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Beatrice Manetti
BIOGRAFIA
Paola Masino nasce a Pisa il 20 maggio 1908, secondogenita di Enrico Alfredo, funzionario del Ministero dell’Agricoltura, e di Luisa Sforza, originaria di Montignoso, ai piedi delle Apuane.

Entrambi toscani trapiantati a Roma, dove abitano il villino Sertoli di via Appennini 25/b, i genitori esercitano su Paola bambina un’influenza opposta ma ugualmente determinante: la madre nutrendone la fantasia infantile con la suggestione esotica e aristocratica dei luoghi e delle memorie degli Sforza, la cui famiglia annoverava storici, scienziati, diplomatici e una lontana parentela con i Manzoni per il tramite di Giovan Battista Giorgini; il padre, appassionato di letteratura, pittura e musica, e autore a propria volta di romanzi e drammi, ponendosi come la stella polare del vertiginoso percorso educativo della figlia. È lui a farle conoscere per la prima volta l’opera; lui a condurla con sé nei circoli dei letterati dell’epoca e in lunghe passeggiate archeologiche sulla via Appia; lui a farle studiare musica, a mandarla a dipingere o a posare negli studi dei pittori suoi amici; lui a selezionare le sue prime letture, ‘censurando’ la narrativa per l’infanzia più incline al patetico e al sentimentalismo (“Cuore fu bandito dalla nostra biblioteca”), per aprirle il mondo della grande letteratura.
Al ginnasio, il professore di latino Giovanni Staderini la conferma nel suo precoce culto dell’arte e, complici gli scrittori latini, le regala le prime lezioni di stile (Paola se ne ricorderà molti anni dopo, nell’incipit del sesto capitolo di Nascita e morte della massaia, nel quale ricalca fedelmente la brevitas e le movenze sintattiche del periodare di Cesariano). Ma il suo mondo fantastico e la sua geografia culturale si formano sostanzialmente al di fuori della scuola. Sotto la guida discreta del padre, tra i nove e i sedici anni Paola legge la Bibbia, che eserciterà su di lei una suggestione indelebile, instillandole il senso del peccato e della colpa, nonché il gusto degli scenari primordiali e della narrazione in forma di parabola, Shakespeare – altrettanto cruciale per la sua predilezione per il registro tragico e per il suo gusto delle metafore audaci –, i favolisti, da Andersen ai Grimm a Perrault, i capisaldi del romanzo ottocentesco: Flaubert, Stendhal, Maupassant, Gogol, Tolstoj, e soprattutto Dostoevskij e Dickens, da cui trarrà l’idea della letteratura come indagine sul male. Nello stesso periodo, per rispondere alle sue prime inquietudini religiose, il padre la invita ad affrontare i testi sacri occidentali e orientali: “Cominciai così a leggere Corano e Talmud, Upanishad e Tao Te King, Platone e Sant’Agostino – scriverà il 30 ottobre 1971 alla studentessa Luisa Trevenzoli – A sedici anni leggevo ancora, ma la mia fede era scomparsa”.
Nel 1922 la famiglia Masino lascia il quartiere Caprera e si trasferisce in un appartamento al n. 6 di viale Liegi.


“Me ne sto in questo Forte dei Marmi che è il luogo più civile e sommesso del mondo, costruito su casalinghe prode e su erbe odorose, tra i campi larghi del mare e le Apuane, statue alle ultime nevi della vita. Sto in apparenza sola ma ho intorno il volto della madre che, per ognuno nel proprio paese, è tutto il panorama. La mia mamma porta con sé una luce granducale e scende dai monti lungo il fiume con la berlina dello zio Eugenio, gentiluomo alla corte di Vienna. Lei e questo paese hanno sempre tra le mani fiori di vainiglia e zinnie e gelsomini, e dopo aver camminato chilometri giù dai monti o lungo la pianura di mare che va da Magra a Burlamacca, arrivano con la chioma inalterabilmente verde e nera, senza polvere di strade o d’anni, e sedendo tra i pinuglioli color di rosa in faccia al mare di latte, mi prendono il capo sulle ginocchia, passano una mano troppo morbida sulla mia nuca e cominciano a raccontare: – Ai miei tempi…
– Quali sono i tempi di una madre? quali quelli di un paese che ha nutrito la nostra infanzia? Non è la madre questo volgersi al monte e vedere la sua fronte, poggiare le mani sull’acqua e ritrovarne il seno? Non è il tuo paese, questo prendere una foglia di menta e ritrovarci con mamma che ci stende piccoli sul carro di buoi per riportarci a casa, scivolare con il piede in una pozza fangosa da cui schizzano via ranocchini verdi e udire la voce di babbo che dice: … un rospo con la spada e la livrea ballava il minuetto in mezzo al fiume? […] E questo tutti lo sanno, tutti lo accettano: che il padre e la madre siano le nostre radici nel tempo, che ci leghino al secolo precedente in quell’aria colore di tortora che hanno i giorni trascorsi e le pagine vecchie dei libri. ma chi accetta che tutto un paese possa essere l volto vero della madre, il suo modo umile di voler bene? […] Così, mamma, sei tu, che dai tempi del Granduca ci scendi incontro dal giardino alto sul monte, e già ci precedi per i viaggi in quella regione ghiacciata del tempo che atterrisce ognuno con il suo fulgore. Dal passato al futuro, dall’accettato all’impossibile, il pane di questa terra tagliato dalle tue mani è quello che ci nutre il sangue di memorie e speranze”.
(Dialoghi della vita armonica – 8°, in “Domus”, 165, settembre 1941)


1923-1928

Risale al 1924 la prima prova letteraria compiuta della scrittrice, se si escludono i raccontini scritti per il “Passerotto”, appendice del “Giornalino della Domenica” di Vamba. Si tratta di un dramma, intitolato Le tre Marie, le cui protagoniste sono la madre, la sorella e la moglie “di un grand’uomo, diciamo pure un ‘genio’ che non appare mai in scena” – scrive Paola nell’Album di vestiti – variamente soggiogate e condizionate da questi. Accompagnata dal padre, con il dattiloscritto sotto braccio, si presenta a Luigi Pirandello nell’atrio del Teatro Argentina, per chiedergli di mettere in scena il suo lavoro. L’incontro con Pirandello è il secondo viatico, dopo quello paterno, per la sua vocazione, oltre che il primo atto di un’amicizia che si prolungherà fino alla morte dello scrittore.
Compie gli studi superiori al liceo classico Tasso. Rimandata in fisica e matematica al secondo anno, non si presenta agli esami di riparazione e interrompe gli studi. Continua a scrivere, soprattutto poesie e drammi, e nell’aprile del 1927 pubblica su “La rivista di Lecco” il sonetto Aspirazione, firmandolo Paolo Masino.
Nel marzo dello stesso anno incontra Massimo Bontempelli, separato dalla moglie e di trent’anni più vecchio di lei, e se ne innamora. Quel legame ‘proibito’ costa alla coppia un piccolo scandalo politico e a Paola un profondo conflitto con i genitori, che si ricomporrà solo qualche anno più tardi. Nel novembre del 1927 è a Firenze, in un blando esilio, dove conosce Marino Marini, Mario Castelnuovo Tedesco, Piero Gadda, e frequenta il gruppo di “Solaria”, in particolare Arturo Loria e Alberto Carocci.
Per potersi incontrare liberamente, tra il 1928 e il 1929 Masino e Bontempelli scrivono insieme il dramma Il naufragio del Titanic, tradotto in francese da Gaston Baty, ma rimasto inedito. Sempre nel 1928 Paola comincia a collaborare a “900”, dove pubblica alcune prose lirico-filosofiche che confluiranno successivamente in Decadenza della morte. Da allora, per decenni, nonostante le evidenti differenze e le sue stesse perentorie precisazioni, l’ombra del compagno più famoso e la conseguente etichetta di scrittrice novecentista condizioneranno ogni approccio critico alla sua opera. Nell’ottobre del 1982, interrogata da Paola Benadusi a proposito della presunta influenza di Bontempelli sulla sua attività di scrittrice, Paola non si limiterà a negare, ma ribalterà addirittura i termini e la direzione del rapporto: “Direi proprio di no, anche se molti lo affermano. Semmai credo di avergli fatto del danno perché io sono di cultura romantica mentre Bontempelli era un classico. Ho portato nella sua letteratura il senso della morte che prima non c’era creando una specie di squilibrio in lui” (E la massaia muore, in “Il Tempo”, 8 ottobre 1982).


“Per Paola Masino, che cosa fu il 900?
(risposta) Chi lo sa? Forse fu l’accoglienza naturale a qualsiasi fantasia, riconoscendo nella fantasia la più caratteristica realtà umana. E al tempo stesso l’attitudine a mitizzare ogni usuale realtà in modo di allargare i confini dell’uomo dandogli una statura leggendaria. Città o paese – purché i loro limiti, al di là della barriera dei luoghi comuni e della retorica, fossero essenziali di ogni città e di ogni paese (ossia fossero la città simbolo con tutta la sua vita sbriciolata in mille rivi di luce e rumori: il paese-simbolo con tutto il suo dolente fermento in un corpo sordo, come un seme in travaglio nella zolla invernale); città o paese assoluti, spogli dall’ossequio ai pregiudizi, erano i paesaggi arroventati per i quali aggirarsi, a noi giovani, diventava affascinante rischio. La giovinezza è spavalda nelle sue azioni, timida nelle sue passioni, perché le une e le altre nascono da un’assoluta fede e da un’assoluta innocenza. Le une e le altre erano alla base del 900”.
(Enrico Falqui, Il futurismo – Il novecentismo, Torino, ERI, 1953, p. 116)


1929-1930

Nel luglio 1929, appena maggiorenne, Paola prosegue il proprio ‘esilio cautelativo’ a Parigi, dove lavora al Bureau International de Coopération Intellectuelle e come segretaria di redazione all’“Europe Nouvelle”. Bontempelli la raggiunge quando può.
“Parigi, verso il 1929 sembrava una colonia italiana. Vi ritrovai moltissimi amici da de Chirico a De Pisis, da Savinio a Moravia, da Comisso a Moretti, da Barilli a Marinetti e, fatto importantissimo della mia vita: Luigi Pirandello”: così la scrittrice ricorda le sue frequentazioni parigine in un romanzo epistolare composto negli anni 1948-1949 e rimasto inedito e anepigrafo. E forse, più che nella classicità bontempelliana, proprio in Pirandello, in particolare nel Pirandello ‘mitico’ della Nuova colonia e di Lazzaro, occorrerà ricercare il modello della maternità ferina e della vis monologante che caratterizzano la protagonista del suo primo romanzo, Monte Ignoso, come ha notato Mauro Bersani nella postfazione alla ristampa del 1994.
Ma oltre a frequentare la ‘colonia’ italiana, a Parigi Paola Masino ha contatti con i protagonisti della scena intellettuale contemporanea, da Ramon Gomez de la Serna allo scrittore tedesco Emil Ludwig, da Ilja Ehrenburg a Max Jacob, da Gide a Valéry. Ed è qui, tra la prima di Un chien andalou di Buñuel e gli spettacoli di Joséphine Baker, che la sua precoce, confusa vocazione comincia a maturare e ad assumere i connotati del mestiere: nei primi mesi del 1930 Paola raccoglie le prose già apparse su “900” e ve ne aggiunge altre, mentre tra il luglio e il dicembre dello stesso anno scrive il suo primo romanzo, Monte Ignoso, dopo che un altro romanzo, intitolato Vita di Pietro Simone e cominciato in marzo, si era arrestato al primo capitolo. Nel frattempo legge Gide, Colette, Cocteau, Joyce e Freud, e sottopone il suo lavoro a Crémieux e a Maurois – comincia, insomma, a riconoscersi in una ‘famiglia’.


“Caro babbo, sono proprio felice di sapere che la mia lettera non ti ha fatto dispiacere e che credi a tutte le cose che ti ho scritte; che sono proprio – te lo ripeto – la verità. Non preoccuparti (e cerca di convincere anche mamma) per me. Io mi sento sicura di arrivare e di arrivare proprio per la via che ho scelto, e che non solo mi pare buona per me, ma anzi l’ottima. Perché questa gioia che è ora nella mia vita tutti i minuti (e tu lo sai come invece prima io non vedessi che nero e non facessi che soffrire), non può venirmi che da una pienezza di sentimenti; che sono amore, tranquillità, fiducia, sicurezza – nei momenti di lavoro più desolato – di stendere una mano e trovarne un’altra pronta ad aiutarmi – e anche sicurezza di un avvenire per la mia opera che trovo subito accolta e compresa e ammirata dalla più sottile e critica intelligenza che io abbia mai incontrato.
Caro babbo ma questo, mi dirai tu, non è tutto insieme che amore. Può darsi e l’amore è una cosa bellissima – anche più bella di quello che tu mi hai insegnato. Oh come sono contenta di poterti dire queste cose!”.
(Lettera al padre, Parigi, 7 marzo 1930)


1931-1933

La coppia fa ritorno in Italia, dove non cambia il proprio stile di vita. Nomadi, liberi e interamente dediti al lavoro, Masino e Bontempelli si dividono tra Milano, Frascati, Napoli e Castiglioncello, dove trascorrono lunghe e feconde vacanze estive in compagnia di Pirandello, Marta Abba, Mario Labroca, Nino e Pasquarosa Bertoletti. Gli amici se li contendono e li hanno spesso loro ospiti: i Contini Bonaccossi nella tenuta di Groppoli a Pontelungo, in provincia di Pistoia, i Valdameri a Milano e a Portofino, Gualtiero e Patricia Volterra a Firenze, i conti Lovatelli ad Argiano, nel senese, Sante e Maria Luisa Astaldi a Cortina.
Nel 1931, a breve distanza l’uno dall’altro, escono Decadenza della morte e Monte Ignoso, che vince la medaglia d’oro del premio Viareggio. Nel giugno dello stesso anno Paola accompagna Bontempelli in un breve viaggio in Olanda. I rapporti con la famiglia cominciano a distendersi.
Nel 1932 comincia a scrivere Periferia. La stesura è interrotta da un breve viaggio in Scandinavia insieme a Bontempelli, ma all’inizio dell’anno successivo il romanzo è finito. Pubblicato da Bompiani, come il precedente, Periferia vince il secondo premio del Viareggio e suscita polemiche: in seguito alla stroncatura di Leandro Gellona, uscita su “La provincia di Vercelli” il 29 agosto 1933, Mussolini invia al prefetto di Vercelli un telegramma in cui si congratula con il recensore. Da allora il regime, che pure aveva ignorato il ben più crudo racconto Fame, uscito pochi mesi prima sulla rivista “Espero”, si premurerà di tenere la scrittrice sotto osservazione.
In settembre Paola si imbarca sul Conte Biancamano e raggiunge Bontempelli e Pirandello in Argentina per la prima mondiale di Quando si è qualcuno. Negli ultimi mesi di quest’anno concepisce e avvia un altro romanzo, Poi Giovanni, la cui stesura non supera il primo, tormentatissimo capitolo, ma di cui la scrittrice non riuscirà mai a liberarsi, continuando per decenni ad accumulare appunti, schemi, idee per la sua prosecuzione.


“A bordo del Biancamano – settembre 1933
[…] Non ho mai seguito né una direttiva culturale né studi. Non mi sono mai occupata del clima della letteratura nostra o altrui. In certi momenti ho sentito il bisogno di una data cosa e non sapevo che fosse. Allora la cercavo in me finché non l’avevo trovata. È così che a sei anni ho scoperto Shakespeare e a dieci Dostojesky [sic] e oggi che ne ho venticinque Dante e Platone. Può darsi che a quaranta io ritrovi un altro Shakespeare e a cento un altro Dante e che non li ami o che mi sconvolgano l’universo che piano piano sono andata costruendomi.
Intendo dire una cosa vecchissima: che il clima è in noi. E anche un’altra vecchissima cosa, voglio dire: che ogni clima spirituale nasce soltanto da un desiderio di assoluto. Il quale desiderio non può manifestarsi in tanti modi ma, come già dissi cinque anni fa nel mio volume Decadenza della morte, nella ricerca dell’Io, della Vita, della Morte, della Follia, dell’Amore.
Ossia non credo a nessuna arte che non nasca dalla necessità profonda di scoprire una delle quattro verità su enunciate (Io e Vita unificandosi).
[…]
Il che dimostra anche come la ricerca del primordiale in sé e per sé non presenti alcun interesse e dia risultati abbastanza grotteschi fermandosi alla vana apparenza: vuol dire che non basta essere credenti per anelare a Dio, o temere o desiderare la morte per ritrovarsi in lei, né vivere attivamente per conoscere la vita o impazzire per conquistare la follia (non dimentichiamo che i puri folli sono eletti di Dio). Il che dimostra soprattutto che bisogna dilaniarsi nella ricerca per incontrare l’arte. […]
L’arte deve essere tutta ineluttabile, tutta universale: ecco perché deve scaturire da universali e ineluttabili pensieri.
Quando si fa l’arte cosiddetta “umana” la nostra attenzione cade a terra come un pallone sgonfiato. […] Quando dicono: - È un libro che rappresenta il nostro tempo – stai sicuro che quel libro non rappresenta nulla, perché “il nostro tempo” non esiste, è una pura immagine. Il tempo dell’uomo non è che costume; il costume precario: un’arte che cerchi motivi nel precario non può che essere precaria ove non trasvoli i limiti di una generazione per denudare del costume di un’epoca il tempo e non lo riporti alla sua natura di eterno. Quando ci dicono: – Fate un libro fascista – anche questo non significa nulla. Te lo immagini che a Dante avessero detto di scrivere un libro ghibellino? Ma in tutta quell’essenzialità dantesca, il suo essere ghibellino scaturisce come una delle pieghe originarie dell’animo umano, caduto l’abito di una fazione o dell’altra. Insomma l’arte rifugge dal contingente. Ora la politica, essendo tutta costruita sull’ondoso mare sociale è antiarte per eccellenza. Tuttavia lo spirito sociale del tempo, se è spirito forte, avvolgerà i movimenti del nostro pensiero. […].
Come si vede questi pensieri si muovono in circolo chiuso e di passo in passo ci hanno ricondotti alla prima e più vecchia conclusione: lo spirito di ogni tempo è in noi, l’esterno ci avvolge ma non ci penetra. Per questa ragione nessuna direttiva può deviare il mio pensiero, nessuna ricerca nuova può convincerlo ad affacciarsi a un balcone esterno quando già sa che tutto l’essenziale che l’esterno può fornirgli è quanto di comune esso esterno presenta con l’intimo mio. Un pensiero individuale segue la propria via anche traverso dieci rivoluzioni (a proposito: quale è il romanzo che ci mostri e svisceri la rivoluzione francese, visto che in Italia volete a tutti i costi un romanzo fascista?). Le rivoluzioni un pensiero creativo non può che precederle, magari imitarle, magari nutrirsene, ma non rivestirsene”.
(Appunti 2, pp. 25-32)



1934-1936

Masino e Bontempelli si stabiliscono a Roma, in una casa di corso Trieste 142, pur continuando a viaggiare intensamente, soprattutto tra Milano e Firenze. Insieme alla madre, alla sorella Valeria e al nipotino Andrea, Paola trascorre parte delle vacanze estive negli amatissimi Forte dei Marmi e Vittoria Apuana. Proprio a Forte dei Marmi, nel luglio del 1935, scrive il racconto Terremoto, che uscirà il mese successivo sulla rivista “Circoli”. I dubbi nascenti sulla propria vocazione e l’improvviso senso di incertezza di fronte alla fatica del mestiere la spingono a recuperare i frammenti dispersi della propria preistoria e ad annotare impressioni e abbozzi narrativi sul primo degli undici quaderni d’appunti che l’accompagneranno per quasi tutta la vita.
Il 10 dicembre 1936, mentre è ospite dei Volterra a Firenze, riceve la notizia della morte di Pirandello.


“10 dicembre 1936 – Bellosguardo
Il dolore che paralizza materialmente.
Scrivo, e con il cervello so benissimo quanto dico e faccio, ma la mano prova la stessa difficoltà di quando avevo sei anni.
Amavo Pirandello non come un uomo o come un parente o un amico, ma come un elemento del mondo che a me è palese. Quando mi hanno detto che è morto è stato come se all’improvviso mi avessero annunciato che l’erba o le nubi o le greggi sono scomparse da questo pianeta. Sapere che non vedrò più un prato mi darebbe lo stesso stupefatto stordimento. […] Ripenso al mondo di un’ora fa, quando lui era ancora vivo, e mi pare un mondo completo, non zoppo come questo, non con questo buco vuoto nel fianco; e tuttavia so che camminando fino alla mia morte in questo nuovo mondo mutilato, niente potrà non farmelo ancora apparire completo d’erba e di greggi e tempeste, tanto quelle immagini sono abbeverate della mia sostanza. E così è di Pirandello.
Scrivo queste cose qualunque per rispetto di lui che amava tutti gli sforzi contro la nostra pochezza. Il sonno. Tanto scoramento mi dà questa morte che vivo da qualche giorno sempre in una gran voglia di sonno. Dormire per non ascoltare il rumore di una vita che mi sembra ormai senza speranza stracciata. Scrivere è un inutile tentativo di rammendo”.
(Appunti I, pp. 102-104)


1937-1942

Continua a scrivere racconti: la stesura di Racconto grosso la occupa dal 1936 al 1938, mentre nel marzo dello stesso anno porta a termine Figlio. In questo scorcio di tempo, tra la fine del ’37 e l’inizio del ’38, concepisce e avvia il progetto di Nascita e morte della massaia. Nel settembre 1938 la ripubblicazione di Fame su “Grandi firme” provoca la soppressione della rivista per ordine di Mussolini. I rapporti col regime cominciano a deteriorarsi: a novembre, dopo aver consumato il suo definitivo distacco dal fascismo, Bontempelli è espulso dal partito, sospeso per più di un anno da ogni attività e relegato in una sorta di confino ufficioso a Venezia, dove la coppia aveva già soggiornato nel corso dell’anno precedente alla pensione Calcina, e dove adesso si stabilisce a palazzo Contarini delle Figure.
La casa veneziana diventa ben presto il punto di ritrovo di una cerchia di intellettuali e musicisti che comprende Gianfrancesco Malipiero (a palazzo Contarini il compositore “dava lezione […] ai propri allievi quando non poteva, durante gli anni della guerra, far riscaldare il Conservatorio Benedetto Marcello”, scrive nel 1948 nel romanzo epistolare inedito), Victor De Sabata, Arturo Martini, Giorgio de Chirico, Filippo De Pisis, Goffredo Petrassi, Corrado Alvaro, Neri Pozza e Lea Quaretti, Maria Luisa Astaldi, Anna Maria Ortese, che Paola aveva conosciuto alla Fiera del Libro di Roma nel 1937 e che sarà a lungo sua ospite nel corso del 1939. Parallelamente, però, la scrittrice comincia a nutrire una crescente insofferenza per l’atmosfera sonnolenta, da città morta, che grava su Venezia, e per il suo nuovo ruolo di padrona di casa, nel quale si ritrova inconsapevolmente intrappolata.
Il 16 maggio 1940 esce su “Tempo” il racconto Famiglia, scritto alla fine dell’anno precedente.
Nel 1941 Bompiani pubblica la raccolta Racconto grosso e altri.
Alla fine di gennaio del 1940 Nascita e morte della massaia è finito. Tra il 16 ottobre 1941 e il 22 gennaio 1942 il romanzo esce su “Tempo” in quindici puntate settimanali. Nonostante i cambiamenti suggeriti alla scrittrice da Alberto Mondadori, la censura fascista interviene pesantemente, imponendo tagli e modifiche. Nello stesso anno Paola comincia la collaborazione a “Domus”, dove dal gennaio 1941 al novembre 1942 pubblica i Dialoghi della vita armonica, diciotto variazioni su temi di arredamento e architettura nelle quali, in realtà, spazia dalla musica alla moda, dalla nota di costume alla divagazione autobiografica, utilizzando come interlocutore e spalla il folletto Apud, creatura immaginaria dallo spirito ironico e dalla dialettica pungente.
L’attività poetica, ‘tradita’ per la prosa e riavvicinata timidamente intorno al 1935, riprende in questi anni con nuovo vigore.


“Con la stessa convinzione con la quale mi copriva di fiori, Massimo aborriva i gioielli e non ebbi mai da lui in dono il più piccolo spillo, o anello, o bracciale, o collana. A questo proposito ebbe anche una polemica sui giornali. Riteneva che le gioie sono un superfluo e pertanto un errore di gusto. Il fiore no, non gli sembrava un superfluo; lo sentiva come una prosecuzione di cosa viva su un corpo vivo. E, nella casa, come un pezzo di natura inserita nella natura. Ma in casa non volle mai, e mai avemmo, né quadri, né fotografie, né soprammobili che non avessero scopo immediato: quali un portacenere o un accendino o un vaso di fiori. Con i fiori, però, quando il vaso era vuoto lo facevo scomparire in un armadio.
A Venezia arrivammo a modificare la natura ornamentale del fiore in naturale fioritura col porre al centro della sala da musica una vera e propria aiuola. Prima vi seminammo grano, ma poiché il grano, per difetto delle condizioni atmosferiche, non nasceva rigoglioso, ci riducemmo a piantarvi, secondo le stagioni, tulipani o primule, giunchiglie o anemoni, nontiscordardimè o margherite. E sembrava davvero un pezzo di prato naturalmente sorto dal mosaico lucido del pavimento, una gran zolla di vegetazione emergente dall'acqua stagnante dell'impiancito vitreo della sala.
Quasi tutta la casa, a Venezia, era mobiliata di fiori. Ed era mia cura sceglierli in modo che aumentassero il carattere che avevamo voluto dare a ogni stanza. Nella mia camera, sontuosa sala con tappeti di pelliccia bianca, tende e divano e poltrone e coperte del letto di raso bianco, mobili antichi in mogano e palissandro, troneggiava quasi sempre su un tavolo tondo davanti al divano un gran mazzo di magnolie o di calle, che con le loro fronde lucide e i loro fiori di opaco panno pesante, suggerivano l'idea di un parco misterioso attorno al sonno e agli ozi degli abitanti. Nella sala da musica, come ho detto, un'aiuola variopinta, invitava gli ospiti a sedersi, quasi a terra, lungo i gradini di legno che portavano alle molteplici finestre della facciata. Si ascoltava la musica come sparsi in un giardino; era un modo di uscire di casa, senza sentirsi stringere dalle calli esigue, né dover montare su un sandalo per traversare putridi canali. Avevamo il nostro pezzetto di campagna; e il giallo dei cuscini e dei divani ci portava anche raggi e macchie di sole. Lo studio di Massimo era tutto verde, perché era il solito gran salone veneziano che dovrebbe essere, per antonomasia, tappezzato in rosso. Ci eravamo, di comune accordo, ribellati a quella tirannia e, di comune accordo, avevamo scelto quel colore d'erba tenera che ci confortava dell'ossessivo panorama di pietra dei palazzi veneti. Qui distribuivo in tre vasi, larghi e bassi, i più disparati fiori. Un vaso sul tavolo da lavoro di Massimo uno sul tavolino basso che tra un cerchio di poltrone e il divano, fungeva da salotto; il terzo sul tavolino di marmo verde veronese (o botticino?) che faceva da stanza da pranzo. Questi fiori erano legati a un mio estro: potevano essere tutte mimose, o tutte violette; o rose e gelsomini misti; o ranuncoli, o ageratum o enforbie. Sussurri e suggerimenti diversi, ma tutti sottovoce per non distrarre Massimo nel suo lavoro. Nella camera di Massimo, invece, i fiori avevano una funzione di raccordo con la mia. Molto lineare e funzionale pur nella sua ricca comodità, per una fratellanza spirituale, se nella mia camera c'erano calle, calle mettevo in quella di Massimo sul tavolino lungo tavolino ai piedi di uno dei due letti; se nella mia magnolie, magnolie nella sua; ma poiché la sua era blu mentre la mia era bianca se nella sua mi accadeva di disporre mazzi di iris viola, nella mia mettevo iris bianchi, se nella sua lillà roseo, nella mia bianco. Insomma era sempre un accordo con la stessa vibrazione di armonici. Per l'ingresso il discorso si faceva più allusivo ancora. Nell'ingresso i fiori acquistavano proprio un senso di rappresentanza. Erano mazzi compositi – quali ora i negozi di lusso mettono nelle vetrine – di gladioli, bocche di leone, speronella, rose e garofani; tutto di molti colori misti e con rami lunghi di alicanto o di altre piante che ne facessero quasi vegetali panoplie. Perché erano sempre due vasi gemelli, su due tavolini bianchi: uno di qua, uno di là dalla porta della sala da musica, a fiancheggiarne, in prospettiva, l'aiuola. La mia mania floreale non si contentava dei grandi addobbi ufficiali, e anche nei bagni e nelle stanze di servizio mettevo vasi di fiori, ma questi erano più casalinghi, proprio parole di affetto tra noi intimi; fiori corti, recuperati dai grandi mazzi di rappresentanza, corolle ripulite dai primi assalti dell'appassimento e salvate in extremis con piccoli accorgimenti da fioraio imbroglione. Steli legati attorno al fiore fatiscente, petali cui ridavo la forma tagliandone i lembi accartocciati, foglie disposte in modo che si sorreggessero a vicenda.
Era ormai lontana quell'età appassionata durante la quale stavo ore e ore a contemplare la rorida vetrina di Baumann in Boulevard Montparnasse sognando di poter un giorno comprare un intero mazzo di quei fiori, o di condurre mia mamma a godere dello spettacolo argenteo di quella vetrina bagnata da inesausti veli d'acqua corrente”.
(Album di vestiti, in Appunti 7, pp. 370-376)


1943-1945

La produzione letteraria non si arresta: nel marzo 1943 Paola abbozza le prime “quattro cartelle di un nuovo racconto intitolato: Il Barone” (Lettera ai genitori, Tenuta di Groppoli, Pontelungo, 20 marzo 1943) e rimasto anch’esso incompiuto. Il 5 aprile “Il Gazzettino” di Venezia pubblica il racconto Anicia.
La cattura di Mussolini, il 25 luglio, la sorprende a Roma insieme a Bontempelli. Il 22 agosto pubblica su “Il Popolo di Roma”, allora diretto da Alvaro, l’articolo Gioventù fra due guerre, un amaro, disincantato ritratto generazionale che le costa l’inclusione, da parte di Pavolini, nella lista degli intellettuali da deportare a Nord. Bloccati a Roma dall’armistizio, la scrittrice e il compagno vivono così i nove mesi della resistenza romana, “nove mesi di purezza assoluta, di coscienza, di pensiero severo” – come ricorda in Diario di una giornata, un articolo uscito su “La Fiera letteraria” l’11 aprile 1948 –, tra le angosce della clandestinità e l’euforia della partecipazione.
Il 25 ottobre muore Enrico Alfredo Masino.
Nel numero di dicembre di “Domus” escono quattro poesie – Morte, Vita, Preghiera, Dibattito – scritte tra il 1937 e il 1942.
L’11 giugno 1944 alcuni intellettuali riprendono a riunirsi nel salotto di casa Bellonci: sono “Gli Amici della Domenica”, il primo nucleo che nel 1947 darà vita al premio Strega. Così Maria Bellonci, in Come un racconto. Gli anni del Premio Strega, ricorda il primo incontro: “Il primo documento di quei tempi è un libretto dalla copertina color marrone dorato dove, nelle pagine un po’ impallidite, sono scritti i nomi di coloro che vennero alle nostre prime riunioni. […] Alla prima riunione, l’11 giugno, c’erano: Bontempelli, Piovene, Bernari, Paola Masino con la sorella Valeria, Petroni, Monelli, Savinio, Gorresio, Palma Bucarelli, Pietrangeli, Gino ed Elly Tomajuoli”.
Tra l’inizio di novembre e la fine di dicembre dello stesso anno Masino e Bontempelli, insieme a Goffredo Bellonci, Ercole Maselli, Moravia, Piovene e Savinio, fondano e dirigono a turno il settimanale “Città”, dove Paola pubblica il racconto Lino e la poesia Gioco, e tiene una rubrica fissa di osservazioni politico-letterarie intitolata “Draga”, intervenendo a favore della repubblica, della mobilitazione civile degli intellettuali e dei letterati, ma anche della loro autonomia nei confronti della politica culturale dei partiti.
Nel 1945, dopo innumerevoli traversie, esce da Bompiani Nascita e morte della massaia. Il libro ottiene buone recensioni, ma sembra ormai appartenere a un altro tempo: e se il “disfattismo” della protagonista era sembrato ingiurioso ai censori del regime fascista, adesso, nella frenesia della liberazione e della ricostruzione, risulta semplicemente incomprensibile.
La produzione poetica, stimolata dall’orrore per la guerra e dal trauma della morte del padre, diventa particolarmente intensa. In maggio “Mercurio” pubblica la poesia Vento del Nord. Altre tre poesie, Lamento, Commiato e Manifesto, tutte datate 1945, escono rispettivamente su “Domenica”, su “L’Indice” e su “Terraferma”.
Il 17 novembre “Il Mondo” pubblica il racconto Colloquio di notte. Nello stesso anno Paola avvia una collaborazione giornalistica a “Crimen”, “L’Epoca”, “1945”. La breve esperienza di “Città” diventa progressivamente un mestiere: nasce la Masino pubblicista.


“Mio padre morì mentre io cercavo per lui un pezzo di pane bianco. Una mia amica che non lo conosceva mandò la sua cuoca a portargli una fetta di torta. La cuoca era entrata in camera e aveva a lungo parlato con lui. In quel tempo tutti si capivano le stesse cose, si parlava il medesimo linguaggio. Finalmente per nove mesi vedemmo la bellezza di un mondo in cui erano abolite le classi e i paragoni. Se la gente sconosciuta aveva fame la si andava a nutrire con il nostro cibo, rimanendo noi digiuni. Vi sono sempre fami più urgenti.
La cuoca portò la fetta di torta la sera del 24 ottobre e mi padre morì la mattina del 25. La fetta era rimasta sul tavolino, intatta. A vederla ho proprio capito che cosa vuol dire ‘morto’.
Pochi giorni prima guardavo sorpresa una mia cameriera cui i tedeschi avevano fucilato il marito e lei nel raccontarmelo ripeteva di continuo: – Non ha voluto mangiare e allora ho capito che era la fine. Gli ho portato l’ultima gallina nostra, ma lui ha detto di no, che non aveva fame. E io ho gridato: – Ma dove te ne stai andando, marito mio? Non vedi che bel piatto? – E lui scoteva la testa: te lo dico, signora, era già morto. La guardavo e non capivo il nesso, non riuscivo a capirla: mio padre, in quei giorni, mangiava ancora.
Poi rimase nella stanza vuota quel pezzo di torta che nessuno di noi osava toccare perché era stato il suo ultimo desiderio: anzi avremmo voluto conservarlo come un’ostia, benché nessuno di noi sarebbe stato d’ingoiarlo [sic] come un’ostia per tornare a comunicare con lui. Qualche pietoso l’ha tolto mentre noi piangevamo, e non abbiamo domandato dove era stato messo. Forse qualche vicino entrato a curiosare l’ha mangiato. E fu giusto”.
(Appunti 3, pp. 74-76)


“Dopo l’8 settembre le vie di Roma cominciarono a spopolarsi di uomini e a popolarsi di donne nuove. Donne che avevamo soltanto sperato ma non sapevamo esistessero dentro di noi. Più il tempo passava più quelle donne uscivano da se medesime e dalle case a fare della città un’unica tana. Donne di cui un solo esemplare ti dimostrava la razza e che in folla parevano un individuo solo. Tutte cavalle, tutte mucche, tutte aquile o tigri. Le loro membra erano divenute tutte bellissime, essenziali, tutte allo scoperto e mai impudiche. Via ogni divagazione, ogni divertimento. Le mani prendevano, gli occhi scrutavano, i piedi portavano. Ma non bastava: le sporte e le ceste diventarono nostri nuovi attributi e gobbe nostre e marsupi: appiedate uccelle percorrevamo in continui giri la città e le campagne per trovare il cibo alle nostre creature. […] Ben presto non vi furono più pezzenti, compagne, signore. Non c’era che un “tu” al di fuori di noi: quel «tu» di quando uno ragiona con se stesso allo specchio. […]
Bacchiammo ghiande dai lecci di Villa Borghese, facemmo nelle stanze squallidi fuochi e cene con i pinoli raccolti lungo le cancellate dei giardini, trovammo conveniente la cicoria strappata dai campi poveri del Verano perché, più grassa, potevi cuocerla senza condimento. E mai avemmo il sospetto d’una retorica o d’un simbolo. Fame era. Necessità era. Le donne la risolvevano con tenacia. Nuove cariatidi portavano in testa sacchi di farina, valige di carbone, fascine e dentro nascosti i caricatori dei fucili per gli uomini in agguato e nelle borse i manifesti e nel ventre i figli, e non conoscevano la vita futura né la prossima morte; per la prima volta vedemmo le donne concepire e portare a maturazione la creatura e generarla senza pensare di essere madre; vedemmo la serietà e la verità degli scopi che ritroverebbe una società retta dalle donne. […]
Poi mancò l’acqua. Era il segnale atteso della liberazione prossima. Senza acqua la fame è più dura. Andammo a cercarla nelle pozzanghere e al fiume, pestammo la grandine, rischiammo la morte dopo il coprifuoco. Ma era la fine. La notte dal 4 al 5 giugno eravamo alla fontana quando a un tratto quei nove mesi crollarono.
Il 5 giugno demmo in consegna alla libertà gli uomini e l’angoscia che ci eravamo obbligate a ignorare [..] Ci abbandonammo alla vacanza dell’immaginazione, ci abbandonammo alla facilità della speranza […]: passandoci a fianco non ci salutammo più, ognuna presa nei discorsi del proprio uomo, e chi era tornata una signora, chi un’accattona, chi una popolana e chi una suora. L’antica femmina in cui ci era stato manifesto che Eva è vita nell’inesausta difesa della materia, già si ritraeva dentro di noi: l’essenza, la necessità vera del nostro io, già era distratta. Ricominciammo a giocare alla vita e riconsegnammo all’uomo la nostra coscienza, ultimo nutrimento”.
(L’ultimo nutrimento, in “Città”, 7 dicembre 1944)



1946-1949

Gli anni della ricostruzione infondono in Paola un’ansia costruttiva, una smania felice che il 19 luglio 1946 le fa scrivere alla madre: “Se tutti avessero il mio rovello dentro e quest’ansia di concludere, l’Italia si rifarebbe in poco tempo, te lo assicuro”. Il nuovo lavoro la porta spesso a Milano, città che ama moltissimo, almeno quanto ormai odia Venezia (“Stare a Venezia è la cosa più triste che poteva capitarmi in questi anni che sento tanto importanti per la mia vita attiva”, scrive ancora alla madre il 16 agosto 1946), e dove alloggia in un piccolo appartamento di via Borgonuovo.
Dal dicembre 1945 al marzo 1946 collabora al settimanale “Spazio”, fondato da Salvato Cappelli e diretto dallo stesso insieme a Bontempelli, dove tiene due rubriche, Lanterna di Diogene, dedicata a questioni politiche e sociali, e Moda. Un’analoga rubrica di «dibattiti morali», intitolata Io e voi, tiene sul settimanale “Foemina” diretto da Marise Ferro, e collabora assiduamente a Milano Sera. Nell’agosto del 1946 è inviata al festival di Venezia per conto della “Gazzetta d’Italia” di Torino. In generale affronta con entusiasmo il lavoro giornalistico, che la fa sentire parte attiva nella grande impresa della ricostruzione morale e civile del paese. È a volte insofferente del ghetto della stampa femminile, in cui inavvertitamente rischia di scivolare, ma non si sottrae al compito di formare la ‘donna nuova’, battendosi per il diritto di voto, il divorzio e ribadendo instancabilmente il dovere dei genitori di garantire la stessa educazione ai figli e alle figlie.
Nei primi mesi del 1946 comincia a scrivere un romanzo con protagonista il padre Enrico Alfredo, concepito come “libro per bambini”i e abbandonato dopo il primo capitolo.
Ma l’attività creativa dà ancora qualche frutto: il 21 marzo 1946 “Settimana” pubblica il racconto Una parola che vola, mentre altri due racconti, Terzo anniversario e Paura, compaiono su “Milano Sera” rispettivamente il 26 marzo e il 19 giugno. L’uscita su rivista di alcune poesie, tra maggio e settembre dello stesso anno, prelude alla loro definitiva sistemazione nel volume Poesie del 1947, che raccoglie liriche scritte tra il 1935 e il 1946 e che porta in questi anni febbrili un accento di profonda disperazione. Nozze di sangue riemerge invece da una stagione creativa che sembra ormai remota: scritto a metà degli anni trenta e originariamente intitolato Paesaggio, il racconto esce su “La Fiera letteraria” il 1° maggio 1947.
Nel 1948 è inviata alla Mostra del cinema di Venezia per il quotidiano napoletano “Il Risorgimento”; l’anno successivo ripeterà l’esperienza, stavolta per conto della “Sicilia” di Catania e del “Corriere dell’Isola” di Sassari.
Sul numero di “Mercurio” del maggio-giugno 1948 esce il racconto Anniversario, dove Paola immagina di viaggiare a ritroso nel tempo e di assistere al matrimonio dei genitori.
Nello stesso anno comincia a collaborare al settimanale del Pci “Vie Nuove”. I rapporti non saranno facili: vicina alle posizioni comuniste fin dal 1943, la scrittrice preferisce tuttavia tenersi ai margini del partito, ritagliandosi il ruolo di compagna di strada con licenza di critica. Il 19 febbraio 1948 è comunque tra i primi ad aderire all’Alleanza per la difesa della cultura, l’organismo col quale artisti e intellettuali appoggiano il Fronte popolare. E nel marzo dello stesso anno accompagna Bontempelli in un assai criticato viaggio ufficiale in Jugoslavia.
Tra il 1948 e il 1949, mentre sembra completamente assorbita dal lavoro giornalistico, trova il tempo di riunire vecchi articoli e racconti giovanili e di costruire intorno ad essi una sorta di romanzo epistolare in diciotto lettere (rimasto, come si è già detto, inedito e anepigrafo), estremo tentativo di fondere le proprie molteplici anime professionali e private in un autoritratto ‘esemplare’, pieno di consapevolezza di sé ma anche, al tempo stesso, di disillusione.


“Mammi cara, sono arrivata ieri sera in pulmann con la Luciana. Il viaggio è stato abbastanza piacevole. Io pensavo di continuo a te e a come ti sarebbe piaciuto vedere tutta quella campagna che mi veniva incontro con il volto sorridente di babbo, a quelle casine sparse con gli orti pieni di gigli e di malva e lui avrebbe detto: Così sarà la casina che ci faremo al mare. Quanti progetti per quella casa. E ora si è visto che è stato bene non averla fatta. Pensa a tutti i ricordi che ci sarebbero stati per te e quanto dolore avresti avuto a vederla distrutta. La povertà è davvero una gran bella cosa. L’arrivo a Venezia è stato molto più squallido di quanto mi fossi mai andata immaginando. C’era Massimo a piazzale Roma e nessun altro. Non una gondola, non ci sono più motoscafi, pochi vaporetti, per le calli soltanto qualche operaio seduto davanti alla porta di casa. Anche il Canal Grande era deserto a tal punto che ho cominciato a piangere come una bambina, proprio con i pugni sugli occhi. E questo silenzio! Almeno in campagna ci sono i grilli, le galline, qualche contadino che grida: qua nulla. Un cielo di piombo, uno scirocco che ti prende alle tempie, un’acqua nera. […] Sono […] contenta perché ho ritrovato delle poesie che credevo di aver perdute quando ero nascosta da Lodo o da Stefano e così il mio volume si accresce. Ho rivisto tutte le mie bambole e i miei bei cappelli. Mi è venuto da ridere a pensare che si salvano cose così inutili e le cose importanti si perdono. E’ proprio vero che passiamo metà della vita a raccogliere oggetti che ci fanno schiavi per l’altra metà della vita che ci rimane da vivere. Mamma, ma ci pensi che io sono già sull’arco discendente, che il mezzo del mio cammino è già superato da tre anni? E mi pare di stare preparandomi con una certa serenità a invecchiare: il più curioso è che fino ai vent’anni mi sentivo decrepita e ora non penso mai di essere una donna fatta e mi scopro ad avere sentimenti così infantili, desideri così bambineschi che un poco mi vergogno. E poi non mi vergogno perché sento che c’è babbo in me che mi tiene per mano e per quello posso essere ancora piccola qualche volta. […] Ora sto facendo una poesia che sento tanto, ma non mi riesce tirarla fuori benché sappia che c’è. È tutta una lettera a lui, un battere cauto sulle cose della natura, sassi, piante, acqua, aria, e sentire che lui da dentro quelle cose ogni volta mi risponde e ride contento. […] Mi pare che scriverò tutto il suo libro standogli in braccio, sulle sue ginocchia, e piangerò perché se mi volto non lo vedo ma se mi ributto a scrivere mi pare a poco a poco di entrare in lui respirare con il suo petto e battere la macchina con le sue dita e vedere i fogli con i suoi occhi”.
(Lettera alla madre, Venezia, 30 maggio 1946)


1950-1955

All’inizio dell’anno la coppia torna definitivamente a Roma, per stabilirsi insieme alla madre di Paola nella casa di viale Liegi. Le condizioni di salute di Bontempelli peggiorano progressivamente. Oltre a occuparsi degli scritti del compagno, Paola è costretta a intensificare il lavoro per quotidiani e riviste. Comincia così una collaborazione con il settimanale “Epoca” e con “Noi donne”, sulle cui pagine, nel 1947, aveva già ripubblicato il racconto Latte, e per conto del quale realizza inchieste e reportage. Nel 1952, sempre per “Noi donne” compie un viaggio ufficiale in Ungheria, e l’anno successivo segue la campagna elettorale di Maria Bassino. Dal 18 novembre 1951 al 13 ottobre 1956 tiene su “Vie Nuove” la rubrica di posta dei lettori Confidatevi con Paola.
Una commemorazione di Pirandello, realizzata per il Terzo programma di Radio Rai il 3 ottobre 1950, inaugura una serie di interventi radiofonici e un lungo, contrastato rapporto con la Rai che si prolungherà fino agli anni settanta.
Il 15 giugno dello stesso anno esce su “Alfabeto” la poesia A Giovanni; una seconda, Anno santo, compare il 26 novembre su “Vie Nuove”. Probabilmente in questo periodo, e sicuramente dopo il 1952, Paola progetta un nuovo libro di liriche, di cui abbozza un indice con i primi cinque titoli. Ma l’ultimo frutto letterario compiuto viene dalla prosa: si tratta di Ora intima, un racconto datato novembre 1955 e rimasto inedito fino al 1994.
Nel 1953 lavora al fianco di Vittorio Rieti per mettere in musica Il viaggio d’Europa di Bontempelli. L’opera, eseguita per la prima volta all’Auditorium della Rai il 9 aprile 1955, non viene pubblicata, ma inaugura un ennesimo capitolo della multiforme attività della scrittrice: quello dei libretti d’opera.


1956-1960

Nel 1957, in collaborazione con Bindo Missiroli, scrive Vivì, per la musica di Franco Mannino.
Nel 1958 traduce Sibari di Geneviève Tabouis.
Parallelamente all’intensa attività professionale si infittiscono le annotazioni private sulle pagine dei quaderni d’appunti. Da un lato il sospetto di aver esaurito definitivamente la propria vena creativa, dall’altro l’incapacità di arrendersi alla prospettiva di non scrivere più, spingono sempre più frequentemente Paola Masino all’autoanalisi e al discorso in prima persona. Il bisogno di raccontarsi, lungamente represso, trova uno sfogo: tra la fine del 1958 e il 1960 la scrittrice comincia ad accumulare riflessioni e appunti per l’Album di vestiti, un vagheggiato libro autobiografico che la terrà impegnata fino al 1963.
Nel gennaio 1958 è a Saint-Paul-de-Vence insieme ad Alba de Céspedes e a Giuseppe Colizzi, per lavorare a un soggetto cinematografico commissionato da Fellini e intitolato Nicodemo. “Con Clouzot stamani abbiamo parlato del nostro Nicodemo – scrive alla madre il 14 gennaio 1958 – A lui non piace affatto. In realtà Alba non sta mai con noi e Giuseppe ed io ci sbattiamo la testa per trovare un finale e dare uno scheletro a Nicodemo. Ma non mi pare che ne usciremo, né presto né bene. Siamo tutti e tre troppo diversi per modo di sentire e di lavorare”.
Nello stesso anno raccoglie e pubblica da Mondadori, col titolo Passione incompiuta, gli scritti di Bontempelli sulla musica.
Il 21 luglio 1960 muore Massimo Bontempelli. Rimasta sola con la madre nella grande casa di viale Liegi, Paola riduce progressivamente le collaborazioni giornalistiche fino a sospenderle del tutto all’inizio degli anni settanta. D’ora in poi la sistemazione e la valorizzazione dell’archivio di Bontempelli assorbiranno gran parte delle sue energie.


1961-1969

Nel 1961 cura per Mondadori i due volumi di Racconti e romanzi del compagno.
Viaggia molto: nell’estate del 1962 e del 1963 è in Grecia, nel giugno di questo stesso anno a Mosca. Nel 1964 torna a Parigi dopo oltre trent’anni di assenza. Dal 30 settembre al 5 novembre 1968 compie un lungo viaggio a Cuba insieme ad Alba de Céspedes. All’inizio del 1969 visita Toledo, in Spagna.
Nello stesso anno escono Luisella, un libretto scritto per la musica di Franco Mannino, e la traduzione di A.O. Barnabooth di Valéry Larbaud.
È spettatrice assidua delle sale cinematografiche e dei teatri romani, spesso in compagnia dell’amica Elsa De Giorgi e di Elio Pagliarani.
Continua a scrivere poesie, annotandole su minuscoli foglietti, fogli riciclati, vecchie buste. Nel maggio 1966, sul periodico “La Battana”, ne pubblica una intitolata Ninna nanna, la cui prima stesura risale però al 1950. E continua ad annotare le proprie impressioni nei quaderni d’appunti: osserva in particolare, con raccapriccio e sconcerto, la grande mutazione sociale dell’Italia alle soglie del boom, da lei per altro già intuita nella prima metà degli anni Cinquanta.


“Alle soglie della vecchiaia mi accorgo di aver avuto un’infanzia decrepita. Ho vissuto il primo tempo della mia vita come un ricordo, non come una scoperta. A 10 anni cominciai a scrivere una storia di Montignoso, attenendomi ai fatti familiari, non più lontani da me di una o due generazioni. Perché mi nutrivo dei ricordi di mia madre.
Invece la vita che ci offriva mio padre, proiettata nel futuro e affamata di presente non mi sollecitava la fantasia. Ne prendevo soltanto il vigore, come un nutrimento, per dar fiato alle ombre materne.
A 15 anni ero, perciò, già una donna matura. Anche molto intelligente. Avevo dentro di me tradotto le immagini del passato in immagini di assoluto e, traverso esse, andai cercando l’assoluto per ogni dove. Poiché l’assoluto di quel passato era stato raggiunto traverso la morte, la morte mi diventò il personaggio principale, una specie di insostituibile elemento decantatore d’ogni cosa. Mi misi a tu per tu con lei, senza amarla, ma senza mai scansarla come fosse un obbligo ricorrente.
Con la gioventù mia personale, vivissima, e con quel passato altrettanto vivo nel pensiero, feci qualche importante scoperta. Collocai il tempo e lo spazio attorno a me con un certo raziocinio e mi convinsi di esserne il centro, se non addirittura il seme. Altrettanto pensavo d’ogni creatura vivente e il mio più gran rovello era che nessuno paresse accorgersene o curarsene.
La gente andò così facendosi sempre più insipida ma al tempo stesso mi nacque dentro l’urgenza di salvarla. Denunciavo in ogni cosa l’eterno e l’infinito con il risultato di apparire presuntuosa e noiosissima. Non ebbi amici intimi perché gli interessi dei ragazzi della mia età mi sembravano risibili. Non ebbi l’usuale vita infantile ma una vita infantile d’una violenza fantastica difficile a sopportare nella realtà. Mi aiutavo con i sogni, che mi aiutarono a chiarire molte cose e m’indicarono il modo di compierne altre.
Anche la sessualità come problema reale mi rimase estranea; ma la sessualità come veicolo per inoltrarsi nel tempo trascorso e nel tempo futuro mi assillava. Non avendone intuito la fisicità ma credendo che essa si risolvesse soltanto nella spiritualità amorosa, mi riusciva molto faticoso farmene uno strumento di chiarificazione. La tradussi e la usai tutta come orgasmo intellettuale raggiungendo acmi altissimi e certo, agli adulti che mi vedevano dall’esterno, repugnanti. Ma intanto avevo capito che l’assoluto rompe le scatole alla gente. (mia madre diceva sempre ch’io ero cavillosa. Volevo invece, una giustizia assoluta). Fu allora che cominciai a tacere. Ho taciuto per moltissimi anni; e perché tacevo molti cominciarono a ritenermi intelligente. Ma appena parlavo dicevano: – La solita esagerata. Perché continuavo a parlare per assoluti.
Quando divenni donna le cose mi si complicarono. Non perché mi si ponessero nuovi problemi ma perché il corpo mi dava fastidio e richiamando su di sé l’attenzione di alcuni troppo spesso era il modo con cui la vita mi distraeva dalla contemplazione di lei. Allora mi misi a scrivere con maggiore accanimento, affastellando sulla pagina un cumulo di passioni tutte fisicissime. Speravo di esaurirle a quel modo e di allontanarmele. Son gli agguati della nostra condizione umana. Infatti mi divennero un abito mentale. Parlavo di ossessioni sessuali (che non conoscevo e non intuivo) di orgasmi spirituali (cui aspiravo e che non raggiungevo) di lotte universali (cui credevo di partecipare) di rinuncie totali (da cui rifuggivo). Amore e Morte, Follia, Eterno, Infinito (tutto con la lettera maiuscola) erano i miei soli e veri interlocutori.
Quasi sempre sfinita dal prolungarsi di simili colloqui, ero poi aggredita da fami violente. Mangiavo come uno s’aggrappa alle rocce per risalire alla superficie d’una voragine fonda. Nel nutrimento mi smemoravo e ritrovavo le mie forze giovani. […]
Toccavo terra. Mi riposavo. Ricominciavo la mia avventura extrasensoriale. Ero un grumo d’intelligenza che si divorava e proliferava, ininterrottamente. Avevo il cancro dell’intelligenza.
Ogni cosa cui m’avvicinassi, s’apriva tutta e ne vedevo le lontane radici, le fronde estreme. I sapori, i rumori, le luci, i gesti, erano ogni volta un’avventura pericolosa nella quale mi buttavo senza sapere se ne sarei tornata.
Anche la noia mi si faceva tanto gravida d’intuizioni che non m’era possibile avvertirla se non come azione speculativa. In realtà mi annoiavo soltanto quando ero distratta da me stessa.
[…]
Infanzia e giovinezza furono dunque per me due regni favolosi. Non belli, anzi molto spesso pieni d’angoscia e di paura, ma addirittura maravigliosi per i mezzi di cui disponevo per combattere e angoscia e paura e farmele schiave.
Quando m’innamorai portai intero nel mio sentimento l’astratta violenza delle mie private conquiste. E fu un grande amore. Ma proprio per quell’assoluto che m’ostinavo a voler perseguire, dovetti concedere alla vita quanto le spettava.
Fu una breccia. Da allora, insensibilmente ma inesorabilmente, particelle invisibili di concessioni, compromessi, abitudini m’inquinarono; e tanto più esse si facevano numerose tanto meno io m’accorgevo d’esserne invasa e di andar tramutandomi. Credevo ancora di condurmi secondo un mio preciso volere, mentre già più non ero che materia inerte nelle loro mani. Ci misero un po’ di tempo a plasmarmi nel peggiore dei modi, quale ora sono. […]
Oggi so che ho perduto, che la mia vita, cominciata come una straordinaria aurora, s’è spenta e fatta al tutto inutile riducendo in cenere anche quei bagliori iniziali, ove avevo creduto di leggere un più nobile e arduo destino. Eppure poiché nessun uomo è mai morto del tutto finché non è morto, ancora qualche volta mi accade di pensare che forse da vecchia (ma arriverò alla vera vecchiaia?) potrei forse – spenta ogni sollecitudine umana; morte a una a una le molecole d’infezione che m’hanno distrutta – potrei forse ritrovare la via (certo più lenta, più tentennante, più cauta) dei grandi pensieri, dell’intelligenza disinteressata, della speculazione non fine a se stessa ma come anello valido, anche se pubblicamente ignoto, all’accrescimento della massa intellettiva dell’umanità”.
(Appunti 9, pp. 192-201)


1970-1975

Bompiani ripubblica Nascita e morte della massaia, accolto dalla critica con ammirazione stupita.
L’attività di librettista la impegna molto: il 19 luglio 1973, all’Auditorium della Rai, viene eseguito La Madrina con la musica di Cesare Brero; nel 1974 esce da Curci Il ritratto di Dorian Gray, scritto con Beppe de Tommasi per la musica di Franco Mannino. Il 4 novembre 1971, riassumendo la propria parabola intellettuale in una lettera alla studentessa Luisa Trevenzoli, scrive: “… quello che più mi attira in questo momento sono i libretti d’opera e gli sceneggiati per la radio e per la televisione. […] la sinteticità di questi mezzi (soprattutto dei libretti in cui occorre fare esplodere amori ed ecatombi, inferno e paradiso in due parole) mi affascina in modo particolare”.
Dal 29 agosto 1971 al 30 giugno 1972 tiene un diario giornaliero. Sollecitata da Paola De Martino, lavora al progetto di un’antologia scolastica dei propri scritti.
È ancora viva, seppure a intermittenza, l’attività poetica.
Il 2 febbraio 1975 muore Luisa Sforza Masino.


1976-1982

A occupare la scrittrice, in questi anni, sono soprattutto le traduzioni dal francese: nel 1977 Balzac, nel 1978 Stendhal, nel 1979 Barbey d’Aurevilly e Malot, nel 1980 Madame de La Fayette.
Nel 1982 La Tartaruga ripubblica Nascita e morte della massaia. Ancora una volta i recensori non nascondono lo stupore di fronte alla modernità e alla ‘tenuta’ del romanzo.


“Mi racconti come trascorre oggi la sua vita…
Oggi la vita di uno scrittore e di un vecchio è infernale. Lo scrivere è fatto di raccoglimento, solitudine, meditazione. La vita moderna è il contrario di questo. Siamo invasi dal rumore, interrotti continuamente dal telefono, dal citofono, anche solo dalla necessità di preparare da mangiare, perché la servitù non esiste. Le ragazze preferiscono vendere slip ai grandi magazzini piuttosto che andare a servizio, sia pure da Luigi Pirandello. Ci si stupisce che Elsa Morante non voglia più vivere? Ma non potete immaginare com’è terribile la solitudine della vecchiaia, con gli amici che se ne vanno uno a uno. E tanto più terribile quando è aggravata dalla necessità di fare da sé i lavori domestici. Mi lasci dire un paradosso: una umanità che crede che fare la cassiera sia preferibile a preparare la minestra a Proust io non la capisco. Se lei mi dice: va’ a cucinare la minestra a Beethoven, io sto sveglia tutta la notte per fargliela e poi gli bacio i piedi se me la mangia…
Potrei replicare con un altro paradosso che forse oggi Proust e Beethoven non esistono…
È chiaro che se uno deve pulirsi le scarpe non scrive e non compone e, soprattutto, non pensa! Non ne ha il tempo. Ma, ecco, lei mi fa parlare e parlare e poi le parole scritte diventeranno pesanti ed enfatiche. Mentre invece lo sa cosa diceva Stevenson? L’arte dello scrivere è omettere omettere omettere…” .
(Sandra Petrignani, Paola Masino. Où sont les neiges d’antan?, in Ead., Le signore della scrittura, Milano, La Tartaruga, 1982, pp. 32-33)


1989

Rosaria Guacci e Bruna Miorelli includono Allegoria seconda, pubblicato nel 1941 in Racconto grosso e altri, nell’antologia di scrittrici italiane Racconta.
Paola Masino muore a Roma il 27 luglio.


Nel 1994 la casa editrice il melangolo ripubblica Monte Ignoso. Nello stesso anno Maria Vittoria Vittori raccoglie in Colloquio di notte i racconti usciti su quotidiani e riviste e vi affianca tre inediti, tra cui Ora intima. Nel 1995 sempre la Vittori cura un’antologia di lettere ai familiari e di brani tratti dai quaderni d’appunti che esce da Rusconi col titolo Io, Massimo e gli altri.