della letteratura italiana”, xcvii (1993), pp. 153-158, M. Marti, L’edizione Pacella dello “Zibaldone” leopardiano, in “Giornale storico della letteratura italiana”, clxxi (1994), pp. 590-596, G. Nencioni, Fatti di lingua e di stile nelle correzioni autografe dello “Zibaldone” (viste in fotografia), in Lingua e stile di Giacomo Leopardi. Atti dell’viii Convegno internazionale di studi leopardiani (Recanati 30 settembre-5 ottobre 1991), Olschki, Firenze 1994, pp. 3-20, e M. Dondero, Filologia leopardiana. Sul decimo volume dell’edizione fotografica dello “Zibaldone”, in “La Rassegna della letteratura italiana”, ci (1997), pp. 89-98 (dal quale riprendo qui varie notazioni). Importante dal punto di vista delle metodologie ecdotiche E. Malato, Edizione in fac-simile, edizione diplomatica, edizione critica, in “Filologia e Critica”, xvi (1991), pp. 3-19.

[63] Per non dire, più in generale, che la scelta fotografica potrebbe essere considerata rinunciataria, “un venir meno al compito istituzionale del filologo, compito che è quello di mediare tra stato originario del testo e lettore, di fare lui solo una gran fatica per risparmiarla ad altri” (Stussi, “Filologia d’autore” cit., pp. 173-174).

[64] G. Pacella, Introduzione all’ed. cit., i, p. xii; corsivi miei.

[65] E. Peruzzi, introduzione (non titolata) all’ed. fotografica cit., i, pp. xi-xii. Peruzzi si riferisce naturalmente non all’edizione critica (ancora pubblicanda), ma ai criteri esposti da Pacella nel saggio Lo Zibaldone. Composizione e stratificazione, in Biblioteca Nazionale Napoli, Giacomo Leopardi cit., pp. 402-410 (criteri basati su quelli formulati da S. Timpanaro jr., Appunti per il futuro editore dello “Zibaldone” e dell’epistolario leopardiano, in “Giornale storico della letteratura italiana”, cxxxv [1958], pp. 607-626).

[66] Da ultimo (recuperando un suo precedente lavoro) si è espresso in favore di un legame fra tutti e tre i passi (appunto iniziale, versi, “favoletta”) N. Bonifazi, Leopardi. L’immagine antica, Einaudi, Torino 1991, pp. 62-67; contrario a questa interpretazione, in favore invece di una lettura congiunta esclusivamente di appunto iniziale e versi, L. Felici, La luna nel cortile. Trame di poesia nello “Zibaldone”, in “Filologia e Critica”, xviii (1993), pp. 175-193 (181-185), al quale senz’altro rimando, per la finezza dell’analisi e per la bibliografia precedente.

[67] Anche la lettura dell’avverbio è controversa: Peruzzi nell’introduzione all’ed. fotografica cit., p. liii n. 5, propende per la lettura “lunge”.

[68] G. Panizza, Un problema di ecdotica: la distinzione dei pensieri nello “Zibaldone” di Leopardi, in “Operosa parva” per Gianni Antonini cit., pp. 293-305. Le proposte di correzione avanzate da Panizza sono state accolte sia nell’edizione dello Zibaldone curata da Rolando Damiani sia in quella diretta da Lucio Felici (entrambe già citate).

[69] Cfr. la ricostruzione Appunti preliminari. Argomenti per lo Zibaldone del gruppo di lavoro napoletano, nel x vol. dell’ed. fotografica cit., pp. 507-549. Ma su questo, e sull’altra importante discordanza intepretativa fra Pacella e gli studiosi napoletani: la funzione e la datazione dei due cosiddetti ‘protoindici’ dello Zibaldone, Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura e “Danno del conoscere la propria età” (secondo Pacella, entrambi ‘prove’ condotte prima di stendere l’Indice del 1827, e dunque databili al 1826; secondo gli studiosi napoletani, condotti in vista della composizione delle Operette morali, e dunque databili rispettivamente al 1823 e al 1824), mi permetto di rimandare ancora a Dondero, Filologia leopardiana cit., rispettivamente pp. 96-98 e 94-95.

[70] “Entro dipinta gabbia”. Tutti gli scritti inediti, rari e editi 1809-1810 di Giacomo Leopardi, a c. di M. Corti, Bompiani, Milano 1972; rist. nei “Tascabili Bompiani” nel 1993.

[71] Rispettivamente 5 (1972), pp. 135-179; e 10 (1975), pp. 123-154 e 11 (1975), pp. 131-162.

[72] G. Leopardi, Dissertazioni filosofiche, a c. di T. Crivelli, Antenore, Padiva 1995. L’edizione, lungamente attesa, di queste prose, è stata causa nel corso degli anni Ottanta di un’aspra disputa fra alcuni studiosi (in primo luogo Sebastiano Timpanaro) e la famiglia Leopardi (accusata da Timpanaro di aver tradito l’impegno di pubblicare i testi giovanili con il Centro studi leopardiani, concedendoli invece, per motivi di lucro, a privati editori). Si vedano a questo proposito il volume di Giordano, Il labirinto leopardiano II cit., pp. 88-89 (con opportuno richiamo al suo precedente Labirinto, ESI, Napoli 1986, pp. 39-46) e F. Di Gregorio, Struttura e storia delle “Dissertazioni filosofiche” leopardiane, in “Critica letteraria”, xxi (1993), pp. 649-688.

[73] G. Leopardi, Dialogo filosofico, a c. di T. Crivelli, Salerno Editrice, Roma 1996.

[74] Id., Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, a c. di G.B. Bronzini, Edizioni Osanna Venosa, Venosa (PZ) 1997, p. 56.

[75] G. Rando, La norma e l’impeto. Studi sulla cultura e sulla poetica leopardiana, Herder, Roma 1992, pp. 177-205.

[76] G. Leopardi, Appressamento della morte, edizione critica a c. di L. Posfortunato, presso l’Accademia della Crusca, Firenze 1983. Sull’edizione ha espresso un giudizio lusinghiero M. Marti, in «Giornale storico della letteratura italiana», clxi (1984), pp. 615-617.

[77] Le Monnier, Firenze 1969.

[78] Le Monnier, Firenze 1976.

[79] Un indirizzo di ricerca aperto dal fondamentale volume di S. Timpanaro, La filologia di Giacomo Leopardi, Le Monnier, Firenze 1955 (ora giunto alla 3ª ed. riveduta con Addenda, Laterza, Bari 1997).

[80] Il volume è uscito presso Il Mulino di Bologna. Di Moreschini si veda il saggio Considerazioni sulla filologia di Giacomo Leopardi, in Leopardi: poesia - filologia - pensiero, a c. di P. Gibellini e C. Moreschini = fasc. speciale di “Humanitas”, liii (1998), pp. 187-213, che prima definisce lo status quaestionis riguardo agli studi sulla filologia leopardiana e si sofferma poi sull’edizione del Giulio Africano.

[81] G. Leopardi, Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, a c. di O. Besomi et alii, Edizioni Casagrande, Bellinzona 1988.

[82] Sulla fruttuosità dell’esperienza del lavoro di gruppo anche nell’àmbito degli studi letterari Besomi si è diffuso nella relazione tenuta all’Incontro su Il testo e la ricerca d’équipe. Esperienze di lavoro di gruppo nelle discipline umanistiche (Viterbo, 24-26 settembre 1990), Atti pubblicati da Salerno Editrice, Roma 1995 (la relazione di Besomi alle pp. 154-165).

[83] G. Leopardi, Scritti e frammenti autobiografici, a c. di F. D’Intino, Salerno Editrice, Roma 1995.

[84] A proposito dell’autografo della Vita abbozzata di Silvio Sarno si veda anche F. D’Intino, Poesia e grammatica. Di alcune ‘sviste’ leopardiane, in “Studi e problemi di critica testuale”, 50 (1995), pp. 53-61.

[85] Sull’edizione è intervenuto E. Fenzi, Il romanzo interrotto di Giacomo Leopardi, in “Nuovi Argomenti”, 1995, n° 5, pp. 123-129.

[86] G. Leopardi, Operette morali, Edizione critica a c. di O. Besomi, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano 1979.

[87] Id., Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani, edizione diretta e introdotta da M.A. Rigoni, testo critico di M. Dondero, commento di R. Melchiori, Rizzoli, Milano 1998. La giustificazione di varie correzioni apportate al testo vulgato, procurato da Francesco Flora, nella Nota al testo (pp. 25-42). Per un’analisi del manoscritto autografo, e per la proposta di datazione del testo alla primavera-estate 1824, cfr. M. Dondero, La datazione del “Discorso” sui costumi degl’Italiani di Giacomo Leopardi, in “Studi di filologia italiana”, lvi (1998), pp. 297-319.

[88] G. Leopardi, Pensieri, a c. di A. Prete, Feltrinelli, Milano 1994

[89] Il quale aveva già fornito un dettagliato intervento Sull’autografo dei “Pensieri” leopardiani, estr. anticipato da “Messana”, i (1989), pp. 1-36.

[90] L. Danzi, Osservazioni sul testo dei “Paralipomeni”, in Per Cesare Bozzetti. Studi di filologia e letteratura italiana, a c. di S. Albonico, A. Comboni, G. Panizza, C. Vela, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano 1996, pp. 615-636.