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Marinella Mascia Galateria
L'autobiografia trasfigurata di Paola Masino
“Via via che vado scrivendo queste cose mi accorgo di quanto io sia inadatta al documentarismo. Narrare episodi già vissuti, realmente accaduti, mi riempie di noia. La bellezza dell’arte, il piacere dello scrivere sta tutto nell’inventare”

Una mattina di maggio, l’Ascensione, giorno di vacanza, dunque niente “Europe nouvelle”, Paola Masino si arrampica all’ultimo piano di rue Servandoni 7, nello studio di De Pisis. Rapidamente, il pittore cattura nella “bellissima modella”, poco più che ventenne, lo splendore e l’intensità del momento che sta vivendo. Unico per la sua vita di donna e di scrittrice: aveva accettato, con una decisione difficile, di vivere il “miracolo” dell’amore “assoluto” con Bontempelli, agli occhi degli altri un legame scandaloso, e attraversava un momento di grande creatività letteraria. Da Parigi, da quel momento e luogo magico di frequentazione di artisti e scrittori, da De Chirico, a Savinio, a Picasso, in cui aveva ritrovato Pirandello e conosciuto Crémieux, Maurois, Ramón Gómez de la Serna, nell’euforia della sua giovane bellezza, dell’indipendenza, nell’orgoglio di essere una Sforza, imparentata alla lontana con Manzoni, non si lascia influenzare più di tanto. Se Bontempelli e Palazzeschi, arrivati nel tremplin culturel du monde, avevano subito scritto racconti ambientati a Parigi, Paola Masino dedica alla città solo un pezzo, in cui appare come “una vasta distesa di terra asfaltata su cui si adagia uno strato latteo di vapori”, una “città miraggio”. Una “città borghese”, che la entusiasma per i suoi teatri, per gli spettacoli di Josephine Baker, per l’ultimo film di Bunuel, ma non offre ispirazione alla sua narrativa. Perché è già convinta che l’orizzonte artistico non è solo in ampiezza ma soprattutto in profondità e che se “la descrizione di una zolla può mostrarti l’intero pianeta, è pur vero che la fotografia dell’intero pianeta non ti rivelerà mai la vita di una zolla”.
La ricerca di scrittura creativa e il pensiero che la sottende sono dunque volti a temi alti, assoluti, astratti, l’Amore, la Vita, la Maternità e soprattutto, la Morte, ossessiva presenza fin dalla prima infanzia.Temi che ha già individuati in Regni vaganti, scritto a Parigi nell’ottobre del 1929, e negli altri racconti, confluiti poi in Decadenza della morte, che Bontempelli definirà “singolari saggi” proprio per il loro grande ardore speculativo, la loro assoluta astrattezza. E i suoi due primi romanzi li inventa e li costruisce riandando al microcosmo dell’infanzia, ai luoghi che l’avevano profondamente segnata, determinando la sua indomita ansia di libertà, di intraprendenza, il suo rapporto con la natura: la casa dei nonni materni in Toscana e la casa paterna di Roma, che l’avevano fatta crescere l’una “con radici nel più remoto passato” e l’altra “con fronde anelanti al futuro”.
Nella grande antica casa di Gabbiano, alta nel borgo di Montignoso, vicino Carrara, sullo sfondo delle Apuane e delle cave di marmo bianchissime, nel giardino selvaggio e incantato, sono affondate le sue radici, prenatali: zolle di terra che hanno assunto appunto una valenza mitica, universale, che “parlano del pianeta”. E lì, nella casa carica di storia della famiglia Sforza, rivissuta nei racconti materni, con i grandi quadri settecenteschi a soggetto biblico appesi nella “soprasala”, Paola ambienta il suo primo romanzo, evocando il cerchio di ombre, di paure, di profonde certezze dell’infanzia:
“Quella casa piena di ombre e di voci, di rumori di zoccoli e di fiammelle di candele, che di giorno ci accoglieva con un brusio di rami, come fosse il prolungarsi del boschetto e la notte c’inghiottiva tra le antiche mura. Che paura quando la Menica ci lasciava in camera rossa e noi vedevamo dalla lunetta della porta, a poco a poco estinguersi il tenue chiarore della sua candela. Subito i vecchi quadri si mettevano in moto: da Mandria si annunciavano le streghe in un accendersi di lumini e noi nascondevamo il capo sotto le coperte, rifugiandoci nel casalingo fruscio delle foglie di granturco dei materassi”.

Luoghi e motivi autobiografici ispirano dunque e danno una precisa impronta al romanzo, ma Paola Masino li trasfigura progressivamente nel corso delle diverse stesure. La casa di famiglia, ad esempio, che nel manoscritto è come un realistico e neutro “palazzetto di paese”, chiuso come in un cerchio dal “giardino calmo e avventuroso”, si trasforma poi nella “vecchia casa” del dattiloscritto e, infine, acquistando un elemento cromatico simbolico, nella “casa rossa”, stregata e malefica, alta sul monte, luogo di perdizione e lussuria, di allucinazione e follia, infine di morte. Una casa predestinata, dalla quale bisogna dunque allontanare la piccola Barbara, l’unica figura idealizzata del romanzo che non subisce mutamenti attraverso le varie stesure del romanzo, proprio perché fortemente autobiografica. E autobiografica è anche la simpatia di Barbara per il ritratto dell’Abate Federico Vaira, familiarmente chiamato “zio prete”, oggetto delle sue dolci allucinazioni. Tra gli imponenti quadri, che dalle pareti della “soprasala” avevano sempre esercitato un influsso di mistero e di paura su Paola bambina, si differenzia infatti la presenza bonaria, affettuosa e ironica dello “zio prete”:
“Lo zio prete ha una faccia rotonda, serena, riccioli bianchi l’ammorbidiscono ancora di più, un nastro rosso al collo, che tiene il corto mantello nero, la rende addirittura infantile. Vicino a lui, sulla tavola, ha sempre pasticche di anice e menta in una scatola di porcellana bianca”.

La descrizione, molto vicina a quella del ritratto settecentesco realmente esistente nella casa di Gabbiano, viene completamente eliminata nella redazione definitiva del romanzo, perché la sua apparenza serena, coi capelli bianchi “di farina” che piacevano tanto a Barbara, mal s’intona, nell’avvio notturno e cinematografico del romanzo, con la scena oscura e sinistra dei misfatti compiuti dai fratelli di Giuseppe, protagonisti dei quadri biblici dai quali sono usciti per farsi mediatori demoniaci del destino di Emma.
Le paure dell’infanzia unitesi alla “passione morbosa” per il Gogol del Ritratto nella scelta dell’animazione dei quadri come motore surreale della fabula e la forte vocazione alla tragedia, insita in una scrittrice che ha sempre in mente Shakespeare, portano a un progressivo radicalizzarsi della narrazione di Monte Ignoso – dalla prima stesura a quella definitiva – nel senso di una condensazione simbolica e tragica del magico che trasfigura la realtà autobiografica immergendola nell’atmosfera stregata, come di incantesimo, fino all’uccisione repellente e catartica di Emma, orribilmente strangolata dal marito nella pozzanghera. Un finale che l’editore Bompiani aveva suggerito di eliminare, optando per una soluzione “meno tragica” o “meno patologica”, che avviasse “una specie di redenzione del romanzo, di esaltazione della maternità”. Anche una lettrice come Anna Maria Ortese aveva provato “orrore” di fronte a questo romanzo e alla morte “stupendamente descritta” di Emma.
L’abisso di condensazione simbolica e di spietata rappresentazione tragica, in cui la scrittrice si era infilata a capofitto in Monte Ignoso, subisce un’inversione di tendenza con il secondo romanzo, Periferia. Alla atemporalità di Monte Ignoso fa riscontro qui l’indicazione precisa del tempo della fabula, contemporaneo a quello della scrittura, che prende le mosse la prima domenica di ottobre del 1931 per chiudersi nello stesso luogo dell’incipit nel settembre del 1932: un anno esatto, scandito dallo scorrere dei mesi che danno il titolo a ciascun capitolo. Alla precisione cronologica si accompagna una descrizione dettagliata della realtà dei luoghi, profondamente ancorati all’autobiografia della scrittrice, alla sua infanzia e ai giochi per la strada con un gruppo di coetanei vicini di casa (i Ratti e quei Bachi, ebrei, che moriranno tutti in campo di concentramento), in quel villino ad angolo tra via degli Appennini e piazza Caprera dove la famiglia Masino aveva vissuto fino al 1922:
“L’estate, [la passavamo] quasi tutta in mezzo alla strada e [potevamo] rincasare assai tardi la notte (il nostro era un quartiere di villini che, dopo le otto di sera era molto raro passasse una carrozzella o una bicicletta: ci conoscevamo tutti e i genitori dalle finestre o dai piccoli giardini ci sorvegliavano)”

Piazza Caprera, con la sua forma rotonda e con lo sviluppo delle vie circonvicine, disegnata dalla scrittrice nella piantina che doveva forse servire per la copertina del romanzo Bompiani, è rappresentata con precisione topografica nell’incipit del romanzo. Non è, come è stato scritto, una descrizione improntata alla migliore tradizione del realismo ottocentesco, ma una vera e propria didascalia teatrale posta all’inizio del romanzo. La vocazione alla teatralità, già individuata in Monte Ignoso, si conferma, infatti, e si accentua nell’ impianto del secondo romanzo di Paola Masino, dove il taglio dei capitoli assomiglia a una successione di scene e il tessuto narrativo mostra una prevalenza assoluta del dialogo. E dove il cerchio di Piazza Caprera, ribattezzata Pannosa, funge da palcoscenico alla “piccola compagnia di fanciulli” protagonisti del romanzo, che appaiono all’inizio del secondo capitolo, Presentazioni, scenograficamente posti sulle scale del villino di via delle Isole 25. Un villino tra l’altro rimasto a tutt’oggi miracolosamente intatto e identico, nella struttura a tre piani, nel colore bianco, nella striscia di giardino che lo separa dalla strada, a come appare nel testo. Non è una descrizione realista perché il cerchio geometrico e reale rimanda a un cerchio metaforico, all’immagine simbolica e mitica dello spazio dei giochi, delle avventure, della libertà dell’infanzia, protetto dall’intrusione del mondo degli adulti. I genitori infatti non scendono mai nella strada, restando dietro le quinte, negli interni delle case, da dove appaiono come ombre, o figure che si affacciano alle finestre per richiamare i ragazzi alla fine della giornata.
Nell’oscillazione tra realtà e magia, nell’impiego del modello della fiaba e della rappresentazione teatrale, Periferia raggiunge il punto di più felice equilibrio nella narrativa di Masino. Rappresenta il polo più realista della sua opera, dando un quadro della famiglia – certo lontano da quel sacro culto della Madre e del Bambino cui il regime aveva dedicato tutto se stesso – caratterizzato da padri alcolizzati, avari e aguzzini, che affamano i figli e la moglie, come quello di Giovanni e Maria; madri adultere, come quella di Fran; o isteriche e violente, che si accaniscono contro i figli malmenandoli fino quasi ad accecarli, come nel caso di Armando; infine da bambini che vivono e crescono per la strada. Per questo – e per l’impianto teatrale – Periferia potrebbe essere accostato al primo romanzo di Moravia, Gli Indifferenti, ambientato tra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta, in un villino del quartiere Pinciano, che rappresentava, infatti, una famiglia assai poco esemplare, ricca di vizi e di squallore morale più che di virtù. Per questo, come Gli Indifferenti quattro anni prima, Periferia fu accolto dalla critica fascista come romanzo disfattista e immorale. Ma Paola Masino, bollata come autrice di romanzi “bolscevichi, aridi e suggeriti”, con la sua ansia di assoluto, liquida come un paradosso la possibilità di scrivere “un libro che affondi nel contingente, che rappresenti il nostro tempo”. Infatti Periferia non è solo una rappresentazione “contingente”, circoscritta e cronologicamente datata, è un cerchio magico ed eroico, continuamente insidiato dalla linearità della crescita. Così la ragazza entrata nella pubertà viene subito scacciata dai compagni, così l’esito finale di Periferia è segnato dal senso inesorabile della perdita. Il romanzo si chiude infatti sulla disgregazione del gruppo per le improvvise partenze dei ragazzi protagonisti. E tra questi c’è anche quella delle ragazze Masino che nel 1922 lasciano il Villino Sertoli per trasferirsi nell’abitazione definitiva di viale Liegi. Quella periferia appartata, ancora silenziosa, come di provincia, in cui tutti si conoscevano, “quella casa gracile, piccola, ariosa, aperta su un presente fuori del tempo, tutto proiettato nel futuro”, resta nell’immaginario e nella memoria di Paola, e nella trasfigurazione narrativa, legata alla dimensione della leggerezza, a lei e alla sua poetica generalmente sconosciuta. Una casa, quella di via Appennini, in cui era “cresciuta”, diversa da quella del “dorato confino” di Venezia che la distruggerà.
Venezia: 1938-1950
Venezia 1938
Se l’allontanamento da Roma era stato imposto dal regime, la scelta di Venezia era stata di Bontempelli. Paola voleva andare a Firenze, una città più vicina a Roma, che conosceva bene, ma non aveva insistito, interpretando il rifiuto di Massimo come dovuto al fatto che a Firenze aveva a suo tempo vissuto con la moglie.
Ma l’estraneità di Venezia è palpabile nelle lettere ai genitori:

“Non so perché l’idea di venire a Venezia non mi rallegra interamente; la città è davvero eccezionale, ma mi rattrista pensare che è così lontano da voi […]. Proprio molto differente dal modo di vita, Roma o Parigi, Milano o Firenze, che avevo avuto sinora. Si vede che davvero l’acqua ha un’influenza sullo spirito, e tutti questi abitanti sono ondulosi sommessi, arrivano a te e ti blandiscono poi si ritraggono come onde su un lido”.

Anche per la casa, peraltro bellissima, ma subito associata alle preoccupazioni di pesanti spese, in un momento in cui Bontempelli è stato sospeso dal regime da ogni attività pubblicistica (“la poca pecunia bontempelliana”) la decisione era stata di Massimo, come Paola scrive alla sorella in una lettera del 15 giugno [1938]:

“Quella che dovrebbe essere la nostra casa veneziana, è il terzo piano di palazzo Mocenigo, sul Canal Grande, in faccia a Ca’ Foscari. Una vera meraviglia con tre saloni e due stanze da letto con due bagni. [...] Insomma, come capisci, spese su spese: ma Massimo s’è intignato ed è meglio lasciarlo fare”.

Né gli si poteva dare torto. Intanto per uno come lui che considerava la musica il più gran dono di Dio, lo storico Palazzo Contarini delle Figure con la sua bella facciata in marmo, situato in San Samuele 3327, all’angolo con la piccola e oscura Calle Mocenigo, era strategicamente perfetto per la sua vicinanza al Conservatorio. E poi quello scenografico appartamento, all’ultimo piano, che si affacciava sul Canal Grande con le tre grandi porte finestre piene di luce, avrebbe lasciato nel corso di un decennio negli ospiti di Paola e Massimo un’impressione indelebile. Ramón Gómez de la Serna per esempio ricordava il grande atrio in cui La Lupa e la Pisana di Martini si offrivano allo sguardo del visitatore tra piante e aiuole di fiori sistemate da Paola, Anna Maria Ortese serbava naturalmente nel suo immaginario e anche nei suoi sogni la visione della luna, della laguna argentata oltre che delle persone sedute qua e là sui divani di raso bianco, amici straordinari, da Petrassi a De Pisis. E in tutti la memoria della sala da musica, con il pianoforte e al centro un’aiuola di grano, ideata da Paola, che alitava discreta senza disturbare la concentrazione dell’ascolto, accompagnando le note dell’ultima opera di Malipiero o del concerto appena terminato da Petrassi, o la voce di Paola e di Massimo intenti a leggere i loro nuovi racconti. Ma questa casa bella, importante, presentava per Paola Masino il problema quotidiano e assillante della servitù, dei conti, dei pranzi, delle cene, degli ospiti, interessanti quanto si vuole ma onnipresenti, tutti ostacoli quasi insormontabili alla concentrazione necessaria alla scrittura.
Paola scopre presto che aumentando le dimensioni della casa aumentano gli affanni in proporzione e comincia a dichiarare nelle lettere ai familiari: “Non sarò mai, no, non sarò una massaia felice”. Sale la tensione di chi, come lei, vivendo in quella casa che era “un’arnia di lavoro: non vi si parlava che di lavoro, non vi si faceva che studiare, scrivere, dibattere copioni, discutere, argomentare e tradurre, correre a uno spettacolo, a un concerto, e tornare a discettarne, aiutarsi l’un l’altro a procedere ed approfondire” non riesce a scrivere, ingranata com’è nella routine di quelle piccole cose che cariano la vita, avendo coscienza del “martirio arbitrario” di “essere legata alla macina della casa” prima di tutto. Un martirio che sembra arbitrario solo a lei, essendo universalmente accettato e ben consolidato nel ruolo e nei doveri di una donna. Ed ecco l’invettiva di Paola, il suo sdegno:
“Se potessi finire il mio libro! Se questi maschi maledetti sapessero quanto più noi di loro desideriamo fare certe cose che loro mettono come pegno della loro stima e poi ci tolgono la possibilità di compierle”.

Questa casa veneziana così bella – come mai avrebbe sognato di avere – crea insomma come contraltare nella scrittrice il dramma della massaia. Anche nel primo entusiasmo della sistemazione trapelano i sintomi di un forsennato perfezionismo nell’ordinare gli armadi, nelle pulizie, di un’angoscia eccessiva per l’avvicinarsi dell’ora dei conti con le domestiche:
“ormai tutto il mio essere non vive che in vibrazione continua con quel piano di soffitte maledettissime [...]sotto l’incubo di quello che accade nell’appartamento di servizio” (ossessione che anche la massaia protagonista del romanzo avverte per esempio durante la visita al Museo Civico col padre, ma lì certo, non trovandosi in casa sua, diventa una vera e propria allucinazione).

Finché Paola non arriva all’abdicazione:
“Ho rinunciato a una vita intelligente e basta”.

Bontempelli suggerisce allora di liberarsi dall’ossessione scrivendoci intorno un libro. Forse senza saperlo, lui che voleva ignorare il profondo e la psicoanalisi, agisce come il dottor S. che consiglia a Zeno di liberarsi del vizio del fumo scrivendo le sue confessioni. Certo che dal suggerimento nasce un altro straordinario romanzo, Nascita e morte della massaia, che mescola generi diversi (narrativa e teatro), scritture diverse (diario e racconto), confonde e sovrappone la prima persona della scrittura privata delle Memorie della massaia con la terza del narratore. Un’ossessione profondamente autobiografica e vera fin nei minimi particolari, diventa la storia di un fallimento, di cui la protagonista ha chiara consapevolezza fin dalla nascita, di un fallimento senza speranza e senza ritorno. Un fallimento nel segno della parodia e dell’assurdo, che avviluppa, lasciandola senza respiro, la vicenda del matrimonio e dell’adulterio e la rappresentazione dell’alta società, con l’inserto teatrale della grande cena a palazzo, a sua volta parodia della commedia borghese. Alla parodia del matrimonio dà voce il coro delle donne di una certa età e il coro dei signori mariti e, più in generale, il linguaggio vacuo della consuetudine nel dialogo tra coniugi, che fa venire in mente il Nivasio Dolcemare di Savinio. Un’ossessione e una parodia da cui non si salvano neanche i sogni, che vengono perfettamente amministrati e addomesticati dalla strategia della massaia. Neanche la morte rimuove l’ossessione della massaia, che, in un finale grottesco, continuerà a lustrare la sua tomba ogni notte nell’oscurità.

Roma, 1970
Quando l’ho conosciuta, negli anni Settanta, nell’appartamento di viale Liegi, Paola Masino non somigliava più alla donna degli anni Trenta che appare nel ritratto fattole da De Pisis a Parigi, col feltro abbassato sul volto e le due rose tea appuntate sul petto.
Lei, famosa per “l’estrosa euforia” con cui inventava i suoi vestiti da sera, per il fantasioso anticonformismo con cui si adornava di gioielli naturali fatti di tralci e di foglie, che amava sorprendere con il suo look nelle apparizioni serali dalle sette alle due del mattino (salvo poi usare per il resto della giornata un vecchio impermeabile della madre) portava allora gli abiti smessi dell’amica Maria Luisa Astaldi, scuri e dignitosi, quasi sempre blu. Lei che aveva considerato con soddisfazione, come una conquista per il suo status di autrice consolidata, il tailleur di Biki ricevuto in regalo da Alberto Mondadori dopo la pubblicazione di Nascita e morte della massaia sul settimanale “Tempo”, era in “quell’età nella quale i vestiti perdono ogni attrattiva”, quando “la donna non ha più ambizioni e civetteria nell’abbigliamento e quando deve occuparsene prova un vero fastidio. È l’età matura, è l’inizio della vecchiaia”. Ma Paola Masino non era spenta. Aveva intanto quella che un’altra scrittrice, sua amica e compagna di strada, Anna Maria Ortese, chiama “la spavalderia” di chi è stato teneramente amato e seguito dai genitori durante la sua infanzia e la sua adolescenza. In particolare Paola era cresciuta nel “cerchio di affetto” eroico, paziente, protettivo della madre e l’attenzione assidua, intelligente di un padre che aveva instillato nel suo spirito, fin dalla più tenera età, il valore assoluto di una cultura ad ampio spettro, un’educazione libera dagli schemi del conformismo, il disprezzo per la meschinità e per quelle che Natalia Ginzburg avrebbe chiamato le piccole virtù. Un modello, quello paterno, che Paola aveva assunto in pieno e realizzato. E ‘babbo’ parola del suo lessico familiare, con qualche eco di toscanità, ricorreva spesso, molto spesso, nei suoi discorsi, come una presenza viva. Conservava quella stessa intransigenza che le aveva fatto esprimere quarant’anni prima un giudizio riduttivo (“somigliante ma un po’ volgare”) su quel ritratto di De Pisis che ora vedevo per la prima volta, appeso sopra il termosifone, e che mi sembrava e mi sembra un’icona perfetta, intensa e splendente, di Paola, una donna e una scrittrice legata, nel culmine della sua vita e della sua opera, agli anni Trenta e alla cultura che avevano espresso. E per la quale Paola era in una sorta di lutto e di rimpianto. Ma in quell’inizio di vecchiaia nella grande casa di viale Liegi era rimasta sola. Sola con gli archivi: quello di Bontempelli e il suo stavano insieme in quella stanza blu da cui nel corso di venti anni l’ho vista tante volte riemergere con la cartellina che mi serviva, che ci serviva, per lavorare per una bibliografia, per i Cahiers di “900”, per i carteggi.
Paola era fedele, in amore, negli affetti, nei rapporti con gli editori (penso a Bompiani, che non volle mai lasciare per Mondadori, con danno credo notevole per la sua Massaia, di cui Alberto era entusiasta). Ed era contenta della mia fedeltà di studiosa a Bontempelli, in anni in cui era dimenticato molto e ricordato solo per ipotetici scoop giornalistici sul suo fascismo, cosa che la sdegnava e la faceva sentire ancora più sola. Intorno a noi, aumentato nel corso degli anni, era un mare di carte, che nessuno, salvo lei, sapeva dove mettere. Erano gli archivi, a cui dedicava ogni sua energia, ogni sua cura, un modo per proiettare nel futuro il loro lavoro e quella cultura in nome della quale avevano lavorato insieme e insieme avevano vissuto. E, come la cura della narrativa e dei saggi di Bontempelli, anche un modo per esorcizzare la solitudine, tanto più profonda, di chi ha avuto degli eccezionali compagni di strada.
Il valore assoluto, irrinunciabile, del modello ispiratore paterno, la straordinaria amicizia con Pirandello, l’amore esclusivo per Bontempelli, avevano implicato anche una serie di rinunce: prima a vivere un’infanzia ‘normale’, ignara di Shakespeare e di melodramma, a goderla con una completa spensieratezza. Poi, per esempio, a ballare, a vent’anni, quando si è innamorati e felici e si ha indosso il primo, bellissimo, abito da sera, frusciante, di taffetas rosa: “Bontempelli non ballava e neanche io, dunque, volevo ballare”, ove in quel “dunque” è implicita la rinuncia di fronte all’amore esclusivo, assoluto.
Aveva scritto nella favola autobiografica Allegoria prima:
“[..]subito aveva saputo che quell’uomo e quel luogo soltanto avrebbero potuto far consistere la sua vita. Lui rinunciò ai viaggi nella luce violenta del Sud, lei alle ricerche che si accumulano nei giovani anni per preparare i ricordi degli uomini. Lei non aveva altro ricordo fin dalla nascita che di averlo inventato, poi atteso e finalmente trovato. Nella sua vita prenatale e futura non c’era che l’immagine di lui. Nella vita presente, oltre il desiderio di lui, non c’era che un bisogno di oscurità”.

Ancora, più grave, la rinuncia alla maternità, un tema intorno al quale si era articolata tanta parte della sua scrittura e che così racconta trasfigurandola in Allegoria prima:
“Nessuno fu più felice di loro per dieci minimi anni. Passarono ed essi erano tanto compiuti che non un figlio nacque, perché i loro spiriti abbisognavano interamente e sempre l’uno dell’altro, né avevano modo di scindersi per dar luogo a un’altra vita”.

E la condanna alla sterilità ritorna come suprema beffa nel destino della Massaia.
Infine la rinuncia a scrivere: Paola, che aveva profuso nei suoi testi una grande densità di temi e di forme, non poteva credere che fosse capitata proprio a lei quella disperante impotenza creativa, quella fatica della scrittura per cui anche il breve saggio introduttivo alla versione di Barbey d’Aurevilly nell’agosto del 1978 le appariva un incubo, era “maledetto”. Mi raccontava che durante la lunga malattia di Massimo si era svuotata, “alienata” (come diceva lei, che con le parole era perfetta, precisa, bravissima, intransigente, che aveva anche un suo divertente lessico familiare) insieme a lui, da tutto il resto. Lei che non era stata madre, era divenuta madre del suo uomo, aveva cercato di sopravvivere. Per sopravvivere si era dedicata poi alle traduzioni dal francese e anche ai libretti d’opera, in cui, scrivendo per la musica, doveva sintetizzare al massimo l’azione e dare molto spazio al sentimento.
“Bisognava vestire subito i personaggi del loro carattere, denunciarli subito. Bisognava scrivere in prosa piuttosto che in poesia”,

Per sopravvivere, ma con serietà, con entusiasmo, nella scelta dei testi da ridurre, tutti contemporanei, nei rapporti, anche epistolari, con gli autori delle musiche, tutti amici di vecchia data. E non è un caso che il teatro, tanto lirico che di prosa, frequentato dalla più tenera età, la accompagni dalle prime prove adolescenziali di scrittura, fino a questi libretti degli ultimi venti anni. E che la teatralità attraversi la sua opera, dal primo ingenuo siparietto inserito in uno dei racconti pubblicati su “900”, Fantasmi su Roma, alla vocazione alla tragedia del suo primo romanzo (penso alla gestualità di Emma nelle scene dei suoi deliri, ai drammatici monologhi con i personaggi dei quadri, alla partitura in quattro atti di Monte Ignoso, ciascuno centrato su uno dei protagonisti) all’impianto teatrale di Periferia e all’inserto nel quarto capitolo, Novembre, della scena dell’Amleto, fino alla straordinaria parodia della commedia borghese, del classico triangolo marito moglie ‘amante’, nella cena danzante nella Massaia.
Infine c’è il sacrificio della sua individualità e della sua identità di scrittrice: Paola Masino è sempre, inevitabilmente, nella vita e nella scrittura, la compagna di Bontempelli. Lei non se ne lamentava quasi mai, in fondo era lei che lo aveva voluto, ma questo punto è fondamentale, ci riguarda più da vicino, perché è un abito che perdura, fatta qualche felice eccezione (i recenti saggi di Vittori e di Yehya) a più di dieci anni dalla sua morte. Non c’è scritto infatti su Paola Masino che non parli della sua per tanti versi eccezionale biografia, dei suoi incontri e della sua amicizia con i maggiori artisti del secolo. Non c’è testimonianza o riscoperta che non faccia riferimento a Gadda e alla sua autorevole stroncatura di Monte Ignoso su “Solaria” o alle figure certamente importanti di Bontempelli e di Pirandello, ma anche un po’ ingombranti numi tutelari del suo itinerario culturale. Non c’è critico che leggendo o rileggendo la sua narrativa non si interroghi sulle analogie o differenze tra la scrittura di Paola Masino e quella bontempelliana, prendendo inevitabilmente a prestito la fortunata frase di Luigi Baldacci secondo la quale Masino sarebbe uscita “dal realismo magico come Eva dalla costola di Adamo”. Sorvolando invece sulla sua fine precisazione che resta da dire che “quella somiglianza è tutta una differenza”, consistente soprattutto tra la leggerezza e il candore bontempelliani e i toni profetici e gravi del surreale della scrittrice, che, più che al magico, attengono al sacro, al religioso e a un’idea della scrittura come elemento oscuro di mediazione tra naturale e soprannaturale.
Per quanto possa sembrare paradossale, a Paola Masino va dunque restituita innanzitutto la sua opera nella sua interezza, visto che dal 1931 a oggi è sempre stata come ‘dimidiata’ dalla critica. E le va restituita nella sua identità, tenendo conto della sua ricerca d’assoluto, della sua inclinazione per il simbolo e la metafora. Riportandola, anche con l’ausilio prezioso della sua scrittura privata in larghissima parte inedita, al suo immaginario, alla sua esperienza autobiografica, alla sua predisposizione al melodramma, al teatro, alle grandi fiabe, alle letture insomma “morbosamente predilette” – opere e personaggi – che, assorbiti dal suo spirito, vivono in continua osmosi con il suo mondo reale. Un’osmosi importante, testimoniata in tante pagine dei suoi quaderni e vivamente esemplificata nell’inserimento della scena dell’Amleto in Periferia, dove la ragazzina Anna, personaggio di evidente ascendenza autobiografica, non solo propone ai compagni di inserire tra i giochi la rappresentazione del testo shakespeariano, ma ne è talmente “padrona” da assegnare rapidamente costumi e ruoli e da riscriverne le battute mescolandolo alle vicende della vita vera dei suoi compagni di gioco.
E tenendo conto certamente anche dei suoi incontri: in particolare, per quello che riguarda Bontempelli e il suo “realismo magico”, bisogna, più che a una dipendenza, pensare a una sintonia di fondo, a un’adesione importante e convinta. Una sintonia a cui Masino è stata coerente sempre fino alla fine, nella costruzione di una narrativa, nella forma sia del racconto che del romanzo, che non vuole descrivere, ma inventare, non vuole fare cronaca, ma opera d’arte, un’arte che “è sempre sbaraglio, avventura, indicazione, scoperta, anche quando è memoria” e che porta alla creazione di miti, sublimati, desublimati o parodiati. D’altra parte va riportata alle sue vere coordinate anche la posizione di Bontempelli che, con la teorizzazione del “realismo magico” sui Cahiers di “900”, non aveva voluto farsi caposcuola e indicare direttive o modelli precisi, ma proporre con forza uno strumento, l’immaginazione, e una tendenza verso una narrativa, individuata come genere per il nuovo secolo, antipsicologica e antilirica.
L’errore d’impostazione critica nella valutazione dell’appartenenza o meno della scrittura di Paola Masino, al “realismo magico” è stato quello di volerla ridurre a una maggiore o minore somiglianza con la narrativa di Bontempelli, prendendo oltretutto, per invelenire l’abbaglio iniziale, come termine di paragone per il confronto, la fase più aerea, più ironica, la più creativamente felice del fondatore di “900”, quella della prima metà degli anni Venti, che finisce per l’appunto prima dell’incontro con Paola. Da allora comincia naturalmente un intenso scambio di progetti e di idee tra i due: così nella scrittura di Monte Ignoso entrano anche i consigli di Bontempelli, testimoniati dalla fase iniziale della loro fitta corrispondenza, e d’altra parte proprio per l’influsso di Paola Masino che gli suggerisce le fabule di Vita e morte di Adria e di Gente nel tempo, nella narrativa di Massimo, che conosce fasi diverse nel suo itinerario artistico, si insinua e si accampa l’idea della morte, prima assente, ignorata o trattata con la massima ironia (per esempio nel bel racconto Porto rosso).
Per una corretta collocazione critica di Paola Masino bisogna partire, senza i preconcetti ‘solariani’ di un Gadda, novecentisti o femministi, proprio dalla sua atipicità, dalla sua vocazione all’assoluto. Dalla sua naturale autentica spregiudicatezza, che vuole imporsi con forza, senza sottomettersi ad alcuna contingente tendenza letteraria o politica o al comune senso del gusto o ai consigli dell’editore, fino a dare talvolta al lettore stesso, come le dirà Bompiani, a proposito di Fame, dei veri e propri pugni nello stomaco.
La singolarità della sua scrittura astratta, surreale, della sua speculazione ardita, che contempla il sublime e l’orrido, era già stata indicata da Bontempelli fin dal suo esordio, nell’introduzione a Decadenza della morte, dove, quasi spaurito, denunciando “la tendenza esasperata al sublime a costo di ogni pericolo”, auspicava che la giovane scrittrice imparasse a scendere e a “toccare con spirito semplificato la terra, accompagnando vicende accorate di uomini”. Certamente si è visto che in Monte Ignoso i concetti astratti protagonisti dei primi racconti, Maternità, Amore, Vita, Morte, si sono incarnati in personaggi molto reali e sanguigni nella cifra trasfigurata della pesantezza e dell’horror di un romanzo noir tutto predestinato e tragico. A toccare la terra Paola Masino era giunta infine con Periferia, dove, nel mescolarsi del racconto all’impianto teatrale, la rappresentazione del tema mitico dell’infanzia aveva raggiunto un ideale punto di equilibrio tra reale e surreale. Fino all’immobilità tersa dell’attesa della morte, resa nella forma dell’apologo e dell’allegoria, in Racconto grosso e altri e nella straordinaria parodia della Massaia, storia di un fallimento senza ritorno, Paola Masino si rivelava in questo percorso una scrittrice novecentista coerente, perché mai un suo testo aderisce alla superficie delle cose, sempre prendendo le distanze dalla materia autobiografica, per ricomporla, trasfigurarla, rappresentarla, attraverso lo strumento dell’immaginazione.
La riscoperta della Massaia, da parte dell’editoria al femminile negli anni Settanta e Ottanta, per quanto positiva e in linea con una delle ipotesi di lavoro di Paola (“dare un colpettino nella schiena alla schiavitù della donna, al luogo comune della buona padrona di casa”), rischia di marginalizzarla nuovamente, non rendendo giustizia al registro formale di quel testo straordinario, al complesso della sua opera, alla originalità e alla coerenza della sua poetica, che emerge ora più minuziosa e complessa, dall’analisi dei suoi quaderni di Appunti, molto diversi invero dalle Memorie della Massaia.