Archivio Giovanni Testori
Cronologia
1923 – 1950
1951 – 1970
1971 – 1993
A cura di Fulvio Panzeri
Anni 1923 – 1950
1923
Giovanni Testori nasce a Novate Milanese, un paese della periferia milanese, il 12 maggio. Il padre e la madre sono nativi dell’Alta Brianza, della zona a nord di Canzo, oltre Erba, un paesaggio montano che si affaccia da una parte su Bellagio e dall’altra sui laghi brianzoli del Lecchese: Pusiano, Annone, Oggiono. Il padre, Edoardo, è di Sormano e la madre, Lina Paracchi, di Lasnigo, due paesi confinanti. Molti ricordi testoriani riguardano il periodo dell’infanzia e soprattutto le figure familiari alle quali è molto legato: «Mio padre è venuto a Novate agli inizi del secolo, con suo fratello. A Sormano avevano qualche telaietto per il tessuto e, avendo raccolto un po’ di risparmi, sono scesi in pianura, dai monti, in cerca di fortuna. Poi la filanda si è ingrandita ed è diventata uno stabilimento. Mio papà aveva conosciuto mia mamma perché mio zio era sposato con la zia di mia mamma. Mia zia era malata di cancro e allora mia mamma era venuta giù, da Lasnigo, per assisterla e curarla. Ricordo bene questa storia di mio papà che si era innamorato di mia mamma. Siccome le parole cristiane erano un segno da rispettare, non aveva osato dirlo. Nel momento in cui aveva saputo che sarebbe ripartita e doveva ritornar su, perché la malattia di mia zia diventava lunga, lui aveva finalmente osato. Discretamente però. C’erano i gerani fioriti, rossi, sui davanzali e mio papà aveva messo un bigliettino per mia mamma. Lei l’aveva letto e aveva capito. Dopo la guerra si sono sposati. Io sono nato terzo di sei fratelli: una sorella, Piera, un fratello, Giuseppe, io e le altre tre sorelle, Marisa, Lucia e Lella».
1928
Il piccolo Testori, con il fratello e le sorelle, accompagnato dalla madre, ritorna spesso a Sormano e a Lasnigo, dove i Testori hanno ancora la casa e una villa, soprattutto per le vacanze estive. Proprio in uno di questi soggiorni si situa un episodio assai importante della sua infanzia, ricordato dallo scrittore in più di un’intervista e al quale riconduce la propria ‘ossessione’ verso i ‘disperati’ o ‘irreparabili’: «Tornavamo a casa io e mia mamma, da Lasnigo. Eravamo andati a fare la spesa. Avrò avuto due anni e mezzo o tre, sì, tre anni. Era l’ora della sera, dell’imbrunire ed ecco che, davanti a noi, per la strada, scendeva un uomo, con la testa reclinata, tra due carabinieri. Era legato con le catene. Veniva verso di noi. Conoscevo quell’uomo, l’avevo visto passare qualche volta mentre noi bambini si era a giocare nei prati. Incrociandomi sulla strada mi ha guardato e ha aperto la bocca per dirmi... non so, non so proprio cosa volesse rivolgere a me. Non riuscii a sentire. Forse un semplice “ciao” o forse, chissà. Poi mi sono voltato e anche lui si voltò e ancora aprì la bocca, ma eravamo ormai troppo lontani.
Io ho chiesto piano, sottovoce, a mia mamma: “Ma cos’ha fatto?”. E lei, svelta, per non farsi sentire: “Pare che abbia rubato una mucca...”.Intanto pensavo al destino che l’avrebbe aspettato e mi chiedevo: “Dove va?”, “Non vedrà più nessuno?”, e soprattutto, “Cosa m’ha detto?”.
Lo seguivo con le mie domande in testa mentre scendevo, ricordando come mi aveva guardato, così, fisso. Io, fin d’allora, ho sentito – ne ho avuto proprio la percezione – che dentro quello sguardo quasi implorante, si ponesse netto il segno. Quasi che quegli occhi che mi guardavano avessero scritto dentro alle pupille quello che io sarei diventato.
Quell’uomo rappresentava per me uno stato di imprigionamento e poi ricordo quelle catene, nell’ombra, strette ai polsi e il dolore connesso che l’intera scena che mi si era parata innanzi – i carabinieri che portavano via un uomo, un pover’uomo – racchiudeva in sè. È questo un ricordo che mi perseguita e ogni volta che mi riappare ho un grumo di interrogazioni che si sviluppano dentro. Cosa posso fare io perché quella bocca che s’è aperta davanti ai miei occhi, in quella sera, non muoia? Cosa posso fare perché non venga diminuito il suo segno, non solo in me, ma nella sua realtà? Qual è quella parola?».
1934
Dopo il ciclo delle elementari a Novate, compie gli studi, dalla Media al Liceo Classico, al Collegio Arcivescovile S. Carlo di Milano: «Sono andato a scuola un anno a Novate, poi con mio fratello hanno deciso di mandarci al San Carlo, a Milano. All’inizio non è stato facile. Ricordo ancora quella prima volta che mi sono presentato con mia mamma. Parlavamo in dialetto, l’abbiamo sempre parlato in famiglia. Molti mi indicavano e ridevano: “Guarda quello lì che parla in dialetto...”. Prima di iscrivermi al Liceo Classico avevo iniziato a frequentare l’Istituto Tecnico Commerciale, sempre al S.Carlo. Ho passato un anno di rifiuto totale della scuola. Così sono stato bocciato. L’anno dopo ero riuscito a farmi accettare, anzi facevo il bullo e avevo in mano i miei compagni. Però la situazione non era migliorata, tanto che il rettore aveva convocato mio padre e gli aveva detto: “Non mi sembra che questo ragazzo abbia doti particolari. L’unica cosa che può fare è ragioneria”. Non ero portato nemmeno per quello, perché non capivo niente di matematica. Poi ho fatto l’esame per il ginnasio e sono andato avanti: non che studiassi molto, ma leggevo da solo, andavo a vedere le mostre. Ho ancora, da qualche parte, un catalogo della mostra di Correggio che mi sono fatto regalare da mia mamma, a 12 anni, per San Giovanni».
1938-1940
Dipinge alcuni quadri e già si occupa di teatro. Tra i suoi ricordi emerge una prima rappresentazione dell’Amleto, quando era sfollato in Valassina, a casa dei genitori: «Avevo già recitato qualche volta, ma con altri ragazzi che si trovavano là, formai una compagnia. Allestimmo l’Amleto di Shakespeare presso il santuario di Campoè, che si trova in mezzo ai boschi. La scena era tra i due pilastri del cancello del santuario, con i fari di due automobili, dietro, che la illuminavano.Era piuttosto suggestivo, nonostante la pochezza degli attori, soprattutto nella scena del funerale di Ofelia, che noi avevamo trasformato in una specie di processione. Con la resina degli alberi avevamo fatto delle torce, che demmo poi ai bambini della casa dei Martinitt lì vicina. Il cadavere di Ofelia veniva trasportato dal fondo della chiesa su una barella di fortuna, per cui gli spettatori videro avanzare questo corteo illuminato... Fu un gran successo!».
Nel 1939 pubblica sulla rivista «Domus» di Gio Ponti un articolo sulla mostra di Caravaggio.
1941-1943
Pubblica, firmandosi Gianni Testori, i primi scritti d’arte su «Via Consolare», legata al gruppo di Pattuglia. Si occupa di artisti contemporanei (Cantatore, Guidi, Carrà, Gio Ponti, Scipione, Cassinari), ma anche di Segantini e Giorgione e scrive un Discorso sulle mani di Leonardo.
Nel 1942, esordisce anche come drammaturgo con due atti unici, mai rappresentati, La morte, Un quadro, pubblicati, prima su «Via consolare” e, poi, un anno dopo, in un libretto delle Edizioni di Pattuglia. In quegli anni collabora ad altre riviste universitarie del Guf, quale ad esempio, «Architrave», pubblicata a Bologna, dal 1940 al 1943, e a cui collaboravano, oltre a Gianni Testori, tra gli altri Gaetano Arcangeli, Renzo Renzi, Pier Paolo Pasolini, Enzo Paci e Libero Bigiaretti.
Sul n.7 del 10 febbraio 1943 di «Posizione», la rivista novarese degli universitari fascisti che pubblicò tra gli altri Del Buono, Morovich, Lattuada, Bartolini, Strehler, De Pisis, esce il suo primo racconto: Morte di Andrea.
Nel 1943 pubblica anche i primi scritti d’arte in volume: Manzù. Erbe per le edizioni di Pattuglia e Henri Matisse per Görlich di Milano.
1943-1944
A Sormano scrive i tre atti di Cristo e la donna, dedicati all’amico Vittorio Santagostino. «Da ragazzino io scrivevo e disegnavo nello stesso tempo. Ho scritto su Carrà a 16 anni. E cose di teatro, molto presto. Una mia opera Cristo e la donna mi è stata poi copiata. Ho scritto, disegnato, dipinto tanto...». In questo testo teatrale sorprendentemente si ritrova tutto il mondo testoriano e innanzitutto l’idea del teatro che da rappresentazione si fa vita e coinvolge gli spettatori. In un’avvertenza iniziale infatti Testori scrive: «Ho creduto opportuno ridurre le didascalie del dramma, pensato come rappresentazione che si svolgesse su una strada di città, alle condizioni imposte dalla tecnica della scena, perché m’è parso che qui, assai più probabilmente che là, l’eventuale regista sarà costretto a concertarlo; s’intende che di una rappresentazione che si svolga all’aperto, tra case abitate, il primo a esserne contento sarebbe l’autore». Il mondo popolare, con le sue processioni e le rappresentazioni della Via Crucis rimanda al «gran teatro montano» di Gaudenzio Ferrari, che sarà un punto fermo della ricerca critica di Testori. La processione che lo scrittore inscena si svolgeva realmente nelle sue terre natie, tanto che in un saggio dedicato a Morlotti, così la descrive: «Nei giorni stabiliti, partendo dal paese, una lunga processione si recava verso la Cappella: quasi sempre l’ora coincideva con lo scendere giù, dai monti di Crezzo, delle grige ombre; lungo il sentiero le candele dei processionanti prendevano a tremare, stelle dei poveri e belanti cristiani che salivano per invocar un senso: il senso da darsi, ecco, alla vita; e, ove già lo possedessero, per invocar la forza di custodirlo». Nel dramma riecheggiano già echi figurativi, tanto che il Reverendo, ad un certo punto dice: «Ma gli usignoli non c’entrano con la Crocifissione, scusi. Se le dico che era una sera tempestosa! Non ha mai visto come la dipingono i pittori? Delle nuvolaglie grigiastre, rigate di rosso, poi in fondo altre, gialle e verdi...». La centralità, la coesione con ciò che Testori avrebbe scritto in seguito, è rappresentata dall’essere stesso del dramma: la donna che riconosce in colui che raffigura Cristo l’uomo che l’ha abbandonata e che la vuole complice di un delitto diventa il tramite per effettuare una discesa nel gorgo buio del peccato, ricostruito, come atto penitenziale, nel corso della Sacra Rappresentazione. Così l’effigie di Cristo trova una nuova figurazione sul volto e dentro colui che ne indossa la tunica. La vita e la memoria della Passione non solo coincidono, ma si sovrappongono. La carne di Cristo e quella dell’uomo peccatore diventano un’unica carne che tenta di riconoscere, appunto, il suo «senso».
1945-1947
Illustra un’edizione delle Laudi di Jacopone da Todi, pubblicata da Görlich. Inizia una intensa collaborazione con alcune piccole riviste degli artisti milanesi quali «Argine Numero» e «Numero pittura», con articoli teorici sull’arte, sul suo essere pittore e sulla nuova idea di pittura che si discosta notevolmente dalle posizioni di «Corrente». Realtà nella pittura apre, nel 1945, il primo numero di «Argine Numero», e Testori sottolinea come «Guttuso da Roma ci parlava di un cubismo sporco e compromesso», mentre «più direttamente e con altra coscienza e altri interessi, di cubismo ci parlava Morlotti». Nel secondo numero della rivista, del marzo 1946, appare il Manifesto Oltre Guernica, più noto come Manifesto del realismo, redatto in occasione di una mostra al Caffè di Brera e del premio «Oltre Guernica», dedicato a Ciri Agostoni, un pittore ventiduenne, morto durante la preparazione di un’azione partigiana. Testori è tra i redattori del Manifesto e lo sottoscrive con Giuseppe Ajmone, Rinaldo Bergolli, Egidio Bonfante, Gianni Dova, Ennio Morlotti, Giovanni Paganin, Cesare Peverelli, Vittorio Tavernari, Emilio Vedova. Il Manifesto, che si basava sull’idea di non fermarsi all’esperienza picassiana di Guernica, esordisce con una dichiarazione d’intenti: «1) Dipingere e scolpire è per noi atto di partecipazione alla totale realtà degli uomini, in un luogo e in un tempo determinato, realtà che è contemporaneità e che nel suo susseguirsi è storia». Viene anche chiarito il concetto di realtà: “3) In arte, la realtà non è il reale, non è la visibilità, ma la cosciente emozione del reale divenuta organismo. Mediante questo processo l’opera d’arte acquista la necessaria autonomia. Realismo non vuol dire quindi naturalismo o verismo o espressionismo, ma il reale concretizzato dell’uno, quando determina, partecipa, coincide ed equivale con il reale degli altri, quando diventa, insomma, misura comune rispetto alla realtà stessa».
Sulla stessa linea polemica, Testori interviene su «Numero pittura», nel marzo 1947, con una lettera in risposta a un intervento di Renato Guttuso su Picasso e la sinistra. Così esordisce Testori: «Caro Guttuso, scrivo a te come al solo che direttamente conosco fra gli amici romani che hanno esposto in quest’inizio di primavera qua, a Milano, presso la Galleria Santo Spirito e perché di tutti loro sei sempre stato il più impegnato a intervenire con le parole. Puoi pensare con quanto interesse e quanta attesa ho visitato la vostra mostra e in particolare i tuoi lavori, tanto più che dal periodo del «Gott mit uns» non avevo visto più niente di tuo. La pigrizia e il rimorso non appena lascio il luogo abituale del mio lavoro, mi hanno impedito di fare il pur piccolo viaggio che divide Milano e Roma: per me, quindi, la mostra era un po’ un appuntamento che tanto avevo rimandato, tanto mi s’era fatto vivo d’interesse». Ma il punto «capitale» della lettera, come la definisce Testori, è il confronto sulle due posizioni degli artisti: «Io credo infatti che il pittore debba avere in sè l’immagine, prima di realizzarla sulla tela, e che questa immagine non gli possa nascere che da una sua posizione davanti e dentro il mondo, da una verità, insomma, che quella sua posizione e convinzione determini. Ora io sono comunista, tu lo sai bene, ma cristiano e cattolico, e, proprio perché tale, non posso impedire a ciascuno la ricerca di quella che egli crede sia la verità e poi l’affermazione di essa, anche se per me tale non è (non posso insomma ripetere l’errore che hai fatto tu parlando di Cristo in modo spicciolo, sbrigativo e volgare. Cristo non si ferisce con queste piccole ed errabonde irriverenze, credimi, ma tanto meno in tal modo lo si può liquidare), ma mi domando se tutto questo equivoco che sta alla base di tanta pittura e anche della vostra, non sia da cercare in un altro equivoco, che tu hai perpetrato scrivendo queste parole: “una verità attiva, una verità combattuta, cercata nel mare della fantasia e dell’immaginazione”. Ma la verità può essere cercata nel mare della fantasia e dell’immaginazione? [...] Caro Guttuso, io non credo che il problema sia di poter arrivare alla realtà, ma di poter partire dalla realtà. Di avere cioè una fede che questa partenza permetta. E non tanto per dipingere, credimi, quanto per vivere».
A Milano frequenta la Facoltà di Lettere e Filosofia all’Università Cattolica e ha uno studio, dove dipinge: «Durante l’università avevo preso in affitto un abbaino in via Santa Marta, grazie a padre David Maria Turoldo. Era un abbaino piuttosto spazioso, in cui ospitai anche diverse famiglie di meridionali in cerca di lavoro, che non avevano casa. In breve, quello studio diventò un vero porto di mare».
1947
Si laurea in Lettere all’Università Cattolica di Milano con una tesi sull’estetica del surrealismo che fa discutere: «Alla Cattolica bisognava fare una specie di giuramento. Non si dovevano abbracciare le tesi del Modernismo. Così quando ho dovuto discutere la mia tesi mi volevano quasi mandar via. Sapevo già che certe pagine erano state giudicate eretiche e contestate, perché semplicemente citavo le tecniche del surrealismo, che si basavano su meccanismi automatici, legati alla sessualità. Entro e si alza il presidente, Mochi Onory, col suo collo d’ermellino che mi è rimasto così impresso e dice: “La Commissione ha preso atto della sua tesi, ma non ritiene che sia degna d’essere discussa in questa università”. Ho richiesto di averla indietro per andare a discuterla da un’altra parte. Mi sono informato: per passare alla Statale era troppo complicato, dovevo dare altri cinque esami. Così ho tolto le pagine che li avevano scandalizzati e mi sono ripresentato dopo un mese. Alla fine della discussione ho preso 110, ma senza lode. Però quella tesi già non mi interessava più».
1948
Il 10 gennaio, va in scena al teatro della Basilica di Milano, con la regia di Enrico D’Alessandro la Caterina di Dio, interpretato da Franca Valeri che si faceva chiamare Franca Norsa, tre atti già caratterizzati da quell’elemento del sangue (scende dalla corona di spine alle mani di Caterina, segnate dalle stimmate) che percorre l’opera testoriana. In questa rappresentazione nella quale i critici del tempo ritrovavano «una scoperta parentela pirandelliana», è la forza del male, sentito come colpa e lacerazione, come baratro, a rappresentare il centro dell’espressione teatrale. «In Caterina di Dio c’era la spontaneità prodigiosa della vita che non chiede che di vivere e di morire, c’era l’orrore del male e del sangue, ma una riserva intatta di forza» scrive Mario Apollonio, nel 1960, su «Humanitas». Lo definisce anche «uno dei più singolari drammi sacri del dopoguerra” e ricorda una Franca Valeri «esangue ed arsa nell’abito bianco della domenicana».
1948-1949
Lavora ai bozzetti per gli affreschi raffiguranti i Quattro Evangelisti che gli vengono commissionati da padre Camillo De Piaz per la chiesa di San Carlo a Milano. Gli affreschi, realizzati nelle vele della Basilica e definiti «picassiani», non piacciono ai Padri Serviti. Testori li distrugge, nel 1949, anche a seguito dell’intervento della Sovrintendenza ai Monumenti, ricoprendoli con un’imbiancatura. Distrugge anche tutti i dipinti eseguiti fino a quel periodo. È stata recentemente recuperata una Crocifissione del 1949, presentata, per la prima volta, nella mostra di Aosta (1993). Un altro piccolo dipinto di Testori di quel periodo è presente nella collezione Zavattini.
1949-1950
Scrive le due versioni di Tentazione nel convento e spedisce il testo, che non verrà mai rappresentato, a Orazio Costa. Protagonista è suor Marta Solbiati di Arcisate, il cui segno distintivo è la visione: mistica, a dodici anni, quando la Madonna le appare sulla riva del fiume; nell’evolversi del dramma, diventa infernale, tanto da intraprendere una vera e propria lotta con le bestie che le invadono l’anima. Sull’intera vicenda echeggia, quasi figurazione del male, il latrato del cane in lontananza che rende inquietante, forma stessa del dramma, l’incedere lucido e cristallino della prosa testoriana, così sempre in bilico sul baratro del male che affonda i suoi morsi. Quasi per ricondurre la fede al mistero dell’incarnazione: tanto che quando la bestia si impadronisce di lei, suor Marta dice: «Chiusa nell’alveo del suo ventre, mi parve d’essere tornata nella carne stessa di mia madre».
Il 1° marzo 1950 va in scena al Teatro «Verdi» di Padova, con la Compagnia del Teatro dell’Università e la regia di Gianfranco de Bosio, Le Lombarde, un testo che, forse, più degli altri coevi (le invocazioni della Tentazione: il «Cristo, aiutaci – nell’ora della morte liberaci» delle converse), porta incisi i segni della lezione del capolavoro di Gerald Manley Hopkins, Il naufragio della Deutschland, assai frequentato da Testori in questi anni. Anche nella «lamentazione» testoriana il centro è rappresentato da un naufragio, un fatto di cronaca del tempo. Protagonista è il coro delle madri che trasforma in tragedia il loro dolore, quello di aver perduto in mare, al largo di Albenga, i propri figli su un vecchio battello finito contro gli scogli e subito inabissatosi. Scrive Gastone Geron sul «Gazzettino Sera»: «Le Lombarde si concludono con un grido di accusa che è bestemmia, ribellione, nella pretesa di sapere tutti i perché. Il fato greco che schiaccia conserva nella tragedia testoriana tutto il suo peso tremendo. Anche se nelle parole ultime che la concludono, quella “lotta con Dio” delle madri esacerbate può sembrare speranza di sottomissione». Mette in luce anche la scenografia: “Parallelepipedi bassi, sfumati in un color grigio, tetro e agghiacciante, sotto un cielo azzurro, spaventosamente azzurro: e un piano degradante dove i personaggi appaiono immersi e poi si fanno proporzionati come scendono da quel piedistallo di case senza finestre, con tetti bizzarri e bizzarro gioco di volumi. Qui, in questo desolato scenario – che è sintesi stilizzata della periferia rumorosa, affaticante e ansante della grande Milano – si svolge l’azione».
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Anni 1951 – 1970
1951-1952
Scrive Il Dio di Roserio e inizia la collaborazione con «Paragone». «Conobbi Longhi a Milano, alla mostra del Caravaggio. Avevo scritto un saggio sui pittori lombardi al tempo della peste. Un’amica comune glielo mostrò: vi facevo attribuzioni che lo interessarono. Mi volle conoscere. Disse che avevo ragione. Io non uscivo dalla cerchia dei suoi allievi d’università. Ero uno che veniva da fuori. Ma mi volle bene subito, e io gliene ho sempre voluto. Mi sentivo capito da lui, e lui, quando veniva a Milano mi pareva diventasse un altro: si infiammava».
La pubblicazione sul numero 27 della rivista del saggio su Su Francesco del Cairo fa discutere: «Fu uno dei miei primi scandali. Longhi però mi disse semplicemente: “Guarda che molti si sono lamentati…”. Solo prima di morire mi mostrò le lettere che, a quell’epoca, aveva ricevuto: una valanga d’insulti». Alla prestigiosa rivista Testori collaborerà in seguito attivamente occupandosi di Ceresa, del Cerano, del Ghislandi, del Pianca e del Nuvolone, del Ceruti, di Tanzio, di Romanino, di Correggio e di Giorgione, di Manet e di Gericault.
1953
Partecipa all’organizzazione della mostra: I pittori della realtà in Lombardia che si tiene a Palazzo Reale, a Milano. Stende, insieme a Renata Cipriani, le schede del catalogo che contiene una presentazione di Roberto Longhi («...gli anni indimenticabili dell’insegnamento di Roberto Longhi che di questa mostra è il vero, grande patrono...»). L’esposizione è imperniata su pittori quali Moroni, Ceresa, Fra’ Galgario, Ceruti, di cui Testori si occuperà in varie occasioni, anche come collezionista d’arte.
1954
Pubblica nei «Gettoni» di Einaudi, collana diretta da Elio Vittorini, la prima opera narrativa, il racconto lungo Il dio di Roserio. Anni più tardi lo scrittore precisa: «...il Dio di Roserio che mangia chilometri e chilometri di Brianza (esistette, seppur variato; non fu, vi prego di crederlo, invenzione dello scrivente; fa, ora, il muratore e ha messo su famiglia)».
1955
Organizza la Mostra del manierismo piemontese e lombardo del Seicento che si tiene a Palazzo Madama a Torino, e al Centro Culturale Olivetti di Ivrea, di cui cura anche il Catalogo. Vengono presentate sessanta opere di Moncalvo, Cerano, Morazzone, Procaccini, Tanzio, Daniele Crespi, Nuvolone, Del Cairo.
1956
Organizza la Mostra su Gaudenzio Ferrari a Vercelli, di cui stende, con altri studiosi, il Catalogo.
1957
Pubblica il saggio Realtà e natura in Morlotti, il primo dei «Quaderni d’arte del Centro Culturale Olivetti di Ivrea”, a cura di Vanni Scheiwiller e sul numero 85 di «Paragone»: oltre a ripercorrere «quella spina naturale che regge le civiltà e le accoglie nel loro continuo sgretolarsi», fa un bilancio dell’esperienza di «Corrente» e ritrova in Morlotti una sorta di poetica parallela: «È per tutte queste considerazioni, d’un uomo cioè che non ha rifiutato e non rifiuta la sacralità della materia, cioè la sua crescita naturale, il suo divenir insomma realtà storica, che la posizione di Morlotti, oltre ad essere la più vicina a ciò che io penso sia la modernità, è oggi la più attiva e operante».
1958
Pubblica, per Feltrinelli, nella «Biblioteca di letteratura», diretta da Giorgio Bassani, la raccolta di racconti Il ponte della Ghisolfa che apre il ciclo «I segreti di Milano». Sulla loro stesura lo scrittore dirà in seguito: «Ho sempre scritto a mano. Detesto quel rapporto asettico con la macchina da scrivere, che uso solo per l’ultima stesura. Lavoro bene nelle zone di non appartenenza. I racconti del Ponte della Ghisolfa li ho scritti al parco, nei bar, alla biblioteca d’arte del Castello. Ho sempre lavorato così e non ho mai capito perché: al bar, in treno... Nei luoghi dove non sono “io”». Al libro viene assegnato il Premio Puccini-Senigallia.
Esce la monografia su Martino Spanzotti. Gli affreschi di Ivrea. Il saggio è dedicato a Roberto Longhi che come riferisce Testori: «proprio quest’anno, nella prefazione alla “Mostra dell’arte lombarda dai Visconti agli Sforza”, riprende le sue precedenti affermazioni sulla grandezza del maestro e proprio sul nostro ciclo (gli affreschi di San Bernardino) fonda il suo giudizio circa la parte primaria che lo Spanzotti ebbe a sostenere nella storia pittorica dell’Italia del Nord».
1959
Il ponte della Ghisolfa viene candidato al Premio Strega. Il volume, pur giunto nella rosa dei dieci finalisti, viene poi scartato nella penultima votazione.
Pubblica una seconda raccolta di racconti, sempre da Feltrinelli, La Gilda del Mac-Mahon, in cui rivive anche la passione per la rivista e un racconto, Sì, ma la Masiero, è imperniato sul fascino della famosa soubrette, «una specie di farfalla matta, capace delle cose più straordinarie, di farti rotolar dal ridere, quando tira fuori la voce all’americana, o di farti piangere, quando tira fuori il sentimento».
Organizza la mostra Tanzio da Varallo a Torino, di cui cura anche il Catalogo. Parlando della mostra, sulla “Gazzetta del Popolo”, Luigi Carluccio, il 30 ottobre 1959 esordisce: «Si potrà fra qualche tempo riconoscere che c’è stato un momento particolare della attività di cultura artistica in Piemonte da mettere in gran parte sul conto di Gianni Testori? Io credo di sì, e, nel bene e nel male, si potranno distinguere e misurare poi quegli effetti che nella presente fase ancora dinamica di ricognizione stanno mescolati e compaiono tutti brillanti e ognuno a suo modo appassionante. Si deve a questo giovane studioso se il feudo piemontese, se questa parte occidentale del dominio padano, a cavallo del Sesia e del Ticino, metà pianura e metà monte, sempre irrorata d’acque, viene investigata, rovesciata a fondo».
Lavora alla stesura dell’Arialda e conclude la stesura definitiva del romanzo Il fabbricone.
1960
Il 17 marzo, va in scena, al Piccolo Teatro di Milano, con la regia di Mario Missiroli e protagonista Franca Valeri, La Maria Brasca. Il testo è pubblicato da Feltrinelli ed è indicato come il terzo quadro della serie «I segreti di Milano». Anticipa, inoltre, nella storia di quest’operaia di un calzificio della periferia milanese, che vive nelle vicinanze del Fabbricone, un caseggiato popolare, i temi del romanzo che lo scrittore ha appena concluso.
Nel settembre 1960 viene presentato alla Mostra del Cinema di Venezia il film di Luchino Visconti, Rocco e i suoi fratelli, con Alain Delon, Renato Salvatori, Annie Girardot, il cui soggetto è ispirato al Ponte della Ghisolfa. Nel raccontare la nascita della sceneggiatura Suso Cecchi D’Amico ha ricordato come l’idea di inserire i racconti testoriani ( per la precisione Cosa fai, Sinatra? con l’appendice Il resto, dopo e Il Brianza) sia successiva ad un primo trattamento. Inoltre scrive: «La prima sceneggiatura è stata poi riveduta, limata, tagliata: i dialoghi “milanesi” sono stati corretti da Testori».
L’interesse del cinema per i libri di Testori è confermato anche dal fatto che Renato Castellani compra il soggetto della Gilda del MacMahon e progetta di realizzarne un film, la cui interprete ideale, per il regista, sarebbe Sofia Loren. Già a novembre, invece, il produttore De Laurentiis chiede alla Feltrinelli di leggere le bozze del Fabbricone, per trattarne l’eventuale acquisto dei diritti cinematografici.
Esce lo studio critico dedicato a Gaudenzio Ferrari alle porte di Varallo.
In ottobre la censura preventiva vieta una serie di scene dell’Arialda il testo teatrale che sta realizzando la compagnia Morelli-Stoppa, con la regia di Luchino Visconti. Le scene vengono anticipate sul «Contemporaneo», suscitando un caso e ponendo all’attenzione dei critici il problema della censura. I due attori e il regista, in segno di protesta, riuniscono i critici teatrali al teatro Eliseo di Roma e leggono il copione. La serata è ricordata da Bruno Schacherl sul “Contemporaneo” del dicembre 1960-gennaio 1961: «L’episodio più importante di questa stagione teatrale 1960-61 rimarrà la memorabile serata di novembre nella quale Luchino Visconti, Paolo Stoppa, l’impresario Cappelli e lo scrittore milanese riunirono nelle stanze dell’Eliseo tutti i critici romani e il maggiore regista italiano lesse il copione vietato dalla censura. [...] Quella sera la voce dura, di sfida e di lotta di Visconti che leggeva le battute dell’Arialda e al suo fianco il volto di Rina Morelli che le ripeteva una per una e le lacrime per il personaggio a cui già aveva dato vita e non avrebbe mai camminato sulle scene, sono stati qualcosa di più di uno spettacolo: sono stati l’inizio di una battaglia che sarà certo dura, e conoscerà forse altre sconfitte, ma andrà inevitabilmente avanti e finirà con l’essere vinta».
L’Arialda va in scena, il 22 dicembre, al Teatro Eliseo di Roma, con la regia di Luchino Visconti e la compagnia Morelli-Stoppa. Il libro è pubblicato da Feltrinelli.
1961
A febbraio, dopo 53 repliche romane, lo spettacolo arriva a Milano ma viene tolto dal cartellone del Teatro Nuovo dopo una sola recita, su ordine del procuratore Spagnuolo, «per turpitudine e trivialità». Viene sequestrato il copione dello spettacolo teatrale, l’unico vistato dalla censura e recante il nulla osta. Le repliche vengono sospese. Testori e l’editore Feltrinelli vengono denunciati. Lo «scandalo» dell’Arialda occupa le pagine dei giornali e innesta un dibattito. Sulla questione e sulle polemiche suscitate dal provvedimento interviene anche Pier Paolo Pasolini che scrive: «In questo momento tocca all’Arialda. Io non sono entusiasta di questa commedia di Testori: anzi, ad essere sincero, mi piace molto poco. Devo dire però che considero nell’insieme l’opera di Testori ad un buon livello: ed almeno un suo racconto Il Dio di Roserio mi sembra uno dei migliori della narrativa del Novecento. Ricordo che ne fui entusiasta, appena uscito, alcuni anni fa: e, con Bassani, ne ho addirittura tratto un soggetto cinematografico (progetto che non è poi andato in porto)... Sequestrare l’Arialda è mostruoso. Per ragioni particolari e per ragioni generali. In particolare Testori è uno scrittore assolutamente rispettabile, uno dei migliori che operino in questo momento in Italia».
A marzo pubblica il suo primo romanzo Il fabbricone che, nonostante sia stato accolto con molte perplessità dai critici, ottiene un vasto consenso di pubblico e nel mese di maggio risulta il «best-seller» italiano e guida la classifica delle vendite in Italia. Decisivo il successo milanese che vede il romanzo al primo posto, mentre a Roma è terzo e a Torino si piazza secondo in graduatoria.
Il fabbricone chiude il ciclo «I segreti di Milano», nonostante lo scrittore abbia in progetto una lunga serie di titoli: progetti non realizzati o rimasti inconclusi. Camilla Cederna raccoglie in un racconto-intervista sulla presenza di Milano in letteratura, alcune anticipazioni sui progetti letterari dello scrittore, progetti confermati anche dagli appunti dei quaderni manoscritti: «La cavalla da corsa futura protagonista del settimo libro di Testori (“Telalà la cavalla da corsa” diranno additandola quando esce dal Duomo di Como, dopo la messa di mezzogiorno) è la ragazza abile e intelligente che da impiegata in un setificio, fa carriera senza mai sbagliare un colpo, diventando la proprietaria d’un piccolo stabilimento di foulards e cravatte a Lomazzo.
In una trilogia teatrale invece campeggerà una terrona, che vive a Milano da anni, e precisamente alla Baia del Re. In un altro romanzo ancora la protagonista è La strada di Besnate, che corre lungo le colline di Somma Lombardo ed è stata fatta da un industriale ai tempi del fascismo. La strada di Besnate è la storia dei rapporti tra questa famiglia di ricchi e gli operai del posto, e dell’incontro rovinoso che proprio su questa strada avviene tra il giovane ras industriale e un’operaia. O un operaio? Si chiede Testori... Le linee della Nord infine sarà il titolo d’un altro libro in cui corrono continuamente i treni che da Milano portano in Brianza, sui laghi e nel Varesotto, carichi d’impiegati, impiegate, operai, provinciali annoiate e signori delle ville». Una serie di titoli che conferma la testimonianza di Mario Apollonio sulla «topografia» testoriana di questi anni: «Porta a termine solo un altro romanzo, scritto in questo periodo, Nebbia al Giambellino, rimasto inedito” (sarà pubblicato postumo solo nel 1995 da Longanesi).
Mario Apollonio, su «Humanitas», mette in rilievo la «topografia» dei titoli dei «Segreti di Milano»: «Credo che quei titoli gli rimangan in mente, anzi come palloni frenati, nel vento e nell’aria dei quartieri nordoccidentali di Milano, fra due luoghi della sua storia, lungo l’asse della Ferrovia Nord, la fabbrica «Filtri e feltri» di Novate Milanese, e la piazza Sant’Ambrogio, con l’Università Cattolica. Lì inventa quei comunissimi nomi, da un fitto intrico di ciarle, e quelle vie, quelle località della sua epopea cittadina non li frequenta già per gusto di inchiesta o per curiosità morbosa... È un fatto di memoria».
Esce l’Elogio dell’arte novarese, in un’edizione della Banca Popolare di Novara.
Scrive due testi teatrali, mai pubblicati, nè rappresentati (sono stati sottoposti a Albertazzi e a Cervi), Imerio e Il Branda: «I due drammi si svolgono nel Comasco e narrano la crisi e la fine di due famiglie borghesi. Nell’ Imerio protagonista è il giovane figlio di un industriale, ne Il Branda protagonista è un vecchio industriale fascista: sono due momenti della stessa crisi». In seguito precisa il lungo lavoro di elaborazione per l’Imerio. «L’ho riscritto sei volte. È una figura che mi ossessiona e a cui tengo molto. Ogni redazione tendeva ad allontanarmi sempre più dal presente, tenendone solo il fondo e i motivi. A un certo punto una di esse vedeva tutti i personaggi come già morti. Perchè? Adesso penso perché potessero parlare senza i piccoli condizionamenti, a cui la mia abitudine di narratore continuava a legarli. A un certo punto è successo che, quasi da sè, il personaggio invece che morto, è andato ad abitare in un’altra epoca; a vivere, cioè, nel Seicento». Inizia un periodo di crisi rispetto al romanzo e alla narrativa, tanto che, in un’intervista ad Alberto Arbasino, confessa: « Faccio sempre più fatica a pensare narrativamente. Il nucleo narrativo nasce in un suo modo, completamente diverso. Una vicenda, quando viene in mente come teatro, addio... o per fortuna. Una cosa però è certa: salta il tessuto narrativo: salta, dico, all’origine. Penso al romanzo; ma nei suoi confronti mi sento in crisi».
1962
Con l’avvio della Nuova Serie di «Paragone», pubblicata dalla Rizzoli editore, entra a far parte della redazione. Un ricordo è legato alle riunioni che periodicamente si tenevano nella casa di Roberto Longhi e di Anna Banti: «Ho un ricordo che non credo improprio, nè offensivo, riferire qui in questa occasione, che intende onorare Anna Banti, nella sua stessa casa di lavoro, di vita e di difficile gloria, di teso orgoglio e di certa, umanissima pena. L’episodio risale a molti anni fa. Esso coincide con una di quelle riunioni di «Paragone» che, sacrosantamente, vedevano riuniti tutti i redattori delle due sezioni: quella artistica e quella letteraria: tanto più dunque chi, come accadeva a me, si trovava a far parte d’entrambe.
Passata ormai l’una, s’era scesi giù, nella sala dove Anna Banti e Longhi erano soliti ricevere con squisito ed insieme famigliare calore. Subito m’ero accorto che la Banti aveva collocato in un vaso le rose che, come ad ogni visita, le avevo portato. Sapevo, infatti, che nel suo cuore molto le amava e privilegiava.
Un redattore, giunto in ritardo, quando ormai ce ne stavamo tutti a tavola, messo piede che ebbe nella sala e viste, dopo un rapido saluto, le rose, sulle quali, ricordo, batteva la luce fredda e vitrea dell’inverno, disse che sicuramente a portare quei fiori era stato chi qui parla, perché solo chi qui parla, a detta sua, era ancora capace di compiere simili gesti di cavalleria. Per me era, invece, un semplice bisogno di riconoscenza, d’amicizia, di venerazione, e d’affetto. Avessi aspettato le sue, rispose Anna Banti alla velata ironia del redattore, le rose non saprei ancor oggi come siano fatte. Del resto, aggiunse dopo un ulteriore battibecco, e la successiva, gelidissima pausa, del resto dei fiori e delle rose io non so proprio che farne. La guardai. Lei, però, non guardava me; guardava l’altro redattore. Chi mi guardava, dalla sua posizione di capotavola, era, invece, Longhi.
La colazione finì. Ci alzammo per passare nel salotto adiacente: quello, per me, fu sempre la ‘stanza saracena’. Vidi allora che, con una sorta di ammiccante nonchalance, la Banti portava proprio lì il vaso di rose e che lo poneva sopra un ben preciso tavolo, in modo che, sedutasi, potesse poi, di tanto in tanto, con un gesto che non le era certo abituale, passare le dita sui petali tanto questionati. Accompagnava quel gesto con puntate di feroce amarezza verso il viso del ritardatario. Forse era il modo più segreto e profondo per rispondere a lui e, nello stesso tempo, per lenire ciò che aveva pensato potesse esser stata, per me, un’offesa».
Come critico d’arte in questo periodo, oltre all’arte antica, segue il lavoro di pittori contemporanei, italiani e stranieri. Lo scenario di quegli anni è così ricordato, nel 1977, dallo scrittore: «...la dura e insieme malinconica problematica di quella specie di Cerano del decennio che fu Francese; l’apparire, dal fondo di Via Garibaldi, della generazione dei più giovani; la trafittura di spilli (se non proprio di coltelli) del primo Ferroni, spilli giacomettiani su visi e impronte baconiani; la fiera ansietà di Guerreschi, il più vicino di tutti ai parigini de «La Ruche» (ed è peccato che nessuno di questi giovani avesse avuto occhi per il grande, scontroso e solitario Grüber...); e, poi, Romagnoni, Banchieri, Vaglieri...».
In parallelo, in questi anni, i suoi studi e le sue ricerche si rivolgono anche ai grandi pittori francesi come Géricault e Courbet. Così spiega ad Alberto Arbasino: «Il tragico connubio tra romanticismo e realismo che vide nascere Géricault, Delacroix, Courbet; ecco quello che forse è stato l’ultimo momento d’allarme e di ribellione totale della cultura dell’uomo. Quando vado al Louvre, ed entro nella sala dedicata a questi maestri (con in più Gros, che è un grande dimenticato) ricevo un’emozione e una spinta di una vitalità incomparabile. È strano, non ci sono che i grandi pessimisti, quelli che vivono di fronte alla morte, per farci amare la vita; o per non farcela odiare troppo».
1964
Viene assolto e con lui l’editore Giangiacomo Feltrinelli nel processo per oltraggio al pudore, relativo alle vicende dell’Arialda, perché il fatto non costituisce reato. Viene ordinata la restituzione del libro e del copione teatrale.
Pubblica Palinsesto valsesiano, dedicato al «fondo grafico che dal tempo del D’Errico, andò costituendosi in valle, attorno al Sacro Monte». Inizia la stesura del testo teatrale La monaca di Monza.
1965
Raccoglie tutti gli studi dedicati a Gaudenzio Ferrari in Il gran teatro montano, pubblicato da Feltrinelli.
Pubblica, sempre da Feltrinelli, I Trionfi, un poema che apre un nuovo corso espressivo nell’opera testoriana e richiama modelli pittorici (il Géricault della «Medusa» e il Tanzio dell’“Ultima processione di San Carlo”) a confrontarsi con l’audacia linguistica di un «poema d’amore» che diventa «inno alla materia».
Scrive Il Memoriale e l’Esterminio, prefazione al Memoriale ai milanesi di Carlo Borromeo, illustrato con le riproduzioni e un’ampia scelta di particolari dalle opere di Tanzio da Varallo.
1966
Organizza la mostra: 32 opere inedite del Ceruti che si tiene a Milano e nel catalogo pubblica il saggio Lingua e dialetto nella tradizione bresciana. Pubblica Manieristi piemontesi e lombardi del seicento, riprendendo e rivedendo il testo scritto in occasione della Mostra torinese del 1955.
Pubblica il poemetto Crocifissione per le edizioni All’insegna del pesce d’oro di Vanni Scheiwiller e riprende a disegnare.
1967
Organizza la Mostra: Ceruti e la ritrattistica del suo tempo nell’Italia settentrionale che si tiene a Torino e di cui cura anche il catalogo.
Cura la mostra su Francis Gruber alla Galleria Galatea di Torino e in catalogo pubblica Appunti per un saggio su Gruber. Inizia così una assidua collaborazione con la galleria d’arte torinese, presso la quale presenterà artisti spesso non conosciuti in Italia.
Va in scena al Teatro Quirino di Roma, con la compagnia Brignone-Fortunato-Fantoni e la regia di Luchino Visconti, La Monaca di Monza. Il testo è pubblicato da Feltrinelli. Continua il sodalizio con il grande regista, anche se la stampa, all’indomani dello spettacolo, racconta di dissidi tra Visconti e lo scrittore, a causa dei tagli sul testo effettuati dal regista e nascono varie polemiche. Testori, a proposito di Visconti, ricorda: «L’ho conosciuto ai tempi di Rocco e i suoi fratelli, e per anni sono stato talmente suo amico che sono stato malissimo quando abbiamo litigato. Era meraviglioso come faceva recitare gli attori; meraviglioso come ti accoglieva a casa. Sembrava che arrivasse il re quando arrivavi tu. Ma poteva anche essere spietato. Forse la sua passione segreta era dominare e poi distruggere. Credo per infelicità. Non so. Comunque è passato e, quando è morto, ho fatto pubblica ammenda alla Scala».
1968
Pubblica, da Feltrinelli, la raccolta di poesie: L’amore
Pubblica, su «Paragone», un lungo saggio Il ventre del teatro, in cui afferma la necessità e il valore di un teatro che si fondi sulla parola e sul «verbo».
Cura la mostra di Varlin per la Galleria Galatea e in catalogo pubblica il saggio L’opera buffa, golosa e tragica di Varlin.
1969
Pubblica da Feltrinelli il testo teatrale Erodiade, monologo scritto, tra il 1967 e il 1968, per due stagioni in cartellone al Piccolo di Milano (avrebbe dovuto essere interpretato da Valentina Cortese), ma mai realizzato. Dice Testori: «In questa prima versione è forse più sottolineato l’insorgere di una gran passione fisica, combattuta fino allo stremo. Erodiade si prendeva un po’ anche delle mie visioni». Sui quaderni del manoscritto realizza una serie di disegni sul tema della Testa del Battista. Dipinge anche degli acquarelli su cartone con lo stesso soggetto.
1969
Ritorna ad occuparsi del Sacro Monte di Varallo e pubblica lo studio dedicato alla Cappella della Strage del Paracca, in un’edizione della Cassa di risparmio di Vercelli: «Nella complicata ed arruffata storia del ‘Monte’ è proprio attorno a questa Cappella che si verifica, per dir così, il cambio di guardia; intendo il cambio dall’epoca gaudenziana e post-gaudenziana a quella secentesca, dominata ‘in toto’, dal duo eroico ed imperterrito dei D’Errico. Il cardine, insomma, su cui gira l’edificazione del ‘super parietem’ è proprio qui, nella ‘Cappella della strage’; e che il cigolio sian gli urli dei bambini sventrati, sgozzati e mutilati e i lamenti delle madri disperate e ‘strangosciate’ è un altro segno, ove mai ce ne fosse bisogno (segno, intendo anche e fortissimamente fonico) che il ‘Sacro Monte’ intese esser, prima e soprattutto, ‘teatro’».
Pubblica, per la ERI, la monografia su Fra’ Galgario.
Esce da Feltrinelli la raccolta di poesie Per sempre.
1970
Inizia un nuovo ciclo pittorico dedicato ai pugilatori e dipinge una serie di «nature morte». Così Giorgio Soavi, in un racconto, descrive lo studio di Testori: «Il pittore aveva un bellissimo studio in una casa di via Brera, al di là di un cortile [...]Al pian terreno di quella casa milanese il pittore che dipingeva pezzi umani ricevette i due amici che furono presi al principio da una ilarità liberatrice perché non avevano mai visto in nessun luogo del mondo – nemmeno al Louvre o al British Museum. si fa per dire – una così gran quantità di tubetti di colore tra il quale dominava il bianco. Un bianco, a prima vista, da muratore che non riesce più con le mani nè con la tavoletta a spianare e livellare le proprie pareti e, ingegnosamente, continua ad impastare per il desiderio di renderli uguali. Aveva dipinto tenendo conto di un metro esagerato: un quadro di fiori era gigantesco; un piatto di fichi grondante; le melanzane erano piene di semi, più grandi del più grande dei pinoli; il melograno con i suoi grani, sporgeva talmente dal quadro che veniva voglia di staccarne un paio per sentire se erano maturi da mangiare ma i più spropositati erano i corpi dei giovanotti che aveva dipinto negli ultimi mesi. Enormità, veniva voglia di dire, brasiliane dove si sa che stando nella giungla piante e fiori crescono a vista d’occhio».
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Anni 1971 – 1993
1971
Espone disegni e dipinti alla Galleria Galatea di Torino, presentato in catalogo da Luigi Carluccio.
Cura la mostra di Cagnaccio di San Pietro per la galleria Narciso di Torino e per la Galleria del Levante di Milano.
In questi anni Testori, dopo l’esperienza di Rocco e i suoi fratelli e Ieri, oggi e domani torna a collaborare attivamente col cinema. Nelle sale cinematografiche esce Bubù con la regia di Mauro Bolognini e tra gli interpreti Massimo Ranieri e Ottavia Piccolo. La sceneggiatura, dal romanzo Bubù di Montparnasse del francese Charles-Louis Philippe è di Testori. Scrive Tullio Kezich: «Il regista di Metello affiancato dallo stesso gruppo di interpreti e collaboratori, ha chiesto a Giovanni Testori una versione italianata dell’originale letterario: una specie di La Gilda del MacMahon avanti lettera. E Testori non si è fatto pregare per investire Philippe con la violenza dissacratoria che gli è caratteristica, facendone risaltare l’aspra fenomenologia sociale. Ma se lo scrittore milanese in pittura ama Géricault, le predilezioni di Bolognini vanno piuttosto a Renoir e a Lautrec: da ciò lo stridore che si avverte, nel film, fra il testo e le immagini.»
Scrive anche una sceneggiatura su Amleto (il film non sarà mai realizzato) che anticipa e forse introduce alla «Trilogia degli Scarrozzanti». Lo riferisce lo stesso autore, molti anni dopo, quando in occasione de I promessi sposi alla prova spiega cosa rappresenti per lui il concetto di «prova»: «Ho, alle spalle, di questo, chiamiamolo pure, letterario agire, altre prove. Con l’Hamlet tre appuntamenti (anche se soli due noti: L’Ambleto, 1972 e il PostHamlet, 1983); ma esiste un primo accordo, o attacco, una stesura cinematografica, mai realizzata, nella quale il «prence» supremo passa, dalla Danimarca, in un’oscura, misera, tetra valle del crinale alpino e così si prepara a farsi Ambleto di Lomazzo); poi il Macbeth, auspice il libretto verdiano che diventa Macbetto; e, poco dopo, l’Edipo, che si fa Edipus; tutti tenuti, trattenuti, fortissimamente limitati e ‘zonati’ (da zona, angolo di terra, regione) alla mia (alla nostra) Lombardia; lì, immersi, almeno si spera; non catapultati; forse dissotterrati...». Nel 1976 progetta con Sandro Bolchi la realizzazione di un film «povero e asciutto», interpretato da Ornella Vanoni, tratto da L’Arialda., che avrebbe dovuto restituire sullo schermo «l’immagine di una Milano estiva, calda, sudata col sole che la devasta e sfascia cranio e selciati, con l’odore delle ascelle».
Il 25 novembre viene messa in onda la riduzione televisiva de Il Dio di Roserio, con la regia di Pino Passalacqua. Tra gli interprenti c’è Carlo Mazzarella.
1972
L’Ambleto che apre un nuovo corso nella drammaturgia e nella scrittura testoriana segna un cambiamento di editore. Viene pubblicato infatti da Rizzoli, in quel periodo diretta dall’amico Mario Spagnol.
Scrive la prefazione al volume L’opera completa di Grünewald, pubblicato da Rizzoli.
Partecipa all’organizzazione della mostra Il realismo in Germania e pubblica un saggio in catalogo, imperniato sulla «Nuova Oggettività». Nel 1970 aveva già curato per la Galleria del Levante di Milano, una personale di Christian Schad.
Pubblica, in un’edizione fuori commercio, la raccolta di poesie Alain, con incisioni di Paolo Vallorz, un pittore il cui lavoro viene seguito costantemente da Testori: «La novità della pittura di Vallorz è che non domanda letture; essendo che la sua unica, autentica lettura la pronuncia il suo proprio corpo; consiste, insomma, nella sua materia, nel suo disegno, nella forma con cui fiorisce, appare, e subito, si stabilisce davanti a noi, come un fatto; un altro fatto della natura».
1973
L’Ambleto viene rappresentato, il 16 gennaio, al Salone Pier Lombardo di Milano dalla Compagnia Franco Parenti, con la regia di Andrèe Ruth Shammah. È l’inizio di un lungo soldalizio con l’attore milanese: «Nessuno ci voleva dare un teatro per fare questo primo testo della trilogia degli «Scarrozzanti», L’Ambleto, e cercando tra i vecchi cinema in disuso, abbiamo trovato questo, in via Pier Lombardo. È nato così, tra contrasti occulti e palesi di tutta la cultura milanese. Allora non andava la libertà che ci prendevamo di uscire dalle istituzioni o di creare delle alternative alle istituzioni già consacrate; poi, siccome la vita è una forza, il Pier Lombardo prese, neanche tanto lentamente, la sua fisionomia. Io sono grande amico di Parenti perché è uno dei grandi attori in assoluto, in più è un grande lombardo. Ha questo sentimento della dignità dell’uomo che ha legato, in Lombardia, sempre, cattolici e laici, Parini, Cattaneo, Manzoni, Beccaria. Questa è la necessaria conciliazione tra senso religioso e senso civico».
Tra i progetti in programma con la Cooperativa (poi non realizzato), Testori annuncia La peste di Milano, un copione curato dallo scrittore, che avrebbe dovuto essere uno spettacolo «di strada», con protagonista il popolo milanese in un momento particolarmente drammatico della sua storia; «una via crucis della popolazione milanese colpita dal morbo».
Partecipa all’organizzazione della Mostra: La pittura lombarda del seicento che si tiene a Milano. Nel catalogo pubblica il saggio Sennacherib e l’angelo.
Pubblica la raccolta di poesie Nel Tuo sangue, cui viene assegnato il Premio Internazionale di poesia Etna-Taormina. Della giuria fanno parte Enrico Falqui, Giancarlo Vigorelli, Giacinto Spagnoletti, Elio Filippo Acrocca, Pier Chiara, Lino Curci. Ruggero Jacobbi, Angelo Maria Ripellino, Giacinto Spagnoletti.
Scrive anche A te che non sarà pubblicato in volume. Dodici poesie dalla raccolta vengono presentate, nel 1979, nell’«Almanacco dello specchio».
1974
Pubblica da Rizzoli un nuovo romanzo, La Cattedrale
Va in scena al Pier Lombardo con la compagnia Franco Parenti e la regia di Andrèe Ruth Shamman, Macbetto. Tra gli interpreti: Francesca Benedetti. Il testo è pubblicato da Rizzoli.
Espone una serie di dipinti alla galleria Alexandre Jolas, presentato in catalogo da Pietro Citati.
1975
Pubblica da Rizzoli il romanzo Passio Laetitiae et Felicitatis.
Pubblica Romanino e Moretto alla Cappella del S.S. Sacramento.
Scrive Un uomo in una donna, anzi uno Dio, pubblicato come introduzione all’edizione delle Rime di Michelangelo Buonarroti, nella BUR Rizzoli.
Espone una serie di disegni alla Galleria del Naviglio di Milano, presentato, in catalogo, da Cesare Garboli.
Scrive Ragazzo di Taino, mai pubblicato in volume. La poesia che dà il titolo alla raccolta viene presentata, accompagnata da una singolarissima pagina del manoscritto, con un disegno e un autografo dello scrittore, nel 1981 dall’almanacco luinese «La Rotonda».
1976
Inizia una assidua collaborazione con Roberto Montagnoli della Grafo edizioni di Brescia, pubblicando Beniamino Simoni a Cerveno, uno studio sulle sculture lignee della «Via Crucis» dell’artista che già Testori nel 1966, in occasione della Mostra degli inediti del Ceruti aveva riproposto all’attenzione e indicato come «il solo, vero ‘compagno’ del pittore bresciano.
Organizza la mostra di Willy Varlin, alla Rotonda della Besana a Milano. Una intensa amicizia ha legato i due artisti, tanto che Testori ricorda: «Mi sono chiesto perchè mettendo assieme i ‘Ritratti’ miei di me, Varlin sentisse il bisogno di piantarvi sempre, in qualche punto, ovvero, di farvi sempre apparire lei, la croce; perché a quel segno volesse, fin da tanti anni fa, legare il mio corpo, la mia vita, il mio intero destino. Del resto ricordo che quando scese da Bondo a Milano per assistere alla prima de L’Ambleto, alla fine della rappresentazione mi disse in quella sua lingua così poco lontana da quella che i miei strampalati personaggi d’allora parlavano e urlavano: “È una cosa che sta lì, a metà tra questi – e indicò le marionette del grande Colla che per l’occasione il teatro esponeva nel ridotto – e il calvario...”. Che avesse già inteso nella devastazione mia d’allora l’incombente e caro futuro di poi?».
1977
Va in scena al Salone Pier Lombardo, Edipus, terza parte della trilogia iniziata con L’Ambleto e proseguita con Macbetto. Lo allestisce la Compagnia Franco Parenti con la regia di Andrèe Ruth Shammah. Il testo è pubblicato da Rizzoli. La prima stesura, assai dissimile da quella presentata, risale al 1973 e ha per titolo Edipo a Novate. Così lo raccontava lo scrittore: «È scritto in versi, in un italiano un po’ da palinsesto, un po’ più indietro e insieme un po’ più avanti del nostro linguaggio quotidiano. Comincia così: «Ti revedo, paese del mio papà e della mia mamma – Ti revedo, Novate Milanese». È Edipo che parla, Edipo tornato per realizzare il suo destino: giacere con la madre e uccidere il padre. La scena dovrebbe essere l’interno di una casa di Novate, come la mia, ma quasi vista in una fotografia sbiadita dal tempo. Il letto di Giocasta è un letto di ferro dell’Ottocento».
A luglio muore la madre, Lina Paracchi. «In quell’occasione il rapporto con la morte mi è sembrato così dolce, così accettabile da gettare una luce su tutta la mia vita». Inizia a scrivere Conversazione con la morte.
Il 4 settembre 1977 pubblica sul «Corrirere della Sera» una risposta, in forma d’articolo, La cultura marxista non ha il suo latino ad un intervento di Giorgio Napolitano, sull’«Unità». È un intervento «radicale» che ha come tema «il potere» e il tradimento dell’ideologia. Scrive Testori: «A leggere l’articolo di Napolitano si trasecola; sembra che egli non abbia visto nulla di quanto è accaduto in questi penultimi ed ultimi tempi; della corsa, appunto, cui gli intellettuali si sono sottoposti per ‘sporcarsi’ nel raggiungere e arraffare le sedie del rapporto con la società; cioè a dire, del comando e del potere. Università, Musei, Soprintendenze, Teatri, Organi di Biennali, triennali e quadriennali: tutto ciò che era possibile è stato luogo d’un arrembaggio famelico e, a suo modo, esemplare; il grido non fu “il mio regno per un cavallo”, bensì “il mio cervello per un posto”; e i posti sono stati distribuiti; non bastando i già esistenti, se non creati di nuovi; altri se ne dovranno inventare nel prossimo futuro. Stando così le cose si domanda ulteriore ‘sporcizia’. Bene, staremo a vedere». Conclude il pezzo ribadendo una sua posizione personale «estrema» e richiamando al ricordo della madre, da poco scomparsa: «Se così pensando, sono tacciato di stare con l’antico, bene, sto con l’antico. Sulla modernità che ha tramutato la rivoluzione in capitale e in consumo, sputo. La vergogna di tradire la mia natura fosse veramente quella di chi ha come proprio ‘umbelico’ il salto nell’aldilà, non la commetto. L’anima non la vendo; e men che meno, la morte. È anche possibile che il progredire dell’onnivora avidità, per reggersi, abbia bisogno (secondo altrove è già manifestamente accaduto) di sostituire alla sopportazione l’eliminazione. Beh se quel giorno dovesse arrivare, prego la cara, ferma mano di mia madre perché, da là dove si trova, s’appoggi ancor più forte alla mia fronte. Al lettore che si chiedesse come mai un discorso cominciato su linee generali stia chiudendosi su una linea così particolare e privata, dichiarerò apertamente che proprio questo intendevo fare: difendere il valore, appunto, dell’individuo; di me come d’ognuno; e, dentro ogni individuo, il valore e la disperata forza di quel refolo, di quella nebbia».
L’articolo di Testori suscita dissensi e polemiche, nonché un ampio dibattito cui partecipano tra gli altri Umberto Cerroni, Franco Ferrarotti, Lucio Lombardo Radice, Alberto Abruzzese, lo stesso Napolitano. Lo scrittore risponde alle «critiche» con un articolo pubblicato sul «Corriere della Sera», Quanta gente indignata come me, in cui mette in luce, in modo assai ironico, le reazioni al suo scritto: «Quali prefiche, quali vestali, quali amazzoni, quali Norme (o come altrimenti chiamarle?) principiarono fin dal mattino a urlare per entro i telefoni (no non a me che non uso frequentarle; bensì a qualche povero amico): “Hai visto?”; “Cosa”; “Ma è impazzito”, “impazzito come?”: “Impazzito! Ti dico che è impazzito!”. L’amico (più d’uno, in verità) stringeva spaurito il telefono tra le dita: “Mi vuoi capire o non vuoi capire? Ha fatto il loro gioco...”: “Il gioco? E quale gioco?”: “Il gioco della destra, anzi della reazione!”. Emesse le due parole, le sventurate crollavan giù, entro le poltrone desainirizzate, pallide ed esauste; non diversamente doveva accadere alle indemoniate, allorché pronunciata dal sacerdote la formula dell’esorcismo, lo spirito dell’Esecrando le lasciava». Poi accentua il tono ironico: «L’isole, i romiti, le barche, il marxismo senza latino, il latino senza Marx, il Napolitano, l’Abruzzese, santa Teresa dei Zangari, Lucio Lombardo Radice, Lomba Radardo Ludice, la Lolli, la Lalli, la Lilli, Flora Lillo (no, Flora Lillo era solo una stupenda soubrette dei tempi dell’“Italietta”) tutto mi vorticava dentro la testa. Mi diventava impossibile vivere; preso da una nausea incontenibile, le persone, le cose, i rapporti, gli affetti, tutto mi si disfaceva dentro, davanti e intorno...».
1978
È chiamato dal nuovo direttore del «Corriere della Sera», Franco Di Bella, a intervenire, in prima pagina, con scritti in cui mette a nudo la sua religiosità e legge casi di cronaca nel solco della pietà, della speranza e della carità. Sul quotidiano milanese, riprende il ruolo che fu di Pasolini pochi anni prima, e, per un lungo periodo, in prima pagina, pubblica diversi interventi di natura etico-morale. Gli interventi di Testori, la sua critica feroce alle ideologie e alla cultura egemone, «il dilatarsi verso la massa d’una cultura senza più centri, senza più ragioni e senza più significati; una cultura sradicata e annichilente che, proprio nel momento della perdita d’ogni sua efficacia, nel momento cioè della sua definitiva resa e del suo definitivo sfacelo, s’è trovata ad aver in mano gli strumenti di diffusione più potenti e, insieme, più capillari di cui mai era riuscita a disporre», creano molte polemiche e Testori diventa un personaggio «contro», spesso violentemente contestato. Scriveva Geno Pampaloni: «Non credo che Giovanni Testori ami molto il ruolo (dico il ruolo, non il mestiere) del giornalista: credo al contrario che vi adempia come a un dovere, lo porti come un cilicio. Se questo è vero, molte delle accuse velenose che gli sono state rivolte vengono dimensionate. È anche giusto riconoscere, a mio parere, che quelle accuse sono più velenose che pertinenti. In effetti i suoi articoli sono, in senso proprio, delle sfide; ma sono rivolte principalmente contro se stesso, ciò che un laico, o meglio un laicista, difficilmente riesce a capire. Si pensa infatti, da parte dei suoi avversari, che la veemenza con cui il Testori si scaglia contro ciò che egli ritiene il male sia una veemenza di provocazione e di propaganda: io la definirei al contrario una veemenza di confessione».
Assume, sempre per il «Corriere della Sera, l’incarico di critico d’arte e dirige la pagina domenicale dedicata all’arte.
Scrive il saggio L’orafo fedele e disperato per il catalogo della mostra «Morlotti. Teschi» che si tiene alla Compagnia del Disegno di Milano. Nel saggio Testori attraverso l’opera di Morlotti (che segue, a livello critico, fin dagli anni Cinquanta, «non solo per esser egli, con Morandi, il più grande pittor di paesaggi che il nostro secolo, in Italia, abbia avuto, ma per la sua stessa fatale e, via via, sempre più cosciente e meditata lombardità») propone una specie di «centralità» della sua poetica, a partire da ciò che in Morlotti definisce «quel seme da cui sarebbe venuta giù la grande onda o piena o infinito fremito di grani e di boschi del suo poema naturale; dettagliato e universo; erigentesi a inno e subito stremato; subito, ecco, azzerato dalla terra, alle sue origini, al suo perpetuo cerchio di nascita, riproduzione (Eliot avrebbe detto copula) e morte».
Pubblica Moroni in Val Seriana per la Grafo edizioni.
Esce da Rizzoli, Conversazione con la morte, inizialmente pensato per l’attore Renzo Ricci, che muore poco prima di realizzare il progetto. Viene quindi letto dallo stesso Testori, come prima iniziativa del gruppo teatrale la Confraternita, il 1 novembre, al Salone Pierlombardo e poi in più di cento teatri e chiese di tutta Italia. «Nelle parole, nelle cose che voglio dire ora, che voglio scrivere c’è bisogno di una pronuncia nuova, una pronuncia non sapiente, ma che acquisti la sapienza dalla propria esperienza interiore. È stato così per la Conversazione con la morte che avrei voluta letta da Ricci, un attore che non era più attore, che non recitava più per l’età avanzata; lo volevo forse proprio perché la sua voce era quella di un uomo talmente attore da non esserlo alla fine nemmeno più. E adesso la leggerò io, che non sono attore, non so recitare. Ma non so chi altro potrebbe farlo, chi la potrebbe leggere senza farla ricadere in quello che non è e non vuole essere. Non è che una piccola «albetta», una sorta di preghiera, più che di teatro, un mormorio, una confessione. E non può stare in quella forma di teatro chiuso, da cui vuole uscire».
1979
Intensifica la sua collaborazione al settimanale «Il Sabato», dove pubblica un «colloquio sulla vita» con il teologo Hans Urs von Balthasar che si avvia proprio dal tema dell’«unità della bellezza». Dice Testori: «Per esempio, oggi è una giornata meravigliosa, di straordinaria limpidezza; e mentre scendevo a Milano da Novate, dove ho la mia casa, per venire qui ad incontrarla, guardavo il sole tramontare dietro le Alpi mentre gli ultimi raggi di luce si riflettevano sui campi coperti di neve. A me ciò dava nel medesimo tempo una percezione duplice: una specie di furore (il furore, intendo della bellezza), ma anche di dolore... Era, è sempre troppo, era ed è sempre più di quanto possa sopportare... Ma in momenti come quelli, trovandomi dinanzi al miracolo della natura, la percezione della bellezza ha per me qualcosa di lacerante, da cui non resta disgiunta la percezione del dolore, quasi vi fosse sempre anche il segno di una ferita. È così anche per lei?». Interviene con una riflessione sul suicidio di Marco Riva, redattore ventunenne del «Quotidiano dei lavoratori», giornale dell’estrema sinistra milanese e dopo qualche settimana, cura la scelta del «coro» delle numerosissime lettere giunte in redazione. Un giovane scrive: «Vorrei scrivere ma di che cosa? Della morte anzi della liberazione di Marco da questa società che giornalmente ci fa violenza. Ho bucato ieri sera e stamane leggendo la lettera di Marco ho trovato che le sue scelte sono state giuste; è inutile che diciamo la nostra rabbia per questo gesto fatto in piena libertà e in piena coscienza come uno che si fa d’eroina...Il tuo intervento Testori è di una forza interiore che sei riuscito a commuovermi e a farmi piangere. Ma riusciamo veramente ad amarci? È forse di questo amore che anch’io sto cercando e di questa libertà, che Marco aveva bisogno». Gli risponde Testori: «Grazie d’avermi scritto così come sei, senza difenderti, senza ripararti. Adesso ti domando un favore, te lo domando con tutta la tenerezza e la forza di cui sono capace; te lo domando, obbligandoti a farlo: fammi avere, sempre qui, il tuo indirizzo; o chiedi qui, alla redazione milanese de «Il Sabato», il mio. Devo, dobbiamo vederci. Dato che Lui ha voluto che ci incontrassimo per lettera, non è possibile che non ci si incontri in carne ed ossa. Non sei solo tu che puoi aver bisogno di me; sono io che posso aver bisogno di te».
Viene rappresentata a Milano, nella Chiesa di Santo Stefano, da parte della Compagnia dell’Arca e con la regia di Emanuele Banterle, Interrogatorio a Maria. Il testo è pubblicato da Rizzoli. Per il teatro testoriano si tratta di una svolta: «Considero il teatro una delle espressioni culminanti dell’uomo. È il momento iniziale e più religioso. Il teatro è l’altare, il luogo dove si sgozza l’agnello: Un luogo sacro. Dopo avere agitato gli stracci del teatro antico, ho portato alle estreme conseguenze la trilogia per cercare di riafferrare questa centralità liturgica, religiosa. Oltre l’Edipus non era possibile andare. Anche strutturalmente. C’era l’invenzione della lingua frantumata. Un melànge di vecchio lombardo, di francese, di latino. Con Interrogatorio a Maria pongo, anzi poniamo la prima, semplice proposta di una drammaturgia cristiana. Liturgica, teologica».
1980
Cura la mostra, Disegni di Roberto Longhi, per la Compagnia del Disegno di Milano e pubblica un saggio in catalogo che risulta un itinerario nell’opera della «gran figura di maestro» riconosciuto, tanto che a conclusione sottolinea, il suo «sentirsi allievo ancor oggi», nonché «il gran debito di partenza. Un debito mai chiuso».
Pubblica Itinerario di Federica Galli, in occasione della mostra che si tiene sempre alla Compagnia del Disegno, uno studio sul lavoro dell’artista che Testori definisce «‘la Federica di Soresina’, non solo perché lì è nata, ma perché dalla campagna di là ci ha dato e continua a darci catene d’immagini che ci aiutano a vederla e a capirla, nei suoi tumulti e nei suoi silenzi; sì da vedere e capire poi meglio la natura tutta; ovunque i casi della vita ci portino a passare i nostri giorni e a portare i nostri ‘quattro stracci’».
Dirige, nella Biblioteca Universale Rizzoli, «I libri della speranza». Il primo titolo è un colloquio tra Testori e Don Giussani, Il senso della nascita, che prende l’avvio proprio da una meditazione sulla realtà della collana stessa. Testori propone alcuni titoli, tra cui appunto «I libri della speranza», perché «sta dentro a due realtà che si sovrappongono e si abbracciano: quella della nascita (della culla) e quella della croce». Don Giussani così giustifica la sua scelta: «Userei questo titolo perché la parola speranza aggancia un’attesa primordiale e apre l’attenzione, quindi anche la strada a una risposta». Nella collana vengono pubblicati: Intorno ad una lettera di Santa Caterina di Luca Doninelli, In nome del niente di Luigi Amicone, Cara sorella morte di Sandro Maggiolini.
Il 29 luglio 1980, a Castelgandolfo, alla presenza dello stesso scrittore, Interrogatorio a Maria viene rappresentata di fronte ad uno spettatore d’eccezione: Giovanni Paolo II che nel suo discorso dice: «Grazie innanzitutto all’autore e agli artisti. Avevo già letto qualche mese fa questo testo, ma la sua trasposizione teatrale è un’altra cosa. La vera lettura del suo oratorio, signor Testori, l’ho fatta dunque questa sera. [...] Interrogatorio a Maria, questo interrogatorio è moderno nel suo contenuto, nel modo di proporre i problemi, di fare le domande a Maria, e anche nella sua semplicità. La semplicità che si sentiva nelle domande e anche nelle risposte è una semplicità, direi, molto coraggiosa per entrambe le parti: dalla parte degli interlocutori e dalla parte della Vergine». La rappresentazione davanti al Papa chiude una lunga tournée, con 400 repliche che hanno toccato più di 200 città e paesi italiani e a cui hanno partecipato più di 400.000 persone. Il successo del lavoro teatrale non è determinato dagli enti normalmente proposti alla distribuzione degli spettacoli, ma quasi sempre grazie a gruppi spontanei, centri culturali, parrocchie, comunità e singole persone che si sono assunte totalmente l’onere e il rischio economico dell’iniziativa.
1981
Partecipa all’organizzazione della mostra che si tiene a Milano, La Ca’ Granda. Cinque secoli di storia e arte dell’Ospedale Maggiore di Milano e in catalogo pubblica il saggio La carità che i «Melanesi accampa. Nel 1982, sullo stesso argomento, e destinato ai ragazzi, pubblica il volume Cos’è la Ca’ Granda.
Pubblica il monologo teatrale Factum est da Rizzoli, che è rappresentato per la prima volta, protagonista Andrea Soffiantini, con la regia di Emanuele Banterle, alla Chiesa del Carmine di Firenze.
Pubblica un saggio, nel catalogo della mostra di Graham Sutherland che si tiene alla Galleria Bergamini di Milano. Pubblica inoltre il volume dedicato ad Abraham Mintchine per la mostra alla Compagnia del Disegno. Sempre per la stessa galleria, nel 1982, organizza una mostra dedicata a Eugéne Bloch.
Pubblica, in un’edizione fuori commercio della «Compagnia del disegno», le poesie L’aquila di Makana, con un’acquaforte di Giovanni Frangi. Dal 1977 sta scrivendo altre poesie che riprendono i toni della felicità familiare, presenti anche in questa raccolta, tra i quali il poemetto Corona per mia madre e un’altra serie di tre poemetti che lo stesso scrittore avrebbe voluto riunire in un unico volume, In ringraziamento. Così ne parla: «Il primo poemetto, Kaiserschmäm, prende il nome da un dolce contadino di Provés, un paese della Val di Non, dove ho trascorso le vacanze ed è legato ad una preghiera «proveis, ora pro eis». Il secondo poemetto, In ringraziamento, deriva dalla preghiera incisa nella chiesa del piccolo centro trentino. Qui riprendo un atto de La forza del destino di Verdi, quando Eleonora cerca rifugio e canta “Son giunta, estremo asilo quest’è per me”. Io comincio da lì, dal “Siamo giunti”. Tutto è imperniato sul giungere che non finisce mai. L’ultimo, Meditazioni sull’addio, ha come motivo l’“Addio monti, sorgenti dalle acque” manzoniano. Ma è un addio che in fondo non lo è. Perché noi saremo sempre lì dove siamo stati. Se, alla fine, avremo meritato di giungere nelle braccia del Padre».
1982
Gli articoli a carattere etico-morale pubblicati sul «Corriere della Sera» e sul settimanale «Il Sabato», vengono raccolti nel volume La maestà della vita, pubblicato da Rizzoli.
Pubblica Post-Hamlet, sempre da Rizzoli, che viene rappresentato, per la prima volta, nel 1983, al Teatro di Porta Romana dalla Compagnia degli Incamminati, con la regia di Emanuele Banterle.
Pubblica il saggio Reliquiae fugientes nel volume Leonardo a Milano
1983
Pubblica una raccolta di poesie: Ossa mea, che segna anche il passaggio di casa editrice: da Rizzoli a Mondadori.
Partecipa all’organizzazione della mostra di Francesco Cairo che si tiene a Varese e pubblica in catalogo il saggio Se la realtà non è solo un fotogramma...
Costituisce a Milano una nuova compagnia teatrale, il Teatro de «Gli Incamminati», di cui assume la presidenza, mentre la direzione artistica è di Emanuele Banterle e Riccardo Bonacina: «S’ha voglia di augurarsi che il teatro irrompa... Irrompere sì, ma con tutta le possibili compromesse e compromettenti cautele. Sono tutti presupposti, per dire come il fatto che anche quest’anno, mi veda legato al gruppo che, sulla scia di Interrogatorio a Maria e di Factum est ha creato, l’anno scorso la compagnia del Post-Hamlet e che, quest’anno prenderà il nome, d’origine figurale, epperò bellissimo de «Gli Incamminati», mi trovi felice, ardito anche, malgrado i miei sessant’anni suonati, in vigore, ancora di qualche giovinezza. Proprio perché si riparte, continuando, e camminando su strade non garantite dal plauso cui i poteri obbligano, bensì dal rischio, ma soprattutto da un sentimento del teatro che, al di là di quelli che potranno essere gli esiti, è, di per sè, estremo. Il programma (n.d.r. la ripresa del Post-Hamlet, una lettura drammatizzata dei Quattro quartetti di Eliot e la messa in scena dell’Erodiade, mai rappresentato fin qui per quanto infinite volte richiesto e annunciato), accordato con Banterle, mio regista ormai da anni, è segnato da tale sentimento, speriamo che una volta fatto, ne risulti anche totalmente, seppur zoppicantemente impregnato».
1984
Dopo aver scritto un saggio, nel 1983, per la mostra Spes contra Spem di Renato Guttuso, alla Galleria Bergamini di Milano, nel 1984 organizza la mostra Guttuso a Varese. Nel catalogo pubblica il saggio Quei tramonti sul lago..., in cui indaga le ragioni delle «mirabili cantiche del poema ‘varesino’ di Guttuso» e propone un confronto a partire dal «fatto che la mostra accomuna in due ‘Ritratti’, i protagonisti maggiori della ‘seconda’ italica generazione: Guttuso, cioè, e Morlotti».
Alla Rotonda della Besana, nell’ambito della mostra Artisti e scrittori presenta cinque giovani pittori italiani che ha seguito con particolare interesse: Aurelio Bertoni, Luca Crocicchi, Fausto Faini, Giovanni Frangi, Velasco Vitali. In catalogo così spiega le sue scelte: «I cinque giovani, anzi giovanissimi han chiamato la mia attenzione, l’hanno anche fascinata e fasciata e, tuttavia, in modi per cui, spero, possa ancora e comunque vederli: han fatto questo, proprio perché rivelarono, in prima istanza, la loro totale, ora silente, ora folle, ora angosciata, ora mormorata, ora urlata, fedeltà all’immagine della vita (e, perciò, alla sua interna e creaturale necessità di somiglianza); dunque, perché rivelarono, a me, la loro silente, urlata, mormorata ‘fissazione’ dentro quel tessuto inevitabile per chi voglia, in ogni tempo, adire la vera poesia». In seguito segue con grande interesse anche la pittura di Alessandro Verdi, Sergio Battarola, Luca Bertasso, Luca Vernizzi, Anna Santinello.
Pubblica il saggio Caravaggio e il disegno, in un volume di scritti di storia dell’arte in memoria di Anna Brizio, curato da Pietro Marani.
Riscrive il monologo teatrale Erodiade, rappresentato, per la prima volta, al Teatro di Porta Romana, protagonista Adriana Innocenti, con la regia di Testori stesso, con la collaborazione di Emanuele Banterle. «Questa Erodiade è una vera e propria altra edizione, per certi versi anche oppositiva alla prima del 1968. Se là c’erano forse delle ombre di decantentismo secessionista, riscrivendo questo testo sul corpo presente di Adriana Innocenti e sulle mie necessità attuali, quelle ombre sono andate sicuramente perse ed è emersa una realtà insieme più primitiva ed attuale, più atroce. Se dovessi ricorrere a delle immagini, direi che questa nuova Erodiade ben più che a Klimt o a Moreau fa piuttosto pensare a certe figure di Bacon».
Pubblica negli Oscar Mondadori I Promessi sposi alla prova che viene rappresentato al Salone Pierlombardo dalla Compagnia Franco Parenti, con la regia di Andrèe Ruth Shammah
1985
Pubblica Confiteor negli Oscar Mondadori.
Riceve il premio «Renato Simoni – una vita per il teatro».
Pubblica, nel catalogo della mostra Manzoni. Il suo e il nostro tempo, il saggio Ricordi figurativi del Manzoni.
Pubblica Artisti del legno, un volume sulla scultura in Valsesia dal XV al XVIII secolo
Scrive Le bandiere e la polvere, prefazione per il catalogo della mostra di Mario Sironi che si tiene a Palazzo Reale a Milano.
Presenta alla Basilica di San Carlo al Corso di Milano la mostra «Ai piedi della croce» del giapponese Kei Mitsuuchi e pubblica in catalogo il saggio Cristo e il Samurai: «Più o meno così mi s’andava presentando lo studio di Kei Mitsuuchi, quand’egli m’invitò a visitarlo. Me n’aveva data notizia per telefono. D’esser, cioè, riuscito a trovarlo. Era sito – mi disse – nella Parigi degli immigrati, dei negri, degli alcolizzati, dei deietti, dei drogati. Dandomene notizia non era riuscito a nascondere una sorta di pudico, tenero, vanto; da quell’antico principe o, anzi, samurai, che egli è restato; anche nella sconnessione, riccamente idiota o falsamente democratica, per certo infame e infamante, della nostra cosiddetta civiltà. L’avevo conosciuto, qualche mese prima, nella galleria di Albert Loeb. A Loeb devo, quindi, il dono d’un incontro che, nella vita, resterà tra i più decisivi, ancorchè tra i più difficili. Ma si tratta della difficoltà che sprigiona da sè chi sta compiendo una strada durissima, solitaria ed estrema; una strada che lo porterà ad essere sempre più inavvicinabile (come forse devono essere, ai dì nostri, i veri, grandi e non infingardi artisti); fino a sfiorare, pur con quanto d’enorme e d’inaudito la sua pittura ci sta proponendo, la totale incomprensibilità e la totale inaccettabilità».
Pubblica il saggio Una parete di Luce nel volume Herbert Brandl. HA-HA-HAHB per le edizioni Emilio Mazzoli di Modena.
Pubblica le poesie Trittico del toro, ispirate alle opere di Giancarlo Vitali, in occasione della mostra personale, che si tiene alla Compagnia del Disegno. Nel 1987 scrive il saggio Il ritratto come cannibalismo che pubblica nel catalogo della mostra Giancarlo Vitali. La famiglia dei ritratti che si tiene a Lecco. E per Testori le opere del «lombardone, anzi del lombardissimo com’è il Bellanasco» diventano l’occasione per una scoppiettante e divertita scrittura, quasi autobiografica, che lo chiama in causa, con gli amici di sempre: «...Alain, fasciato d’amore e d’adulta malia, che gioca a mosca-cieca con un mazzo di gladioli (les glaieuls) e lo fa «du cotté sa mére»; una madre bellissima, tutta in avana, come se pittata l’avesse un Manet redivivo; ecco il mirabolante, goyesco chignon della Galli (e, dietro, fulminato da un’attimalità ai dì nostri sconosciuta, l’occhio infallibile e fedele del Raimondi, detto Giovanni); ecco il passo consapevole (e maestrevole) del Dell’Acqua, alto “che più alto non si può”..., ecco l’apparizione-sparizione dello Sgarbi...».
1986
Scrive un saggio per la mostra di Bernard Damiano, alla Compagnia del Disegno: «limpido a furia di essere ingorgato, lucido a furia d’essere onnubilato, Damiano ha forato e perforato la materia della sua gran pittura coi laser dei suoi occhi feriti per troppa e troppo violenta innocenza. Ed eccolo lì, guardarci; e guardarci senza pronunciar rampogne. L’impassibilità partecipe d’un tragedia internazional-dialettale, erige in questa serie d’autoritratti, una delle pagine, anzi, uno dei volumi più straordinari della pittura di questi anni: da reggere, senza nessun tremito, alla serie d’autoritratti di Bacon, di Varlin e del giovanissimo, incendiato e abbagliato Fetting...».
Pubblica una raccolta di poesie, Diadèmata, presso Garzanti che segna l’avvio di una breve collaborazione con la casa editrice milanese e, in edizione fuori commercio, le poesie Crux, ispirate dai dipinti di Arnulf Rainer.
Scrive una prefazione per la mostra personale, a Basilea, di Rainer Fetting, ma viene rifiutata per la tesi che lo scrittore sostiene. Il saggio, con il titolo Una luce suicida viene pubblicato sulla rivista «Flash Art». Testori inizia ad occuparsi di questo artista, al quale dedica vari scritti e una serie di poesie, Corona per Rainer, che pubblica, nel 1988, nel catalogo alla personale presso lo Studio d’Arte Cannaviello di Milano e viene ripresa poi nel catalogo per la mostra Rainer Fetting, Berlino-New York, che si tiene nel 1989 alla National Galerie di Berlino.
Si occupa attivamente dell’arte tedesca. Così spiega il suo interesse: «Hermann Albert, da una parte, e K.H. Hödicke dall’altra, con in mezzo, isolato, un non meno grande Bernd Koberling. Dalla costola di Hödicke nascono i cosiddetti ‘Nuovi selvaggi’, di cui la critica non è ancora riuscita a individuare i migliori. Ma sono soprattutto Bernd Zimmer, Dieter Hacker e lo straordinario Rainer Fetting. Ho appena visto una sua grande mostra a Basilea e non esito a dire che mi sembra più grande dell’ultimo Bacon. Dietro l’autorità di Albert, un artista di grande potenza, invece si muovono quelli che ho chiamato i ‘Nuovi ordinatori’, artisti emergenti come Peter Chevalier, Klaus Karl Mehrkens, Schindler, Heidecker. Sono artisti d’assalto, poco amati, proprio perché mettono in causa, anche l’estetica del facile disperazionismo di altri ‘Nuovi Selvaggi’ meno interessanti». L’arte tedesca si pone in parallelo al mondo dello scrittore, tanto che sottolinea: «Gli ultimi pittori tedeschi e austriaci e anche gli italiani (Faini, Frangi, Crocicchi, Verdi, Velasco...) quelli che più esprimono secondo me la tragedia del nostro tempo, usano le grandi dimensioni: cinque, sei metri. Insomma, le dimensioni della pop art. Con la differenza che la pop art usava il gran formato del manifesto nella logica della pubblicità, loro usano questo spazio enorme che crea immagini ossessionanti di dominio, e lo stravolgono, lo fanno esplodere per creare immagini ultimative, disperatamente individuali, opposte agli interessi e al senso della pubblicità».
Pubblica la monografia su Hermann Albert.
Scrive la prefazione per la Mostra di Peter Chevalier, al Kunstverein di Braunschweig, quella per la mostra di K.H. Hödicke, al Kunstsammlung Nordrhein-Westfalen di Dusseldorf e presenta, col saggio Gli eroi e la catastrofe, la mostra di Thomas Schindler alla Raab Galerie di Berlino.
Cura la mostra di Klaus Karl Meherkens, Meditazione, un giovane artista tedesco che opera in Italia, che si tiene allo Studio d’Arte Cannaviello di Milano e pubblica in catalogo il saggio La forza della bellezza. Nasce una collaborazione con questa galleria milanese e, nel 1987, presenta Bernd Zimmer col saggio Il mare dei giganti.
Cura la mostra e la presentazione in catalogo dell’artista ticinese Samuele Gabai.
Pubblica il saggio Le tenebre e la perla nel catalogo della mostra di Enzo Cucchi alla Galleria Mazzoli di Modena che segna l’inizio di un interesse crescente di Testori per il lavoro di questo artista. Nel 1987 pubblica una serie di poesie A Re Enzo in un singolare catalogo per la mostra alla Compagnia del Disegno di Milano.
Riceve il Premio Teatrale «Diego Fabbri».
Dopo due anni in cui viene continuamente annunciato (programmato al Porta Romana di Milano, rimandato, messo in cartellone al Salone Pier Lombardo e ancora rinviato) e messo in prova da Franco Branciaroli, per cui è stato espressamente scritto, Confiteor viene rappresentato per la prima volta nell’autunno 1986 al Teatro di Porta Romana, protagonista Franco Branciaroli, con la regia dell’autore. Durante la presentazione annuncia nuovi progetti teatrali (poi non realizzati): «Questo Confiteor non è che il primo momento di una trilogia che voglio portare a termine in breve tempo. Il secondo quadro è già tutto in mente. Parte lì, dai Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello, che considero fra le più alte opere del nostro secolo. Ho già anche il titolo Due dei sei. Due dei sei perché in scena riporto il Figlio e la Figliastra. È la Figliastra che va dal Figlio, dal Fratello, dopo che è avvenuta una grave tragedia. Dopo che la madre si è uccisa e il padre è impazzito. E domanda di sapere... Ho sempre avuto in mente di scrivere qualcosa che mettesse a fuoco il mistero dell’incarnazione. Il vero incontro tra Cristo e la Madre. Potrebbe avere come titolo Inri. E poi penso sempre a Celeste Aida, ispirato al libretto musicato poi da Verdi”.
1987
Pubblica il saggio La resurrezione della bellezza in occasione di una mostra delle sculture di Igor Mitoraj alla Compagnia del Disegno: «Alzantesi dai sepolcri, le statue di Mitoraj non solo riescono a contenere in sè un’immagine innica e purissima dell’esistenza, ma, ecco, sui margini dolenti delle loro cicatrici, propongono, di bel nuovo, il moto più arcano e sacro dell’esistere; quello proprio alle cellule più tenere e mute; quello proprio al sangue più sacrificale e ardito».
Pubblica il saggio I colori della gioia nel volume su Gunter Damisch edito da Emilio Mazzoli di Modena, in cui propone un itinerario sul gruppo dei cinque giovani maestri dell’arte austriaca che in questo periodo sta seguendo con grande interesse: Brandl, Danner, Scheibl, Zitko e, appunto, Damisch e per loro propone una definizione: «Oggi come oggi, mi par più esatto chiamarli semplicemente, tragicamente, sacralmente ma anche, come vedremo proprio per Damisch, felicemente: ‘cosmici’». Tanto che mette a confronto la natura del «viaggio cosmico», «sia esso compiuto come oceanica oltranza (Scheibl), come abbagliata perdizione mistica (Brandl), come sconfinata favola. È, per l’appunto, questo il caso di Damisch».
Pubblica Appunti sul Serodine, nel volume Serodine. La pittura oltre Caravaggio.
Al Centre Georges Pompidou di Parigi, in gennaio, viene allestita la mostra: «Testori: Erodiade e la testa del Profeta», che presenta una serie di disegni, realizzati dallo scrittore nel 1968, mentre attendeva alla prima edizione del testo teatrale. Il catalogo è introdotto da un saggio di Carlo Bo, Dentro la testa del Battista. Nello stesso periodo al Petite Salle viene proposto il monologo teatrale interpretato da Adriana Innocenti.
Firma, in collaborazione con Emanuele Banterle, la regia, scene e costumi di Filippo di Vittorio Alfieri, in scena al Salone Pier Lombardo, protagonisti Franco Parenti e Lucilla Morlacchi. Dice l’autore: «La prima ragione della scelta di realizzare l’Alfieri è che si tratta d’uno degli autori che ho amato fin dall’adolescenza. Molti non capivano e ridevano. Ed ecco: ora comincio ad assolvere un debito con uno dei pilastri della storia della nostra letteratura e del nostro teatro. Quella di Alfieri penso sia una delle più feroci e grandi lingue che mai siano state ‘inventate’: un linguaggio e una struttura drammaturgica che, malgrado Alfieri amasse molto Petrarca, vive sulla linea Dante-Michelangelo; con la sua petrosità, la sua concisione spietata». Nel 1988 firma la regia di un altro testo di Alfieri, Oreste che va in scena al Teatro Popolare di Roma, con Adriana Innocenti e Piero Nuti.
1988
Pubblica, presso Garzanti, il romanzo In exitu a cui ha lavorato per cinque anni: «Il grado di non totale disonore di fronte al mondo sta nell’intensità con cui ho pagato il libro in me stesso. E anche nell’intensità dell’amore e della disperazione con cui ho accettato di farmi invadere da questa creatura, dal Riboldi Gino».
In una diversa versione, va in scena, In exitu, al Teatro La Pergola di Firenze, con la regia dello scrittore, protagonisti Franco Branciaroli nel ruolo di Riboldi Gino e Testori in quello dello «scrivano». La prima dello spettacolo appare molto movimentata: «Era dai tempi della prima dell’Arialda che non m’accadeva e, che forse, non accadeva, in genere nel teatro, ciò che accadde, investì, divise, urlò, schernì, ma proprio per questo rese indimenticabile la prima fiorentina di In exitu; e, seppure a tratti, anche le successive repliche. A differenza de L’Arialda, dove fui giocoforza costretto dietro le quinte, alla Pergola mi son trovato là, sul proscenio; indifeso, o difeso solo da quell’enorme, umanissima, urlante, plorante e pregante presenza di Branciaroli. Com’avevamo deciso insieme, abbiamo tenuto duro e resistere con ogni probabilità, dovremo anche in altre occasioni e in altri teatri chissà, forse anche a Milano. Forse anche sulla gran scalinata della gigantesca stazione. Eppure – perché negarlo? – di quelle tempeste provo di già una lucente, orrida nostalgia... Come se m’avessero introdotto, e irreparabilmente, in quel ‘ventre del teatro’, su cui avevo scritto tanti e tanti anni fa: e come se, uscirne, ormai non mi fosse più possibile; come, anzi, se, d’uscirne, mi fosse vietato il desiderio». La rappresentazione viene ripresa, a dicembre, a Milano, nel luogo naturale della vicenda, la Stazione Centrale, per una sola sera.
Tiene, al Teatro Out Off di Milano, un ciclo di tre lezioni sul proprio lavoro, intitolato La parola, come.
I progetti teatrali col Teatro degli Incamminati sono numerosi e, nel programma di sala per In exitu viene indicata una lunga serie di spettacoli da realizzare, con l’interpretazione di Franco Branciaroli, la regia, le scene e i costumi di Giovanni Testori e la collaborazione alla regia di Emanuele Banterle: stagione 1988/89: In exitu, Verbò; Stagione 1989/90: Confiteor, Sfaust; Stagione 1990/91: Regredior, Interrogatorio a Maria; Stagione 1991/92: Celeste Aida ; Stagione 1992/93: Fulbe Bororo.
Vince il “Premio Pandolfo” con la raccolta di poesie ...et nihil scritte tra il 1985 e il 1986, che viene pubblicata in un’edizione a cura del Premio, illustrata da una serie di pastelli di Giovanni Frangi.
Pubblica il saggio Cristo è perenne movimento nel catalogo della mostra Voi chi dite che io sia?, dedicata all’arte religiosa contemporanea.
Pubblica il saggio L’eterna neve della vita nel catalogo della mostra di Martin Disler che si tiene a Zurigo.
Pubblica Daniele Crespi nelle raccolte private, catalogo della mostra che si tiene alla galleria Italiana Arte di Busto Arsizio.
Cura la mostra G. Courbet 1819-1877 che si tiene alla Compagnia del Disegno di Milano e pubblica in catalogo il saggio L’insurrezione e la quiete.
Pubblica il saggio Lettera a Hieronimus de Rumani sive de Rumano (per indegnamente chiudere, trasgredire e riaprire), nel volume Pittura del Cinquecento a Brescia, pubblicato dalla Cassa di risparmio delle Province Lombarde.
1989
Va in scena al Piccolo Teatro di Milano, Verbò, terza parte della «Branciatrilogia I», protagonisti Franco Branciaroli e Giovanni Testori, con la regia dell’autore con la collaborazione di Emanuele Banterle e la realizzazione del Teatro degli Incamminati. Così ne parla Testori: «Il sottotitolo d’‘autosacramental’ vorrebbe significare il senso più cupamente ‘teologico’ che questo terzo testo della ‘Branciatrilogia’ possiede nei confronti degli altri due Confiteor e In exitu. Violento quanto loro, forse ancor di più, Verbò discute fisiologicamente della fatalità dell’uomo a parlare e nello stesso tempo dell’inutilità d’ogni parola umana; d’ogni parola che sia lei, la Parola; d’ogni verbo che sia lui, il Verbo. Nessun attore avrebbe potuto assumersi la parte che porta la mia esperienza e il mio nome, quella che coincide altresì con Verlaine, se non io stesso. Ma che nessun attore al mondo poteva assumere, e portare all’incandescenza cui la porta, la parte che concentra Rimbaud e Branciaroli, come Branciaroli, credo di poterlo affermare con ben più totale certezza. Nessuno come lui».
Al Piccolo Teatro di Milano viene ripreso, con la regia di Lamberto Puggelli, protagonista Tino Carraro, Conversazione con la morte.
Testori torna a collaborare con Teatro dell’Arca di Forlì con la partitura drammaturgica e la regia di un testo di Luigi Giussani, La vertigine della condizione umana, letto come «prova teatrale»: «S’è immaginato che un gruppo d’attori (d’uomini d’oggi) si prendesse il carico, la gioia e la responsabilità di compiere tale incarnazione e insieme tale azione. L’inseparabilità dell’una all’altra ha guidato la «spartizione» dei singoli ruoli, ma ha altresì determinato il bisogno di spingere al vertice massimo, tanto i momenti di certezza, quanto i momenti d’interrogazione. Nessun personaggio, neppure quello cui vien demandato d’assumere il ruolo di ‘narrante’ resta fisso su d’una posizione psicologicamente immobile. Di volta in volta, ciascun attore si sposta dalla domanda all’affermazione, dal dubbio e dall’angoscia al grido di luce e di preghiera. Gli interventi sul testo sono stati minimi. Mentre più frequenti, le riprese e le ripetizioni d’alcune frasi e d’alcune parole. Così facendo non c’è parso di compiere violenza sull’originale, bensì di sviscerarlo, penetrarlo, amarlo e capirlo maggiormente, sì da cavarne quelle intenzioni che, per sua stessa natura, un atto teatrale, pur semplice, e primigenio, come questo, esige».
Cura la mostra Courbet e l’informale, che si tiene alla Mole Antonelliana di Torino, tesa a sostenere che «il grembo primo» della pittura informale va spostato dall’opera di Manet (come fino ad allora si è sempre sostenuto) a quella, appunto di Courbet. La tesi è supportata da una rigorosa scelta di autori e di opere in mostra: Fautrier, De Stael, Dubuffet, Tàpies, Burri, Morlotti, tutti maestri riconosciuti, con l’inserimento di un giovane pittore austriaco, Brandl, a testimonianza di una rinnovata fioritura europea della pittura informale negli anni Ottanta.
Pubblica il saggio Il cielo della libertà nel volume Hubert Scheibl. Odradek pubblicato da Emilio Mazzoli di Modena
Cura la mostra sulla Via Crucis di Vertova di Vittorio Bellini, presentata al 10° Meeting dell’Amicizia di Rimini e, nel 1990, al Convento San Bartolomeo di Bergamo. Scrive Bellini nella «biografia scritta da se stesso»: “Nel 1987 preso dalla sconvolgente e drammatica realtà quotidiana, trasforma i suoi dipinti, romantici e poetici, in una pittura dai colori violenti e tragici. Dichiara di dover tutto questo all’amicizia e alla stima di Giovanni Testori, il quale lo incita, consiglia e sprona in questo cambiamento totale della propria pittura».
Pubblica, presso Franco Maria Ricci, un volume sulle figurazioni artistiche della Maddalena.
Lavora ad un romanzo su Milano, rimasto inedito, Fulbe Bororo: «Un titolo strano, nessuno capirà che significa, sembra una forma, un’immagine di alba, di fulgore…».
1990
Viene ricoverato all’ospedale San Raffaele di Milano, dove, nonostante l’aggravarsi della malattia, continua a scrivere, dedicandosi alla Traduzione della Prima lettere ai Corinti: «Avevo bisogno di trovare un correlativo di scrittura, una struttura che reggesse rispetto a quella dell’originale. Quando l’anno scorso mi hanno detto che dovevo ricoverarmi, ho portato con me i testi e i vocabolari. All’inizio doveva essere una cosa breve. Il giorno prima dell’operazione ho scritto l’avvio, di getto, in modo spontaneo e ho capito che c’ero, che ero arrivato a risolvere il nodo fondamentale della questione, ero riuscito a prendere in mano il filo dalla parte giusta. Sono poi andato avanti, scrivendo e correggendo, come sempre mi succede quando scrivo, tra esaltazione e scontetezza, tra gioia e infelicità. A volte avevo l’impressione di scolpire una pietra che non voleva lasciarsi scalfire. Nel frattempo avevo cominciato a scrivere anche SdisOrè e la stesura dei due testi proseguiva parallela, senza nè che si legassero e nè che si elidessero, anzi aiutandosi per quanto riguarda la struttura, la forma, la parola”.
Va in scena al Teatro Nazionale di Milano, Sfaust, prodotto dal Teatro degli Incamminati, protagonista Franco Branciaroli, con la regia dell’autore con la collaborazione di Emanuele Banterle. È il primo titolo della «Branciatrilogia II» e viene pubblicato da Longanesi che diventa il suo nuovo editore.
Cura la mostra delle terracotte di Fioravanti per la Compagnia del Disegno di Milano.
1991
Va in scena SdisOrè, la seconda parte della «Branciatrilogia II», al Teatro Goldoni di Venezia, prodotto dal Teatro degli Incamminati, protagonista Franco Branciaroli, con la regia dell’autore in collaborazione con Emanuele Banterle. Il testo è pubblicato da Longanesi.
Viene rappresentato, per la prima volta, il testo originario (1969) dell’Erodiade al Teatro Out Off, protagonista Raffaella Boscolo, con la regia di Antonio Systy.
Pubblica un saggio nel catalogo della mostra Sutherland. L’atelier dei ritratti che si tiene a Varese e cura la mostra dedicata a Francis Grüber alla Compagnia del Disegno di Milano e quella di Marino Marino che si svolge alla Rocca Malatestiana di Cesena.
Pubblica da Longanesi Traduzione della prima lettera ai Corinti, una scommessa dello scrittore soprattutto con se stesso: «È stato un terribile impegno che mi sono preso con San Paolo e soprattutto con la cultura e, dunque, con la lingua da cui esco, cui appartengo e con cui lavoro, lotto e, per il suo attuale essersi svenduta all’inerzia, m’indigno. Volevo portare la ‘Lettera ai Corinti’ all’interno del processo di verbalizzazione della nostra poesia: volevo gettarla come un ingombro monumento dentro la nostra letteratura. Anche di forza; anche peccando di violenza».
Continua il ricovero all’ospedale San Raffaele: «Quello che constato scrivendo cose nuove, non solo queste che stanno per essere pubblicate, ma anche una serie di racconti che si intitolerà Infera Mediolani, è la tenerezza, il magone che m’invade. Sai, un anno e mezzo di malattia, in ospedale, tra i malati e i sofferenti, non possono non scalfire e non segnare un uomo e, segnando l’uomo, segnano lo scrittore. Sento una pietà più tenera – che nello SdisOrè non c’è ancora e s’avverte solo alla fine – perché io stesso vivo in mezzo a uomini e donne che hanno bisogno della tenerezza e della dedizione che gli danno gli altri, i medici, gli infermieri... In questo caso specifico il San Raffaele è un ospedale straordinario, ci si sente come in famiglia. Per questo non mi fa terrore il pensiero di dover restare in questa stanza ancora per cinque mesi. Anche se, in verità, il terrore non l’ho mai sentito, nemmeno l’anno scorso, quando in quella notte in cui stavo malissimo, quasi lì, sul punto di morire, e ho visto davanti a me una luce d’oro con mio papà, mia mamma e la mia nonna. È stata la grazia di Dio e in momenti come questi la si percepisce, concreta, fisica. Poi il Signore ha voluto che ricominciassi. Devo dire grazie per questo alla famiglia, ai nipoti, agli amici. Sono stato invaso da un tale amore, da una tale tenerezza, da una tale dedizione che forse non merito».
1992
Pubblica il romanzo da Longanesi Gli angeli dello sterminio. Nella stanza dell’ospedale San Raffaele, dove è ricoverato, scrive il romanzo Regredior e i Tre lai, (Cleopatras, Erodias, Mater Strangoscias), pensati espressamente per l’attrice Adriana Innocenti, che saranno pubblicati da Longanesi nel 1994, anno in cui esce, in una preziosa edizione, curata da Mariagrazia Bianchi e Giorgio Upiglio, la serie di dieci poesie, scritte in questo periodo, Segno della gloria, dedicate al tema del teschio,con sedici incisioni di Samuele Gabai e una postfazione di Carlo Bo.
Il 25 ottobre debutta al Teatro Franco Parenti la ripresa, 22 anni dopo la prima rappresentazione, della Maria Brasca, con la regia di Andrèe Ruth Shammah e con protagonista Adriana Asti. Ad una delle rappresentazioni assiste anche lo scrittore.
La Compagnia del Disegno, pubblica in un’edizione fuori commercio, le poesie ...per un ritratto accompagnate da fotografie relative al ritratto che Fetting gli ha dedicato, nel 1990, e all’evoluzione dello stesso in cui lo scrittore appare già molto dimagrito, col viso scavato.
Alterna la degenza in ospedale ad alcuni soggiorni all’Hotel Palace di Varese.
1993
Giovanni Testori muore il 16 marzo 1993 all’ospedale San Raffaele di Milano. La sua ultima testimonianza viene affidata ad un’intensa intervista televisiva di Riccardo Bonacina, trasmessa dalla RAI poco prima della morte.
Viene inaugurata, ad Aosta, pochi giorni dopo la morte dello scrittore, una grande mostra dei suoi dipinti e dei suoi disegni che copre un arco temporale che va dal 1965 al 1985. Il catalogo è pubblicato da Fabbri editori, con un saggio di Giovanni Raboni. Successivamente la mostra viene ospitata a Urbino e a Ferrara. In autunno la Compagnia del Disegno presenta la mostra di acquarelli del 1977, «Omaggio a Giovanni Testori».
Esce un volume di conversazioni con Luca Doninelli, realizzate nel luglio 1992, all’Hotel Palace di Varese.
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