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Patrizia Landi
Presentazione del Catalogo
“A Milano si stampa quel che si vuole”. Leopardi e Milano (1815-1859)





Nell’aprile 1859 Giuseppe Rovani sulle pagine della “Gazzetta Ufficiale” pubblicava, a nome proprio, un articolo dal titolo Della vita e delle opere di Giacomo Leopardi. Tale articolo, pochissimo noto nella storia della critica leopardiana, era in realtà una ripresa testuale della prima puntata dello splendido e fondamentale saggio di Carlo Tenca apparso sulle pagine del “Crepuscolo” nel 1851: a suo modo, comunque, questo plagio segnava un ulteriore tassello “milanese” nella riconsiderazione critica di uno scrittore che in vita aveva avuto ben poca gloria, ma che, proprio a Milano, era riuscito a stampare molte delle sue opere. I due mesi di permanenza di Leopardi a Milano (30 luglio-26 settembre 1825) non potevano aver certo lasciato segni e tracce particolarmente profondi: eppure proprio a Milano per merito dello scritto tenchiano e della sua curiosa ripresa rovaniana il nome di Leopardi era tornato alla ribalta, persino alcuni anni prima che gli studi di Francesco De Sanctis aprissero in modo definitivo la riscoperta e la rivalutazione dell’opera e del pensiero leopardiani, a dimostrazione che proprio a Milano, città laica per eccellenza, Leopardi, autore “laico”, aveva trovato lettori e ammiratori capaci di riconoscerne e apprezzarne i pregi (non si dimentichi che Leopardi fu uno dei modelli ispiratori anche per tutta la generazione dei poeti scapigliati, di cui Rovani era considerato come una sorta di padre fondatore).

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Comunque sia, tra le città leopardiane Milano non è certo tenuta in particolare considerazione né dai biografi né dai critici: eppure nella vicenda esistenziale leopardiana l’incontro con Milano ricopre un posto assai rilevante, un incontro e un rapporto durato, se si va oltre il breve e poco significativo soggiorno dell’estate 1825, pur a fasi alterne, dal 15 dicembre 1815, data della prima lettera inviata dalla famiglia Leopardi a Milano, alla fine del 1828 con la pubblicazione della Crestomazia della poesia. Molti anni davvero importanti per le possibilità offerte al Leopardi di farsi conoscere dalla intellettualità italiana attraverso il suo più vasto mercato editoriale del tempo, appunto quello milanese. Non è quindi un caso che il conte Monaldo scegliesse nel 1815 proprio Milano come centro preferenziale per acquistare libri e per tentare di far pubblicare gli scritti del giovane primogenito (non si dimentichi, poi, che Milano, se pur per breve tempo, dal 1808 al 1813, era stata la capitale delle Marche annesse, con la costituzione del dipartimento del Musone, al napoleonico Regno d’Italia). Milano, infatti, con la sua ricca pubblicistica, con il sorgere delle querelle classico-romantica e con la presenza di numerosi intellettuali specialisti nelle più varie branche del sapere, era la città più idonea per un giovane desideroso di iniziare l’“avventura” dell’uomo di lettere e soprattutto bisognoso, vista l’arretratezza culturale del paese d’origine, di farsi conoscere, di ricevere i primi plausi e di placare il suo smisurato ma comprensibile desiderio di gloria. Tutto ciò non toglie, però, che Milano non potesse diventare la “città ideale” di Leopardi: troppe differenze esistevano tra la situazione economico-politica di Recanati e quella milanese; troppe differenze tra un tipo di cultura indirizzata al moderno e agli “studi positivi” come quella milanese e la cultura respirata in casa Leopardi ancora di stampo classicistico-erudito e condizionata in parte dalle idee papaline e reazionarie del conte Monaldo. Tuttavia Milano al tempo di Leopardi era l’unica città italiana ad avere l’aspetto di una capitale europea (uno specimen di Parigi l’avrebbe definita lo stesso Giacomo in una lettera al fratello Carlo del 31 luglio 1825 ), era la vera capitale morale dell’Italia – e lo sarebbe stata almeno sino a tutto il 1848, ma anche oltre – ed era indiscutibilmente il maggiore e più vivace centro librario della Penisola. Milano era quindi, se non la città ideale, l’unica in grado di offrire al giovane Leopardi, attraverso la lettura dei libri e dei periodici (la “Biblioteca Italiana”, lo “Spettatore”, il “Corriere delle Dame”, la “Gazzetta Ufficiale di Milano”) provenienti dal suo ricco mercato editoriale o attraverso i possibili scambi epistolari che vi si potevano instaurare, una chance per allontanarsi da un tipo di cultura chiusa in se stessa (si ricordi che l’ambiente intellettuale recanatese era ristretto alla famiglia Leopardi e poco più), per tentare di stringere relazioni durature e per cercare di diventare parte attiva dell’intellettualità italiana.
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Come è noto due sono le fasi di collaborazione (1815-1818 e 1825-1828) tra Milano e Leopardi o, per meglio dire, tra l’editore Antonio Fortunato Stella e il Leopardi medesimo, due fasi che portarono alla pubblicazione di ben 19 articoli originali (12 apparsi sulle pagine dello “Spettatore” tra il 1816 e il 1817 e 7 sul “Nuovo Ricoglitore” tra il 1825 e il 1827, senza contare tutti gli estratti) oltre a 6 pubblicazioni maggiori in volume, cioè la traduzione del II libro dell’Eneide del 1817, il Martirio dei Santi Padri e l’interpretazione alle Rime di Petrarca del 1826, le Operette morali e la Crestomazia della prosa del 1827 e la Crestomazia della poesia del 1828: una cifra davvero interessante se messa a confronto con il totale (19 titoli) delle pubblicazioni leopardiane in vita avvenute in altre città italiane (Recanati, Loreto, Bologna, Firenze, Roma e Napoli). Questi numeri da soli sarebbero sufficienti per dimostrare e avvalorare la tesi della particolare importanza rivestita da Milano nella vicenda, almeno editoriale, di Leopardi: ben altri, comunque, sono i motivi per cui è necessaria una riconsiderazione del ruolo giocato dal capoluogo lombardo nella storia personale e pubblica di Giacomo.
L’incontro con Milano e con l’editore Stella, infatti, portò con sé tutta una serie di conseguenze fondamentali per la vita di Leopardi: innanzitutto significò iniziare a pubblicare e a pubblicare in un ambito vasto e intellettualmente diversificato; in secondo luogo significò, proprio attraverso tali prime pubblicazioni milanesi, entrare in contatto epistolare con alcune delle maggiori personalità del tempo (si pensi, tra i tanti, a Mai, a Monti e a Giordani e all’importanza rivestita dall’amicizia con quest’ultimo che divenne in breve tempo mezzo di altre conoscenze epistolari e mezzo di diffusione del nome di Leopardi stesso); in terzo luogo significò potersene andare via da Recanati, trovare una occupazione proprio nell’ambito editoriale, riuscire, se pur faticosamente, a mantenersi lontano dalla famiglia e iniziare quelle peregrinazioni che tanta parte ebbero nella sua vita; in ultimo, ma non meno importante, le pubblicazioni milanesi diedero a Leopardi la possibilità sia di trovare altri editori disposti a stampare i suoi scritti sia di far circolare il suo nome all’interno degli ambienti intellettuali del tempo (questo, tuttavia, non significò affatto una comprensione o una adesione alla poetica leopardiana, come numerose recensioni, pure in ambito milanese, testimoniano).
La prima considerazione, quindi, che deve essere fatta prendendo in esame il ruolo rivestito da Milano nella biografia leopardiana, è quella di valutare l’esito della collaborazione leopardiana con l’editore Stella sotto tutti i punti vista, positivi o negativi quali essi siano stati. Comunque a ulteriore testimonianza del peso avuto da tale collaborazione e prima di ogni altra valutazione, vale la pena di segnalare che dal 15 novembre 1816 all’11 aprile 1831, date di inizio e di fine dei rapporti epistolari, ci furono ben 158 lettere tra Giacomo e lo Stella, un numero ben significativo e rilevante se si tiene presente che è inferiore solo a quello della corrispondenza di Giacomo con il padre Monaldo (214 lettere), con Pietro Giordani (183) e con Pietro Brighenti (171).
Detto questo, assai difficile risulta riassumere in poche battute la lunga carriera editoriale dello Stella e l’importanza ricoperta dalla sua attività in una città in cui la concorrenza era altissima e in cui ogni giorno si moltiplicavano le imprese e le iniziative tipografiche: posso solo dire che quando nel dicembre del 1815 il conte Monaldo si rivolgeva allo Stella per acquistare libri, per associarsi a opere periodiche e per ricevere il catalogo aggiornato delle pubblicazioni vendibili nel suo negozio, lo Stella aveva alle spalle già una lunga esperienza nel settore editoriale, esperienza iniziata nel 1793 a Venezia (lo Stella vi era nato nel 1757) con l’allestimento di una grandiosa stamperia (la Nuova Veneta Tipografia) che aveva l’ambizione di raggiungere un’accurata qualità tipografica e con la pubblicazione, sempre nel 1793, dell’“Anno Poetico”, una raccolta annuale di testi poetici inediti di “autori viventi” di tutte le età e di tutte le provenienze. Lo Stella continuava poi nel 1796 con la pubblicazione del “Teatro moderno applaudito”, opera monumentale in 61 tomi usciti sino al 1801, e nel 1804, quando ormai si era definitivamente allontanato da Venezia per trasferirsi vicino a Varese e quando le sue vicende biografiche si erano sempre più legate a quelle del conte Vincenzo Dandolo (1758-1819), con l’“Anno Teatrale”, ideale continuazione del “Teatro moderno applaudito”, collezione in 36 volumi interrotta per mancanza di fondi nel dicembre 1806. Ma la vera svolta era avvenuta quando, nel 1810, grazie forse alle sovvenzioni avute dal Dandolo, lo Stella apriva in contrada Santa Margherita 1066, sotto l’insegna di San Tommaso d’Aquino, il suo negozio di libri che sarebbe sopravvissuto ben oltre la sua morte avvenuta nel 1833 (si hanno notizie di una ditta Ved. Stella e Figli almeno sino al 1847 ). L’apertura del negozio significò per lo Stella anche l’inizio della sua attività di editore o, per meglio dire, di stampatore-libraio privo di torchi propri ma provvisto di buoni capitali provenienti appunto dalla sua attività di vendita, uno stampatore-libraio che possedeva da un lato la necessaria esperienza pratica acquisita durante gli anni veneziani e dall’altra una discreta preparazione culturale tanto da essere in grado di apprezzare il valore di quanto gli veniva proposto, oltre ad una particolare sensibilità verso le problematiche che sin da allora si stavano affacciando nel mondo dell’editoria, prima fra tutte quella di combattere la pirateria letteraria con l’istituzione del diritto d’autore. Dal 1810 fu dunque per lo Stella un continuo susseguirsi di attività: dalla pubblicazione di periodici quali gli “Annali universali di medicina”, lo “Spettatore” (poi “Spettatore Italiano e Straniero”) e il “Nuovo Ricoglitore” (su queste ultime due testate avrebbe pubblicato anche il Leopardi) alla assistenza di importanti autori nella pubblicazione delle loro opere (si ricordi tra tutti il Monti coadiuvato dallo Stella durante l’edizione della sua traduzione dell’Iliade presso la Stamperia Reale nel 1812 e nel 1817 per la Proposta di alcune correzione aggiunte al Vocabolario della Crusca); dal semplice spaccio di opere importanti quali il Frontone del Mai e le opere del Cesari (dalle Lezioni della Sacra Scrittura al Panegirico) alla collaborazione con altri editori milanesi, tra i quali Francesco Fusi, che portò alla costituzione dell’importante collezione delle “Edizioni delle opere classiche italiane del secolo XVIII” (1818-1839) e alla istituzione della seconda Società dei Classici Italiani, scioltasi la prima nel 1814; dalla direzione, assunta nel 1825, della “Biblioteca amena ed istruttiva per le donne gentili”, lanciata nel 1821 da Giovanni Pirotta (in crisi quando la rilevava lo Stella che riuscì nel giro di due anni, dal 1825 al 1827, a farla decollare con l’inserimento nei suoi titoli di opere quali I tre galatei curati dal Tommaseo, le Rime di Francesco Petrarca con l’interpretazione del Leopardi e la Sibilla Odaleta di Cesare Cantù) alla monumentale edizione ciceroniana, mai portata a termine, di cui apparvero dal 1825 al 1831 i dieci volumi delle Lettere curate da Antonio Cesari e alla cui sovraintendenza avrebbe lavorato anche lo stesso Leopardi (proprio questa edizione fu la causa dell’arrivo a Milano di Giacomo).
Da quanto si è detto si può ben comprendere perché il conte Monaldo si rivolgesse proprio allo Stella per le sue commissioni librarie, per arricchire la sua pur già vasta biblioteca (priva, però, di titoli contemporanei), per soddisfare le sempre crescenti esigenze dei figli, in particolare quelle di Giacomo, e pure per cercare di far stampare gli scritti del suo primogenito: in alcune lettere, in parte perse, spedite tra il gennaio e il febbraio 1816, Monaldo infatti proponeva allo Stella la pubblicazione del Saggio sopra gli errori popolari degli antichi e della versione del Frontone scoperto dal Mai. Se è vero che entrambi i due scritti rimasero inediti e che mai lo Stella se ne servì per una eventuale stampa, accampando prevalentemente motivazioni di carattere economico, la prima pubblicazione di una certa importanza di Giacomo fu proprio milanese e su una rivista dello Stella, ossia la traduzione del primo libro dell’Odissea sulle pagine dello “Spettatore” (quadd. 55 e 56 del 30 giu.-15 lug. 1816). Da questo momento lo Stella avrebbe accolto la maggior parte degli scritti che all’inizio il conte Monaldo e poi, dal 16 novembre 1816, Giacomo in persona gli spedivano: così vedevano la luce tra il 1816 e il 1817, sempre sulle pagine dello “Spettatore”, ad eccezione nel gennaio 1817 del volumetto contenente la traduzione del II libro dell’Eneide uscito coi tipi dello stampatore Giovanni Pirotta (lo Stella non avendo torchi propri utilizzava frequentemente appunto quelli del Pirotta), il Discorso sopra Mosco accompagnato dalla traduzione delle Poesie di Mosco, il Parere sopra il Salterio ebraico (apparso con le iniziali M.D.), la traduzione del poemetto pseudo-omerico La guerra de’ topi e delle rane preceduta dal Discorso sopra la Batracomiomachia, il discorso di stampo purista Della fama avuta da Orazio presso gli antichi, il poemetto La Torta, traduzione del Moretum cioè di uno dei componimenti dell’Appendix Virgiliana, la contraffazione da “antichissimo” scrittore greco dell’Inno a Nettuno con le Odae adespotae, la versione della Titanomachia di Esiodo e l’articolo di carattere linguistico-filologico Sopra due voci italiane (le voci prese in esame erano il participio reso e l’infinito sortire considerate dal Leopardi veri termini italiani e non barbarismi). Certo accanto a tali edizioni vi furono altri e non meno importanti scritti che, spediti a Milano e allo Stella - ma anche a Giuseppe Acerbi (1773-1846), direttore della “Biblioteca Italiana” -, non ebbero mai una loro pubblicazione: una serie di opere, tra l’altro, che sarebbero state assai utili per fare apprezzare al grande pubblico milanese e non le doti di traduttore e le conoscenze filologiche del Leopardi (si pensi al Frontone e alla Lettera al Ch. Pietro Giordani sopra il Dionigi del Mai, ma anche alla versione delle Iscrizioni greche triopee) o che avrebbero bene illustrato le sue vaste, peculiari ed eccezionali conoscenze culturali (e qui si pensi al Saggio sopra gli errori popolari degli antichi) o che avrebbero immesso il Leopardi medesimo all’interno della polemica classico-romantica con una voce davvero originale e unica e che, forse, gli avrebbero consentito di inserirsi con maggiore incisività e in tempi più brevi all’interno della “repubblica nazionale delle lettere” (mi sto riferendo alla seconda Lettera ai compilatori della Biblioteca Italiana e, soprattutto, al Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica).
Proprio con la mancata pubblicazione del Discorso intorno alla poesia romantica nel 1818 si interrompevano i rapporti di collaborazione tra Giacomo e lo Stella: una interruzione, però, avvenuta per decisione di Monaldo, il quale, assillato da problemi economici (o meglio dal laccio imposto dalla gestione finanziaria della moglie Adelaide), vedeva nello Stella soltanto lo “stampatore-mercante” più attento ai propri interessi che alle esigenze del cliente. E così all’ennesima rimostranza dello Stella per il ritardo e il mancato pagamento di alcune fatture, il conte Monaldo pensava bene di chiudere un rapporto che, comunque sia, aveva rappresentato per il figlio Giacomo una importantissima opportunità e che aveva portato con sé alcuni notevoli risultati. Se è pur vero che il Leopardi non era riuscito a pubblicare tutto quanto aveva spedito a Milano, se è pur vero che spesso si era lamentato delle lungaggini delle spedizioni, degli errori intercorsi nella stampa dei propri scritti e del basso livello culturale dello “Spettatore”, è anche vero che i rapporti tra lui e lo Stella erano stati sempre improntati a reciproca stima: lo Stella, sin dal suo viaggio a Recanati compiuto tra la metà di agosto e la metà di settembre del 1816, aveva subito intuito le speciali capacità di quel giovane contino e, da allora, lo aveva trattato con rispetto, ma anche con affetto. E anche quando, il 14 febbraio 1821, dopo quasi tre anni di silenzio epistolare, lo Stella sarebbe tornato a scrivere a Giacomo per ottenere, tramite lui, il saldo di un conto rimasto da tempo insoluto, gli si sarebbe rivolto con toni e parole che chiaramente mettono in risalto la considerazione e, appunto, l’affetto provato nei suoi confronti (una considerazione che sarebbe durata nel tempo e che avrebbe lasciato un segno profondo se lo Stella, bisognoso di un giudizio serio e competente sulla sua impresa ciceroniana, si sarebbe ricordato proprio di Giacomo):
Signor Conte preg.mo
Più volte ho detto fra me: Ed è possibile che il conte Monaldo Leopardi, da cui ho ricevuto cotante gentilezze, e mi si è mostrato cotanto virtuoso, sia un uomo non giusto e non civile? Se considero le tante lettere che gli ho scritto, le quali sono rimaste senza risposta, e principalmente considero la cambialetta che più volte gli è stata presentata e sempre con rifiuto, certamente che se non porta a far credere questo, fa nascere un gran dubbio. Per togliermelo, scrivo a Lei, degniss. Sig.r conte Giacomo, facendo qui copiare l’ultima lettera che ho scritto. Non ostante la protesta che in essa troverà, se ella, mio cariss. signore, mi dirà di cancellar quel mio credito di L. 169.77 ital.e, il farò prontamente, purchè io sappia che questa sia cosa per Lei grata, e conosca Ella in ciò una prova sincera della mia stima che manterrò viva sin che a Lei piacerà di considerarmi quale sento di essere
Dev.mo Serv. suo di cuore
Ant. Fort. Stella
La prima fase collaborativa con Milano, comunque, ebbe altri risvolti positivi: basti dire che la cosiddetta “conversione” letteraria del Leopardi coincise proprio con l’apertura all’ambiente culturale milanese, con la frequentazione di giornali milanesi che portarono in casa Leopardi una ventata di novità e di modernità e con la conoscenza di persone quali il Mai, il Monti e il Giordani che in quegli anni vivevano o esercitavano la loro professione letteraria proprio a Milano (ricordo che fu la pubblicazione del volumetto contenente la traduzione del II libro dell’Eneide l’occasione per iniziare i rapporti epistolari con i tre personaggi citati e ricordo pure che l’amicizia subito instauratasi con il Giordani rappresentò uno dei momenti più importanti e fecondi per la crescita e la maturazione umana e intellettuale del Leopardi). Certo non si può fare a meno di sottolineare che questa prima collaborazione, riuscita a livello erudito (fortuna ebbero le traduzioni e i discorsi che furono sempre accolti e stampati dallo Stella), fallì nel campo più propriamente letterario: infatti opere originali come il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi e scritti di singolare importanza nella carriera artistica leopardiana come il Discorso intorno alla poesia romantica furono cestinati solo perché lo Stella, o chi per lui (per i lavori più strettamente filologici lo Stella si rimetteva al giudizio di una serie di esperti tra i quali anche il Mai), non era stato in grado di coglierne il reale valore o perché non li aveva ritenuti economicamente redditizi a fronte della agguerrita e implacabile concorrenza editoriale milanese. E se è pure vero che mancarono recensioni milanesi a questi primi scritti del Leopardi, bisogna pure tenere presenti alcune attenuanti: in primo luogo era davvero arduo farsi notare attraverso la pubblicazione di lavori che, per quanto pregevoli e ben fatti, apparivano sulle pagine di una rivista dal carattere naturalmente miscellaneo e disomogeneo. In secondo luogo per Milano e per il lettore “medio” milanese era difficile appassionarsi ad articoli di carattere erudito e filologico come quelli che il giovane Leopardi aveva mandato allo Stella: benché la presenza del Mai in qualità di prefetto della Biblioteca Ambrosiana avesse in parte risollevato gli studi di antiquaria, Milano era sempre stata poco interessata alla filologia classica e alla erudizione in senso stretto, portata com’era alle “cognizioni utili” e agli “studi positivi”, cioè ad una letteratura di carattere pratico e venata da un chiaro intento etico-civile (non è un caso che il futuro “idolo delle folle” sarebbe diventato il Manzoni). In terzo luogo, forse, se il Leopardi fosse riuscito a farsi pubblicare qualche lavoro anche sulle pagine della “Biblioteca Italiana” le cose sarebbero andate diversamente: la collaborazione con tale periodico, se pur politicamente segnata (la “Biblioteca Italiana” era sostanzialmente l’organo ufficiale della cultura austriaca), avrebbe permesso al Leopardi di farsi conoscere e apprezzare con maggiore successo e sarebbe stata più redditizia da un punto di vista economico (l’Acerbi retribuiva un tanto al foglio, lo Stella, invece, si prendeva gli articoli leopardiani senza sborsare una lira o, addirittura, si faceva pagare quando considerava la stampa poco redditizia - si pensi al volumetto della versione dei II libro dell’Eneide -). Purtroppo l’amicizia con il Giordani, in questo senso, rappresentò per Giacomo una preclusione alla possibilità di pubblicare sulla “Biblioteca Italiana”: l’ostilità che l’Acerbi provava per il Giordani, ben presto allontanato dalla direzione del giornale, da un lato indussero il Leopardi a preferire lo “Spettatore” e dall’altro indussero, con ogni probabilità, l’Acerbi a scartare i lavori di Giacomo per fare un torto al Giordani medesimo (da non dimenticare, però, anche l’equivoco relativo alla pubblicazione dell’Inno a Nettuno ). Tuttavia non si devono sottovalutare anche altri elementi. Almeno secondo il mio personale giudizio e alla luce delle future vicende editoriali leopardiane, furono proprio queste prime pubblicazioni milanesi che permisero a Giacomo di trovare altri mercati e altri stampatori disposti ad impiegare i loro torchi per un autore giovane sì, ma non più del tutto sconosciuto: si ricordi che la futura amicizia con Pietro Brighenti (1775-1846) e con altri editori bolognesi sarebbe nata attraverso la mediazione del Giordani e, quindi, indirettamente tramite Milano. Inoltre non va affatto sottovalutato l’intuito dello Stella: conosciuto il nostro poeta appenna diciottenne, egli vi intravide subito un intellettuale di sicuro genio (e ne approfittò pubblicandone gli scritti sulla sua rivista) tanto che, pur dopo parecchi anni di silenzio epistolare, si sarebbe rivolto proprio a lui per chiedergli un parere “dotto” e “sincero” intorno al suo progetto ciceroniano (uno dei progetti che furono più cari e più importanti nella carriera dello Stella) e al manifesto preparato dal Tommaseo.

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Quando il 5 marzo 1825 lo Stella scriveva al Leopardi, molte cose erano cambiate: Giacomo non era più il giovane contino alle sue prime pubblicazioni e ancora pieno di speranze per il proprio avvenire. Il tentativo, fallito, di fuga del 1819, la conversione filosofica, il viaggio a Roma, tutte le ricerche effettuate, anche queste senza alcun esito positivo, di trovare una occupazione che gli permettesse di mantenersi lontano da casa avevano determinato un profondo e radicale cambiamento e avevano fatto crollare una dopo l’altra le illusioni giovanili. Tuttavia, da un punto di vista editoriale, il Leopardi aveva vissuto, in quegli anni dal 1818 al 1825, una stagione abbastanza felice e fortunata: il 1818 aveva visto l’apparizione delle due canzoni All’Italia e Sopra il monumento di Dante (Bourliè, Roma); il 1820 quella della canzone Ad Angelo Mai (Marsigli, Bologna); e il 1824 quella del volume contenente le dieci Canzoni (Nobili, Bologna); tutti componimenti che, per il loro carattere civile-patriottico, erano stati salutati con calore e entusiasmo dall’intellettualità italiana - senza poi contare nel 1823 la pubblicazione sulle “Effemeridi letterarie di Roma” di tre contributi di carattere filologico -. Quei sette anni erano stati segnati pure dalla composizione degli Idilli e delle prime venti Operetti morali, oltre che da ben 4125 pagine (su 4526) dello Zibaldone: insomma, sette anni intensi e ricchi per quanto riguarda la storia editoriale e culturale leopardiana, ma non ancora risolutivi almeno per quanto riguarda le vicende più strettamente biografiche.
Lo Stella, come è noto, si rivolgeva al Leopardi per chiedergli un giudizio intorno all’impresa ciceroniana e, soprattutto, intorno al manifesto e al saggio di commento alla prima Catilinaria preparati dal Tommaseo. Le vicende di tale edizione sono sufficientemente note per dovermici soffermare troppo a lungo: basti ricordare che il Leopardi espresse un parere lucido ma severo nei confronti della proposta del Tommaseo (Giacomo, comunque, ignorava il nome dell’autore del saggio e tanto meno sapeva chi fosse il Tommaseo), che lo Stella fece sue tutte le acute osservazioni del Leopardi tanto da licenziare il Tommaseo e da chiedere a Giacomo stesso di occuparsi di tale edizione, invitandolo a venire al più presto, ospite in casa sua, a Milano:
La carissima sua del 13 m.zo mi ha riempiuto di riconoscenza e di confidenza insieme: onde con aperto animo le dico che se dalla sua volontà dipendesse il lasciar per qualche mese la patria, e non le dispiacesse di trasferirsi qui per dimorar qui tutto quel tempo che si richiedesse per incamminar bene l’impresa mia senza pensar Ella a spesa alcuna, le scriverei subito venga, e venga subito che sarà rivevuta da me colle braccia aperte e festeggiata da molti (30 aprile 1825).

Dopo d’aver alquanto pensato ed anche scritto, e fatto scrivere, per ben rispondere alle savie osservazioni sue contenute nella cara sua 18 del p. p. ho veduto che il migliore espediente (dappoichè Ella non ha vincoli che le impediscono di venir qui) si è quello di pregarla di venire; soggiungnendole che quanto più presto Ella verrà, tanto più ne sentirò contento ed utile. Ella si fermerà poi qui tutto quel tempo che più le sarà per piacere, certa di trovare in me più che un amico un padre, e nella mia famiglia una buona madre e degli amorosi fratelli. A spese di viaggi e dimora Ella non dovrà pensare: penserò io a tutto. Ella non avrà altro pensiero che quello di farsi condurre qui in Milano, e smontare alla mia casa posta in contrada Santa-Margherita, la cui porta è la prima a man dritta nel vicolo di San-Salvatore (8 giugno 1825).
Il Leopardi, desideroso da molto tempo di andarsene da Recanati e ormai stanco della rigida disciplina familiare, accettava subito la proposta stelliana e il 30 luglio, dopo aver soggiornato qualche giorno a Bologna, dove rivedeva il Giordani e dove stringeva affettuosi rapporti di amicizia, faceva il suo ingresso a Milano.
Prima di analizzare l’impatto dell’incontro tra Giacomo e Milano, bisogna subito sottolineare un dato importantissimo: la ripresa dei rapporti con lo Stella, culminata appunto con l’ospitalità in casa sua, significò per Giacomo l’apertura verso possibilità di vita sino a quel momento neppure prese in considerazione, cioè un’esistenza in movimento tra le maggiori città italiane a contatto con ambienti culturali, politici e sociali diversi tra loro (fino ad allora il Leopardi aveva sempre cercato di trovare un lavoro a Roma e soltanto a Roma) e l’impiego delle sue straordinarie capacità come consulente editoriale, perché proprio questo fu per lo Stella dal 1825 al 1828 (non penso che Giacomo, vista l’esperienza che aveva avuto con gli editori delle sue opere, avesse mai pensato prima di allora di poter ottenere uno stipendio fisso con un lavoro di tipo intellettuale).
Certo questo non toglie che si debba parlare per il Leopardi e Milano di un mancato incontro affettivo: pur non sottovalutando l’intrinseca incapacità del Leopardi a vivere bene in qualsiasi posto, ad eccezione forse di Pisa (“la vita in qualunque luogo mi è abbominevole e tormentosa”, avrebbe scritto al padre Monaldo il 3 luglio 1832 ), Milano, culla del Romanticismo e amante degli “studi positivi” (cioè di quelle cifre e statistiche più volte osteggiate da Giacomo), centro ideale del Risorgimento italiano e del movimento liberale che aveva trovato in Manzoni il proprio nume tutelare, non poteva certo diventare la città leopardiana per eccellenza, senza poi contare che il Leopardi vi arrivava alla fine di luglio quando le più importanti personalità del mondo letterario e culturale in genere (compreso lo stesso Manzoni) erano in vacanza nelle loro ville fuori porta.
Comunque sia, la Milano che si presentava agli occhi del Leopardi era una città che aveva saputo, se pur faticosamente, risollevarsi dopo la grave crisi seguita ai moti del 1820-1821 e ai processi che avevano portato alla incarcerazione del Pellico, del Maroncelli e del Confalonieri e all’esilio del Borsieri e del Berchet: dopo alcuni anni di stasi sia a livello socio-economico sia a livello culturale, nuove imprese e nuove attività si erano sviluppate a dimostrazione della forza finanziaria e intellettuale della città. Nel 1823 era stata fondata la Cassa di Risparmio delle Provincie Lombarde, che, benché nata come istituto di carità, divenne ben presto la più importante banca fondiaria della Lombardia; nel 1824 veniva istituita la prima Azienda Assicuratrice, che assicurava “contro il fuoco gli edifici, l’arredamento e le merci, e contro i danni della grandine ogni prodotto della terra”; sempre nel 1824 Francesco Lampato lanciava gli “Annali universali di statistica”, dando vita ad una nuova era nella pubblicistica lombarda, quella dei periodici di “cognizioni utili”, una stampa promossa dalla “classe media” e liberale, sempre più bisognosa di una rivista che non fosse puro passatempo, ma informazione precisa su quanto accadeva nei vari settori della vita cittadina, italiana e straniera; nel 1825 nasceva il “Nuovo Ricoglitore” destinato a soppiantare in campo letterario la austriacante “Biblioteca Italiana” e a rappresentare, pur nella disomogeneità degli articoli (storia, geografia, archeologia, novelle, romanzi, bibliografia, necrologia, ecc.) in esso inseriti e dei collaboratori utilizzati (da Cesare Cantù a Pier Alessandro Paravia, da Giovambattista Bazzoni a Defendente e Giuseppe Sacchi, da Niccolò Tommaseo a Giuseppe Compagnoni), una voce meno reazionaria, più moderna e caratterizzara da una “larvata Italianità”; e ancora nel 1825 la visita ufficiale dell’imperatore Francesco I, accompagnato dalla imperatrice Carolina Augusta, sua quarta moglie, e dall’arciduca Francesco Carlo e dalla arciduchessa Sofia, riaccendeva il gusto per feste e balli, per quanto non riuscisse a rompere completamnente quello strato di ghiaccio creatosi tra la cittadinanza e il re dopo i dolorosi e luttuosi fatti del 1821 (in quei giorni si raccontava che alcune famiglie della aristocrazia illuminata milanese all’arrivo dell’imperatore avessero sprangato i loro palazzi cittadini e si fossero rifugiate, per tutta la durata del soggiorno imperiale, nelle loro ville di campagna). Milano, dunque, grazie anche alla sempre maggiore industrializzazione e allo straodinario sviluppo che continuava a vivere nel settore editoriale, era l’unica città italiana che, in qualche modo, poteva competere con le grandi capitali europee: non è un caso, quindi, che la prima impressione ricevuta dal Leopardi fosse quella di essere giunto in una città simile a Parigi, in cui era possibile respirare “un’aria della quale non si può avere idea senza esservi stato” e che per gli amanti del divertimento era “tutto un giardino delle Tuilleries”. Bastavano però pochi giorni di permanenza nella rumorosa e affollata casa dello Stella durante la stagione estiva a far cambiare idea al Leopardi e a fargli scrivere a più riprese di trascorrere una vita solitaria, noiosa e priva di rapporti intellettuali:

Qui mi trovo malissimo e di pessimissima voglia. Pochi letterati ho conosciuto, e non mi curo di vederli per la seconda volta. Sospiro per Bologna, dove certamente o presto o tardi ritornerò per fermarmici stabilmente (a Pietro Brighenti, 8 agosto 1825).
Io vivo qui poco volentieri e per lo più in casa, perchè Milano è veramente insociale, e non avendo affari, e non volendo darsi alla pura galanteria, non vi si può fare altra vita che quella del letterato solitario (a Carlo Antici, 20 agosto 1825).
io non ho qui cosa alcuna che mi possa confortare in questa lontananza, trovandomi senza amici, e spendendo il giorno in cure fastidiosissime (ad Antonio Papadopoli, 31 agosto 1825).
E in una lettera al fratello Carlo del 7 settembre il Leopardi addirittura smentiva la prima impressione di una Milano specimen di Parigi, arrivando persino a sostenere che non vi era alcuna differenza tra il tipo di vita che si poteva condurre a Milano e quella che si conduceva normalmente a Recanati:
Quel che ti scrissi di Milano, fu una mia osservazione precipitata. Il fatto si è che in Milano nessun pensa a voi, e ciascuno vive a suo modo anche più liberamente che in Roma. Qui poi, cosa incredibile ma vera, non v’è neppur una società fuorchè il passeggio ossia trottata, e il caffè; appunto come a Recanati nè più nè meno. Roma e Bologna, in questo, sono due Parigi a confronto di Milano. Vedi dunque quanto io era lontano dal provare il senso di scoraggimento per non poter far figura in un luogo dove nessuno la fa, e dove 100 ventimila uomini stanno insieme per caso, come 100, 20 m. pecore.
Oltre a ciò, il Leopardi ebbe la sfortuna di arrivare a Milano proprio durante la stagione estiva: questo fatto, nient’affatto trascurabile, non gli permise di conoscere se non i pochi letterati rimasti in città i quali, ad eccezione del Monti, non rappresentavano certo il meglio dell’ambiente intellettuale cittadino (completamente mancata fu la conoscenza con il Manzoni, incontrato dal Leopardi solo nel 1827 a Firenze presso il Gabinetto Vieusseux, e con quanti frequentavano il suo salotto):
Qui non ho conosciuto ancora se non pochissime persone di merito, e tra queste niuna che mi paia disposta a concedermi la sua amicizia, eccetto il Cav. Monti, al quale ho portato i suoi saluti e quelli del Co. Pepoli e del Prof. Costa, e che mi ha parlato di Lei con lode e con amor grandissimo. Mi ha trattato molto benignamente e mi ha dato licenza di vederlo spesso (ad Antonio Papadopoli, 6 agosto 1825).
Appena arrivato, vidi Monti, il quale mi domandò subito di voi e del vostro Lucano. Lo salutai per parte vostra e gli esposi quello che voi mi avevate commesso che gli dicessi. Da quella volta in qua non l’ho mai veduto, e credo che non lo vedrò, perchè in quella prima visita volli propriamente sputar sangue per parlargli in modo che egli mi potesse intendere, e in verità non ho forza di petto che basti per conversar con lui nè anche un quarto d’ora. Eccetto questa sordità spaventosa, che me lo rende inutile, mi parve che stesse bene (a Francesco Cassi, 17 settembre 1825).
E così la maggior parte delle conoscenze fatte dal Leopardi a Milano, ad eccezione del conte Luigi Alborghetti (1773-1835), legato pontificio, si restrinse a persone che gravitavano attorno allo Stella e al mondo pubblicistico, cioè poligrafi e scrittori allora noti e di successo, benchè dai modesti meriti letterari: Giuseppe Compagnoni (1754-1833), collaboratore di vecchia data dello Stella; il professore Francesco Ambrosoli (1797-1868), che pubblicava sulle pagine del “Nuovo Ricoglitore”e soprattutto su quelle della “Biblioteca Italiana”; Tullio Dandolo (1801-1870), figlio del più famoso conte Vincenzo; Francesco Bentivoglio, dottore del Collegio della Biblioteca Ambrosiana, e Virginio Soncini (1784-1831), i due curatori della edizione ciceroniana approntata dallo Stella (Giacomo, invece, non conobbe mai padre Cesari, autore della traduzione vera e propria); Domenico De Rossetti (1774-1842), giovane triestino studioso del Petrarca, di passaggio per Milano, che nel 1826 avrebbe chiesto a Giacomo qualche traduzione latina del Petrarca stesso.
I due mesi di permanenza in casa dello Stella furono, comunque, importanti e proficui per il Leopardi, benché riuscisse ad occuparsi soltanto dell’impresa ciceroniana (per la quale redasse i due manifesti, uno in latino e uno in italiano ): proprio durante il breve soggiorno milanese, infatti, Giacomo e lo Stella decidevano di avviare il lavoro sul Petrarca e prendevano accordi per la pubblicazione sulle pagine del “Nuovo Ricoglitore” di alcuni manoscritti leopardiani quasi tutti composti anni prima ma ancora inediti e, soprattutto, per quella cooperazione economica, che a 10 scudi al mese, ben presto diventati 20, sarebbe durata ininterrottamente sino al dicembre 1828. Iniziava così la seconda fase collaborativa con lo Stella e la città di Milano, una fase assai più interessante e proficua rispetto alla prima, vista la portata delle opere che il Leopardi riuscì a farsi stampare (si pensi alle Operette morali che difficilmente in un’altra città avrebbero potuto ottenere il placet alla pubblicazione e trovare un editore disposto a correre il rischio di una tale edizione) e che videro la loro progettazione proprio grazie alla relazione di lavoro instauratasi tra Giacomo e lo Stella (si pensi al Petrarca e alle due Crestomazie). Venivano dunque pubblicati sulle pagine del “Nuovo Ricoglitore” tra il settembre 1825 e il febbraio 1827 il Frammento di una traduzione in volgare dell’impresa di Ciro descritta da Senofonte, le Annotazioni alle dieci Canzoni, già poste a conclusione della edizione bolognese del 1824, i primi sei Idilli (cioè L’infinito, La sera del giorno festivo - poi La sera del dì di festa -, La Ricordanza - poi Alla luna -, Il sogno, Lo spavento notturno - poi Odi, Melisso - e La vita solitaria), il Primo saggio delle Operette morali, già apparso sulle pagine dell’“Antologia” del Vieusseux e contenente il Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare, il Dialogo di Cristoforo Colombo e Pietro Gutierrez e il Dialogo di Timandro e di Eleandro, e, infine, il Discorso in proposito di una orazione greca di Giorgio Gemisto Pletone e volgarizzamento della medesima. Accanto a questi articoli vedevano la luce altre opere fondamentali nella carriera letteraria del Leopardi: nel 1826 apparivano sia il Martirio de’ Santi Padri, falsificazione trecentesca (si ricordi il gusto che Giacomo aveva per tale tipo di composizioni e che aveva già portato alla stesura dell’Inno a Nettuno e delle Odae adespotae) sia l’interpretazione delle Rime del Petrarca, quattro tometti (poi raccolti in due) inseriti nella “Biblioteca amena ed istruttiva per le donne gentili”; nel 1827 il volume delle prime venti Operette morali e quello della Crestomazia della prosa (ricordo, perché mi sembra davvero importante segnalarlo, che il progetto di stendere una antologia della letteratura italiana in prosa venne avanzato dal Leopardi in persona, e non dallo Stella, già in una lettera del 19 settembre 1826 ); nel 1828 il volume della Crestomazia della poesia, la cui composizione chiudeva quel lungo periodo leopardiano, iniziato nel 1823, di inattività poetica. Certo, e bisogna sottolinearlo subito, anche durante questa seconda fase di collaborazione alcuni importanti scritti rimasero inediti, perché lo Stella non li ritenne editorialmente redditizi: mi riferisco alla mai ultimata collana dei Moralisti greci che tanta parte occupa nella vicenda artistica e filosofica leopardiana, se a più riprese, tra il 1825 e il 1830, il Leopardi stesso cercò di trovare un editore disponibile alla sua stampa, prima appunto nella persona dello Stella, poi del Sonzogno e del maceratese Mancini e, di nuovo, dello Stella, segno sia di quell’“affetto particolare” che egli provava per tali traduzioni sia del rilievo in lui ricoperto dagli studi classici.

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E’ necessario a questo punto del discorso, e prima di analizzare la ricaduta che gli scritti leopardiani ebbero sul mondo culturale milanese, illustrare quali furono i vantaggi che da questa collaborazione vennero tanto al Leopardi quanto allo Stella. Per il Leopardi non è difficile individuarli: innanzitutto la possibilità di avere a propria disposizione un editore che, in genere, stampò tutto quanto gli veniva proposto e alle condizioni richieste dal Leopardi medesimo. Si pensi, tanto per fare un esempio illuminante, alla vicenda delle Operette morali: ottenuto l’admittitur alla stampa dal censore Bartolomeo Nardini, uomo discretamente colto e intelligente da saper apprezzare le bellezze filosofiche e stilistiche delle Operette leopardiane, lo Stella decideva di pubblicarle a puntate sul “Nuovo Ricoglitore” (l’idea, forse, gli era venuta considerando anche il fatto che i primi tre dialoghi erano apparsi sulle pagine di un’altra rivista, la fiorentina “Antologia”), ma, di fronte al rifiuto sdegnoso e categorico di Giacomo (“o potrò pubblicarle altrove, o preferisco il tenerle sempre inedite al dispiacer di vedere un’opera che mi costa fatiche infinite, pubblicata a brani in un Giornale, come le opere di un momento, e fatte per durare altrettanto” ), intraprendeva le prime prove di stampa con l’intenzione, apparentemente ferma e decisa, di inserirle nella “Biblioteca amena ed istruttiva per le donne gentili”. Ancora una volta, però, il Leopardi dichiarava tutta la sua ostilità ad un simile progetto (“Le opere edite non perdono nulla, entrando nelle Raccolte; ma io ho conosciuto per prova che le Opere inedite, se per la prima volta escon fuori in una Collezione, non levano mai rumore [...]. Poi, un libro di argomento profondo e tutto filosofico e metafisico, trovandosi in una Biblioteca per Dame, non può che scadere infinitamente nell’opinione [...]. Finalmente l’uscir fuori a pezzi di 108 pagine l’uno, nuocerà sommamente ad un’opera che vorrebb’esser giudicata dall’insieme, e dal complesso sistematico, come accade di ogni cosa filosofica, benchè scritta con leggerezza apparente.” ) e così, lo Stella, pur avendo speso tempo e denaro, finiva per cedere e per acconsentire a stampare il libro secondo le intenzioni e i desideri di Giacomo, dimostrando in tal modo un sincero e disinteressato attaccamento verso di lui.
Un altro indiscutibile vantaggio che venne al Leopardi dalla collaborazione con lo Stella fu l’assegnazione di quell’emolumento mensile di 20 scudi che gli garantì un vero e proprio stipendio fisso: certo lo Stella avrebbe potuto pagare di più, avrebbe potuto pagare un tanto al foglio anche gli articoli inseriti sul “Nuovo Ricoglitore”, avrebbe potuto dare degli extra, visto, come spiegherò in seguito, il buono smercio delle opere leopardiane, ma questi 20 scudi al mese rappresentarono il primo stipendio e l’unica vera retribuzione che il Leopardi avesse mai ricevuto - e mai riceverà, a parte gli 80 zecchini di Piatti - da un editore per le sue fatiche intellettuali (niente aveva ricavato dalle altre sue edizioni, se non le piccolissime somme derivanti dalla vendita di alcuni esemplari e, per di più, aveva quasi sempre dovuto finanziare personalmente la stampa dei propri scritti, perché gli altri editori non avevano ritenuto vantaggioso accollarsene la spesa). E non si deve neppure credere che il Leopardi, per potersi guadagnare questi 20 scudi mensili, fosse stato costretto a occuparsi di lavori completamente estranei ai suoi interessi e a suoi gusti: se si esclude l’interpretazione alle Rime del Petrarca, lavoro più volte definito lungo, difficile e noioso, gli altri scritti fatti per lo Stella, cioè le due Crestomazie, nacquero in realtà da un progetto e da un’idea del tutto leopardiana e subito fatta propria dallo Stella, che ne seppe cogliere la novità e, insieme, il tornoconto economico. Inoltre non si deve neppure dimenticare che senza questo se pur esiguo stipendio il Leopardi non avrebbe mai potuto mantenersi, privo di un aiuto regolare dalla sua famiglia, lontano da Recanati, un’esigenza, questa, avvertita da Giacomo come vitale e irrinunciabile; e tanto meno si deve credere, come hanno fatto alcuni studiosi, che il Leopardi avesse accettato la proposta stelliana perché non politicamente segnata: se il Leopardi accettò l’invito dello Stella e si dedicò ai lavori concordati con lui fu perché lo Stella, e nessun altro, gli aveva proposto un lavoro ben definito con uno stipendio fisso e sicuro. E’ vero che il 15 gennaio 1824 anche il Vieusseux aveva avanzato al Leopardi la possibilità di collaborare con la sua “Antologia”, ma è pure vero che il Vieusseux non gli proponeva affatto di retribuirlo per le sue fatiche e tanto meno di trasferirsi a Firenze: il Vieusseux, infatti, parlava di articoli in cui Giacomo avrebbe dovuto “render conto” delle “novità scientifiche e letterarie dello Stato pontificio” (un lavoro per altro assai poco interessante) nonché di trovargli nuovi associati, e niente più. Ritengo che nel 1824 il Leopardi, intento a comporre le Operette morali, libro caro più dei suoi stessi occhi, avrebbe accettato una offerta di lavoro solo se questa gli avesse assicurato una rendita e la possibilità di andarsene da Recanati. Quando nel 1826 il Vieusseux chiedeva ancora la collaborazione del Leopardi, e questa volta retribuendola, il Leopardi si vedeva costretto a rifiutare per l’impegno già assunto con lo Stella e non tanto per il carattere liberale che aveva l’“Antologia” fiorentina: in fondo il Leopardi fu sempre poco interessato alla politica e fu comunque capace di crearsi rapporti di amicizia e di stima con persone che avevano visioni di vita e credi ideologici ben lontani dai suoi (si pensi, tra i tanti che si potrebbero citare, al Gioberti). Oltre a ciò non sono disposta a ritenere l’opportunità offerta dallo Stella qualitativamente inferiore a quella che, eventualmente, avrebbe potuto offrire il Vieusseux: per quanto il “Nuovo Ricoglitore” non potesse certo competere con l’“Antologia”, nessun altro editore e nessun’altra città sarebbero stati in grado di pubblicare tutte le opere di cui abbiamo parlato, considerando le possibilità finanziarie di cui godeva lo Stella e il vasto mercato tipografico-librario che vantava Milano.
Ma passiamo ora allo Stella e ai profitti che egli potè ottenere dalla collaborazione con il Leopardi. In primo luogo ebbe a propria disposizione per le pagine del “Nuovo Ricoglitore” articoli di indubbia fattura e, per giunta, senza sborsare una lira. In secondo luogo potè contare sulla “sopraintendenza” del Leopardi per la sua edizione ciceroniana: per quanto, infatti, Giacomo cercasse in tutti i modi possibili di svincolarsi dall’impresa, comunque sia fornì una serie di consigli e di suggerimenti editoriali e linguistico-filologici che furono utilissimi durante la pubblicazione. In terzo luogo la collaborazione con il Leopardi rappresentò anche un guadagno di tipo economico, cosa poi davvero importante per un mercante quale lo Stella: con lo smercio del Petrarca (due tomi tirati in 1500 esemplari e venduti a £ 9 ciascuno), delle Operette morali (1250 copie al prezzo di £ 3) e delle due Crestomazie (tirate ognuna in 2000 esemplari al prezzo di £ 5 ciascuno) lo Stella ricavò, infatti, oltre 50.000 lire austriache, forse addirittura 55.000 se vi si aggiunge la vendita del Martirio de’ Santi Padri e dei diversi estratti dallo “Spettatore Italiano” e dal “Nuovo Ricoglitore”, una cifra piuttosto considerevole per quei tempi. Ora, benché da tale somma si debbano detrarre le spese vive per la stampa (lo Stella non possedeva, come si è già ricordato, torchi propri) e per la pubblicità (fogli volanti, avvisi inseriti in altri giornali, manifesti affissi per la città) e benché si debbano suddividere i profitti in vari anni, bisogna ammettere che il Leopardi rappresentò per lo Stella un vero investimento: i 20 scudi mensili, equivalenti più o meno a 120 lire austriache, pagati al Leopardi furono ben spesi e risultarono addirittura redditizi perché portarono nelle casse dello Stella un guadagno pulito pari quasi al doppio dell’“emolumento” mensile dato a Giacomo.

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Ciò che realmente mancò in questo pur significativo e lungo rapporto con Milano fu l’immediato successo di critica: se, infatti, non si può negare un discreto successo di pubblico, visto il buono smercio delle opere leopardiane, poche in genere furono le recensioni sulle riviste milanesi - ma non solo - e troppo spesso inadeguate a illustrare la grandezza e la novità della produzione letteraria di Giacomo (unica eccezione il Montani, che però non era milanese e che, per giunta, scriveva sulla fiorentina “Antologia”).
Forse è necessario sottolineare ancora che negli anni 1816-1818 il Leopardi si era presentato al mondo pubblicistico milanese con scritti di stampo erudito e quindi piuttosto lontani nei temi e negli argomenti trattati dalla polemica classico-romantica che arroventava le pagine delle riviste e dei pamphlets apparsi in quel periodo (purtroppo gli scritti leopardiani inerenti a tale polemica furono tutti cestinati proprio a Milano e rimasero inediti). Anche più tardi, con gli articoli inseriti sulle pagine del “Nuovo Ricoglitore”, il Leopardi si era fatto di nuovo conoscere come un giovane di sicuro ingegno, ma rivolto soprattutto verso interessi filologici, linguistici ed eruditi o verso una poesia personale e nient’affatto civile come quella degli Idilli: in un periodo in cui Milano si stava riaprendo alle idee patriottiche dopo i lutti del 1821, un Leopardi apparentemente racchiuso nella sua intimità e nei suoi studi finiva per ricoprire un ruolo diverso e purtroppo secondario rispetto al cattolico e “liberale” Manzoni. Ecco spiegato il motivo per cui in una città moderna come Milano, rivolta al continuo miglioramento delle proprie condizioni socio-economiche, centro del movimento rivoluzionario nazionale, interessata allo sviluppo della tecnica e della scienza, indirizzata alle arti pratiche e a una cultura contrassegnata da un fondo civile e morale, la poesia leopardiana degli Idilli non poteva trovare lettori e critici attenti e capaci di comprenderne la forte carica innovativa. Ma è anche chiarito il motivo per cui, invece, al pubblico milanese piacquero in particolar modo le opere leopardiane che avevano un carattere più concreto e meno filosofico come l’interpretazione alle Rime del Petrarca e le due Crestomazie (però più quella della poesia che quella della prosa), mentre alle Operette morali venivano in genere riconosciuti soltanto indubbi pregi linguistici e stilistici: il pubblico, come la maggior parte della critica, dimostrava in tal modo di non cogliere che pure i lavori filologici-eruditi avevano una loro “praticità”, cioè quella di far conoscere i testi antichi e la classicità, e che anche le Operette morali avevano un risvolto ben preciso e, a suo modo, etico, quello di parlare, pur in maniera tormentosa e dolorosa, dell’uomo e della società moderna. Certo non si può neppure fare a meno di dire che a Milano mancò, soprattutto negli anni della seconda fase collaborativa, un recensore sensibile e culturamente preparato (come il Montani o il Giordani), tale cioè da cogliere gli aspetti più profondi del pensiero e della poetica leopardiana. Se pure nel 1826 Giuseppe Belloni, alias Giuseppe Compagnoni, nei versi della sua Anti-mitologia, risposta polemica al Sermone sulla mitologia di Vincenzo Monti, aveva definito il Leopardi “forte in alti pensieri” e capace di intonare inni “che sien gravi all’ammollito orecchio / della plebe vivente” e che sarebbero stati “fiamma / All’età che succede” (forse il Compagnoni era rimasto impressionato dall’incontro personale avuto con Giacomo durante il soggiorno milanese), alcune delle recensioni più significative - o dovrei dire meno scarse - apparse tra il 1826 e il 1827 furono stese da Francesco Ambrosoli, letterato allora piuttosto famoso a Milano, ma dotato di capacità critiche che definerei appena accettabili. L’Ambrosoli, “interessante esemplare del moderatismo lombardo”, che pure aveva conosciuto e frequentato il Leopardi durante l’estate del 1825, in realtà esprimeva più riserve che giudizi positivi, dimostrando quanto per il lettore “medio” fosse difficile comprendere l’opera leopardiana. E così il Martirio de’ Santi Padri veniva criticato sia per l’inutilità del genere (la falsificazione di una prosa trecentesca) sia sul piano più strettamente linguistico e stilistico:
Tuttavolta a noi non sembra che questi sperimenti siano da lodare; e quanto più ci par grande l’ingegno e la capacità di chi vi si adopra, tanto più vorremmo dolerci di questa nuova maniera che alcuni Italiani hanno presa di traviare dall’utilità. Perocché ai dì nostri non sarebbe lodato chi scrivesse nella lingua e nello stile di questo volgarizzamento; e la lingua non vi fa profitto perché non può arricchirsi né di una voce, né di un modo; e lo scrittore consuma in questa vana imitazione un tempo che forse gli basterebbe a qualche grande concetto; e la gioventù non può se non trovarsi nel rischio di credere del buon secolo anche que’ modi di altre età che lo scrittore v’introduce a malgrado di qualsivoglia diligenza.
Per non parlare poi della Crestomazia della prosa decisamente censurata proprio per la sua nuova e originale struttura, oltre che per le scelte letterarie operate (mancanza di testi tratti dagli scritti del Compagni, dei Villani, del Vasari, del Bianconi, del Lamberti, del Parini, del Perticari o delle Vite dei Santi Padri):
Tuttavolta noi crediamo che una Crestomazia non possa rappresentar veramente l’immagine di una letteratura, se non è disposta secondo l’ordine dei tempi, dal quale i leggitori conoscano le vicissitudini tutte di quella letteratura medesima [...]. Il Leopardi ha supplito in qualche maniera a questo evidente bisogno ponendo nell’indice degli scrittori il secolo al quale appartengono; ma l’utilità sarebbe, al parer nostro, molto più grande, se a misura che si procede nel libro si vedesse crescere e svilupparsi ne’ varj suoi rami il bell’albero di cui il libro medesimo ne imbandisce i frutti [...].
Noi siamo pertanto d’opinione che una Crestomazia dovrebbe dividersi per secoli; e ciascun secolo dovrebb’essere nuovamente diviso poi per materie [...]. Forse le materie si potevano e dividere e disporre altrimenti, cominciandosi, per esempio, da quella nella quale il libro finisce, vogliamo dire dagli ammaestramenti intorno allo scrivere italiano, e dalle dottrine sui varj generi della letteratura, de’ quali poi il libro doveva presentare gli esempi.
E se l’Ambrosoli giudicava con entusiasmo le capacità del Leopardi volgarizzatore, auspicando che continuasse la traduzione di Gemisto Pletone, delle Operette morali sapeva cogliere solo la “purezza” e la “bellezza” dello stile, dal momento che gli argomenti trattati erano in genere criticati o per mancanza di novità o per eccesso di pensiero negativo:
Il libro comincia da una Storia del genere umano che al parer nostro non è bellissima, perché poca novità vi è nei concetti, pochissima nel modo di rappresentarli, e lo stile ne par che un po’ troppo [...]. Anche il dialogo della terra e della Luna ne sembra una picciola cosa e, quasi vorremmo dire, mal degna del Leopardi: e finalmente i detti memorabili di Filippo Ottonieri potevano, senza scapito alcuno, ridursi ad una terza parte di quel che sono [...]. Il dialogo intitolato il Parini è in molte parti stupendo e degno di quel severo interlocutore: il dialogo di Timandro ed Eleandro, e quello di Torquato Tasso e del suo Genio familiare sono tutti di una grande bellezza; se non che qui più forse che altrove s’incontrano alcune di quelle opinioni e sentenze per le quali a noi pare che certi libri contengano spesso inutilmente molte belle e utili cose. In generale il Leopardi preferisce la solitudine alla società, e siccome capace dell’eccellenza, quasi si accosta a coloro che fastidiscono anche il buono, come se tutto fosse cattivo quello che eccellente non è.
Non c’è quindi da stupirsi se l’Ambrosoli nel suo Manuale della Letteratura italiana, pubblicato a Milano tra il 1831 e il 1833 (per Antonio Fontana), decidesse di non occuparsi affatto del Leopardi, benché asserisse di aver diviso l’opera “per secoli da Federigo II fino alla nostra età” e benché con dovizia di particolari tra i contemporanei trattasse sia del Monti sia del Foscolo (unica consolazione è che pure il Manzoni veniva passato sotto totale silenzio). E non c’è neppure da stupirsi se sempre nel 1831 Ambrogio Levati (1790-1841), professore di estetica e di filologia latina, nel suo Saggio sulla storia della letteratura italiana nei primi 25 anni del sec. XIX (Ant. Fort. Stella e Figli, Milano) citasse il nome del Leopardi solo a proposito delle traduzioni della Titanomachia di Esiodo e degli Idilli di Mosco, quando all’altezza del 1825 erano già apparsi sia il volume delle dieci Canzoni sia i primi Idilli (del resto già alcuni anni prima, nel 1822, nell’anonimo Florilegio poetico moderno ossia Scelta di sessanta autori viventi, edito sempre a Milano dalla Società Tip. de’ Classici Italiani, il Leopardi era ricordato solo per la sua traduzione della Guerra dei topi e delle rane). E tanto meno ci si deve meravigliare se anche in un’altra Storia della letteratura italiana, quella curata dal trentino Giuseppe Maffei (1775-1858) e stampata proprio a Milano dalla Società Tip. de’ Classici Italiani nel 1834, il Leopardi non era affatto nominato, per quanto l’autore l’avesse “arricchita” della storia dei primi trentadue anni del secolo XIX: se è pur vero che il Maffei nell’Avvertimento dichiarava di essere stato sollecito soprattutto nel “noverar le glorie degl’Italiani che non sono più”, è anche vero che, almeno in nota, venivano inseriti i nomi del Manzoni - di cui erano ricordati Il Cinque Maggio, gli Inni Sacri, le due tragedie, l’ode In morte di Carlo Imbonati, il poemetto Urania e tre versi dell’idillio Adda -, di Carlo Botta, di Tommaso Grossi e di Ermes Visconti. Solo nel compendio fatto dal padre gesuita Ignazio Cutrona nel 1858, veniva finalmente inserito il nome del Leopardi, per quanto gli fossero dedicate solo poche righe:
Mancati all’Italia i suoi ultimi poeti, il Monti, il Foscolo, il Pindemonte, non temiamo di avanzare essere rimasto alla testa di quanti altri ve n’abbia il Leopardi. Le sue prose del genere di Luciano scritte con gravità, non spoglie di grazia e di gentilezza, abbondano di belle massime e di morale filosofia. La più scelta erudizione antica e moderna le rende vaghe oltre ogni credere ed amene. I suoi Canti poi, che veramente si appartengono al più nobile genere della lirica, racchiudono sempre uno scopo di morale filosofia che sforza e riscalda le menti più fredde.
Tutto questo, comunque, non significò che non fossero presenti anche voci e recensioni che valutarono positivamente il lavoro leopardiano. Con particolare entusiasmo venne salutata l’interpretazione alle Rime del Petrarca, tanto che ne vennero fatte ristampe e compendi: venne smerciata in tutta Italia (a Roma, come scriveva lo stesso Giacomo, era adottata “da quei privati che danno lezioni di lingua e letteratura italiana ai tanti Inglesi ec. che passano colà l’inverno” ) e persino all’estero grazie soprattutto a quelle sue “noterelle così succinte” che facevano “spesse volte sembrar noiose le erudite prolissità di molti altri”. In generale tutte le recensioni mettevano in risalto l’abilità con cui il Leopardi aveva saputo coniugare chiarezza esplicativa e concisione espressiva: Franco Splitz - alias Vincenzo Lancetti (1767-1851) - parlava di “annotazioni chiarissime, spiccie, e ad uso di conversazione” e l’anonimo articolista del “Nuovo Ricoglitore” addirittura sosteneva che nessuno aveva fatto meglio del Leopardi, il quale era stato capace di “tradur le parole e le frasi del Poeta per mezzo di altre parole e di altre frasi non solo eleganti, ma eziandio adattate all’intelligenza di tutti” ed era riuscito a lasciare “intatto il carattere poetico” delle composizioni petrarchesche “con pochi e vibrati cenni” tanto da aver spiegato “le antiche frasi colle moderne e le difficili con le facili”. E persino l’Ambrosoli, che era tanto critico nei confronti delle altre opere leopardiane, nel volume da lui curato dei Sonetti di ogni secolo della nostra letteratura (presso la Libreria Branca e Dupuy, Milano 1834), più volte utilizzava proprio l’interpretazione leopardiana come commento ad alcuni sonetti del Petrarca (precisamente il CLIX, il CCCXI, il CCCXLVI e il CCCLIII).
Comunque anche le Operette morali riuscivano a strappare qualche consenso: se persino il Tommaseo, nella rubrica da lui curata sulle pagine del “Nuovo Ricoglitore” intorno alle pubblicazioni della fiorentina “Antologia”, accennando ai dialoghi leopardiani, parlava di “arguzia e sentimento profondo sotto leggerezza affettata” e di una stile “più raro dell’eleganza, e senza cui l’eleganza stessa è barbarie”, un anonimo recensore, sempre sulle pagine del rivista stelliana, con toni appassionati, quasi al limite dell’enfasi, faceva riferimento alla particolarità dell’opera che, per quanto intrisa di “disperazione”, risultava intensa, originale e davvero innovativa rispetto a quanto offerto dal panorama letterario italiano:
Le Operette morali del Leopardi [...] s’assomigliano ad una virtuosa, bella e spiritosa donna, che i cicisbei non decantano per essere inaccessibile e troppo superiore ad essi. Io non trovo altro da disapprovare in questo libro, se non che un certo atticismo, talvolta troppo fino, che non è per tutti [...]. Del resto io domando all’Italia che mi mostri, omessi i libri scientifici, in tutta la letteratura italiana del nostro secolo un libro più originale, più degno del secolo susseguente al decimottavo. Le domando, se non trova ad ogni pagine una di quelle verità di cui si ha nell’animo proprio la coscienza. Le domando se queste verità non sono sparse di tanto sale e di tanta vita, quanta basterebbe ad animare tutti gl’insulsi libri che la moda decanta. - Ma il Leopardi vede tutto nero! - Segno evidente che vede giusto; e mirando anche agli effetti, domando per ultimo se quella disperazione stessa del bene, che domina in ogni sua pagina, non vale a rafforzar l’animo contro i mali.
Il Leopa
Idilli e volgarizzamenti di alcuni versi morali dal greco