Un deficit di concretezza

Non è più di moda il pulp e scarso interesse suscita lo stato di salute della fiction italiana. Cresce l’attenzione del giornalismo culturale verso l’editoria e il percorso editoriale. E soprattutto aumenta la discussione intorno alla mancanza, negli intellettuali d’oggi, dell’impegno civile e politico: tema peraltro non inedito, ma quest’anno rivolto al confronto con il passato (sufficienti ed emblematici tutti gli articoli su Sciascia e Guareschi) e affrontato in maniera poco concreta e persino troppo enfatica da non riuscire a catturare la curiosità del pubblico. Ma il dibattito più fitto dell’anno rimane ancora la questione della collaborazione di Ignazio Silone con la polizia politica fascista.

Il ragionamento sui dibattiti di quest’anno prende in considerazione gli interventi pubblicati dal luglio 1999 al giugno 2000 su quattro quotidiani («il Giornale», «Corriere della sera», «la Repubblica», «l’Unità»), tre supplementi culturali («Alias» del «Manifesto», «Domenica» del «Sole 24 Ore», «Tuttolibri» della «Stampa»), un settimanale («L’Espresso») e un mensile («L’Indice dei libri del mese»). Come sempre, il corpus si potrebbe modellare diversamente: inserendo giornali di area cattolica (l’«Avvenire» e «L’Osservatore romano»), se si intendesse privilegiare una prospettiva ideologica, o grandi quotidiani del centro-sud («il Messaggero» di Roma e «il Mattino» di Napoli), volendo valorizzare invece una dimensione geografica. Ma ci sarebbero anche i quotidiani a distribuzione non nazionale, dal «Piccolo» di Trieste all’«Unione sarda» di Cagliari, senza dimenticare i supplementi culturali locali (come «Stilos» di «La Sicilia» di Catania).
Ciò nonostante, l’insieme dei giornali considerati è sufficientemente rappresentativo sia per la varietà di orientamento politico e culturale, sia per la loro notorietà e diffusione: comprende infatti i due quotidiani più venduti in Italia, il principale giornale dell’opposizione e i supplementi più ·autorevoli, per un totale di oltre duecento articoli censiti. Anche quest’anno i temi esaminati riguardano la «vita letteraria» nei suoi molteplici aspetti, testuali e pragmatici: i libri e gli scrittori di cui si è più discusso, le riflessioni sulla critica e la tradizione letteraria, sull’universo dei lettori, sul mondo dell’editoria e della comunicazione culturale, le prese di posizione sulla funzione dell’intellettuale nella società d’oggi. Si potrebbe insomma dire – gramscianamente – che questa rubrica si occupa dei ragionamenti intorno agli intellettuali e all’organizzazione della cultura, con un occhio di riguardo per la letteratura.
Le discussioni sulla vita letteraria, naturalmente, si inseriscono in un affollato contesto di dibattiti: i disagi della scuola e le prospettive di riforma; vari argomenti tra storia e attualità politica (il dossier Mitrokhin, il processo Irving-Lipstad con le dichiarazioni di Hobsbawn e altri episodi di riletture «revisionistiche» della storia del Novecento), lo «strappo» del Pci di Berlinguer dall’Urss, la «confessione» di Bobbio sulla sua giovanile adesione al Fascismo, il ricco confronto sul libro di Angelo d’Orsi, La cultura a Torino tra le due guerre (Einaudi), uno dei più equilibrati e interessanti dell’anno. Si è discusso anche di cinema: il processo a Totò che visse due volte, ma anche la polemica fra registi e critici cinematografici. Poi il dibattito sul Sud e sull’identità meridionale ospitato dall’«Unità», quello sui giovani (autorevoli gli interventi, a partire dall’articolo di Citati su «Repubblica»: Scalfari, Arbasino, Furio Colombo). E ancora, i confronti legati a episodi di costume politico e sociale individuali e collettivi, la querela di D’Alema a Forattini e la risentita censura di Berlusconi a Zoff, la lunga kermesse massmediatica del «gay pride».

Di che cosa si discute?
Rispetto allo scorso anno il quadro è un po’ diverso, a partire dalla scomparsa di uno dei leitmotiv delle polemiche letterarie. Il pulp non è più di moda, e nessuna nuova tendenza della narrativa nostrana lo ha sostituito alla ribalta. Prendendo spunto da C’era una volta il pulp di Fulvio Pezzarossa (Clueb), l’«inchiesta» di Andrea Giardina («il Giornale», 3 febbraio 2000) si intitola eloquentemente Il tramonto dei cannibali. Più in generale il cattivo stato di salute della fiction italiana, tanto discusso nel 1998-1999, sembra sollecitare ora soltanto poche constatazioni sconfortate senza eco. «Mai come negli ultimi tempi la narrativa italiana ha suscitato così poco interesse», esordisce Stefano Giovanardi sull’«Espresso» (4 maggio 2000) in un box interno a un servizio di Mirella Serri. Il suo Scrittori di penna montata (occhiello: Polemiche: la stagione nera del romanzo italiano) muove da un’intervista ad Alberto Asor Rosa che lamenta la mancanza di scrittori contemporanei di talento, ma la provocazione non ha seguito. Del resto anche il bilancio ragionato sulla narrativa italiana dell’ultimo anno di Ermanno Paccagnini (Naufragi senza stile, «Il Sole 24 Ore», 4 luglio 1999) racconta la sempre più frequente sensazione di «scoramento» che colpisce il recensore.
Un’occasione perduta d’approfondimento è invece il dibattito suscitato da un intervento di Eugenio Scalfari sul giallo («L’Espresso», 30 settembre 1999), proseguito su Alice.it con le repliche di una serie di lettori e scrittori di genere (particolarmente convincente l’opinione di Danila Comastri Montanari). La contrapposizione un po’ forzata fra una parte (il giallo) e il tutto (la narrativa occidentale da Rabelais a Calvino) esprime bene il giudizio negativo di Scalfari sulla produzione contemporanea dominata da un genere popolare, ma non aiuta ad approfondire ragioni e dinamiche di un fatto nuovo per la nostra tradizione romanzesca come l’affermazione dei moduli di genere.
Conferma la frammentarietà dell’interesse per la letteratura la presenza di pochi mini-dibattiti occasionali: un piccolo confronto tutto interno al «Corriere della sera» sul rapporto fra scrittori e guerra (fra giugno e luglio 1999 intervengono Pressburger, Raboni, Magris, La Capria); il Manifesto contro la definizione «scrittori napoletani» firmato da Fabrizia Ramondino sull’«Indice dei libri del mese» (settembre 1999) , che produce solo le risposte di Gramigna («Corriere della sera», 7 settembre 1999) e Siciliano («la Repubblica», 16 settembre 1999) . Non riesce a decollare neppure il tema proposto da Franco Brevini sul «Corriere della sera» (23 luglio 1999). Le sue considerazioni sulla nuova attenzione per la modernità e la realtà urbana nella scrittura romanzesca dei trenta-quarantenni (spunto iniziale City di Baricco) vengono riprese solo da Giovanni Pacchiano («Corriere della sera», 25 luglio 1999) che, almeno in parte, sembra fraintendere le idee dell’interlocutore. Certo, la città conta qualcosa nel Giorno di Parini, nell’epistolario di Foscolo, in Per le vie di Verga, ma l’antipatia della nostra letteratura per il mondo del lavoro e della fabbrica, per il paesaggio e l’immaginario urbano, rimane indiscutibile.
Un po’ più nutrita, invece, è la discussione aperta da Mauro Covacich (sempre sul «Corriere della sera», 5 marzo 2000): L’inconscio ucciso dalla narrativa parla di una tendenza del romanzo non solo italiano d’oggi, la raffigurazione «di superficie» della psicologia. Ancora una volta, lo sviluppo del dibattito tende ad allontanarsi dal tema principale, e cioè l’ipotesi di un mutamento delle tecniche di scrittura come effetto di una trasformazione della percezione di sé e degli altri. Scrive Covacich: «i sentimenti non si possono più toccare, si possono solo mostrare» (5 marzo 2000); «la realtà in cui ciabatto allegramente da qualche anno mi appare bidimensionale» (22 marzo 2000). Raboni (10 marzo 2000) non entra nel merito e preferisce tirargli le orecchie perché non ha citato il nouveau roman, mentre Barilli (13 marzo 2000) si preoccupa di arruolarlo nel «fronte d’avanguardia». Se davvero la narrativa contemporanea privilegi una rappresentazione della psicologia come flusso oggettivato di percezioni, sentimenti e riflessioni, rispetto all’analisi e al dibattito interiore tradizionali, resta un interrogativo in sospeso, nonostante le precisazioni di Modeo (20 marzo 2000) e quelle un po’ divaganti di Mozzi.
Poca letteratura, pochissima critica letteraria. Solo due, in sostanza, le occasioni di dialogo, collegate a eventi specifici: il convegno di Lucca Costellazioni italiane. 1945- 1999 libri e autori del secondo Novecento e la pubblicazione del Dizionario delle opere edito da Einaudi. Prevale in entrambi i casi il solito gioco del «chi manca?». Del resto, fra i tormentoni evergreen ritorna la preoccupazione espressa stavolta da Saverio Vertone per l’inarrestabile inquinamento dell’italiano, per il rischio di una deturpazione definitiva della nostra «bella lingua», attribuita soprattutto all’inarrestabile invadenza dell’inglese. Che a tracciare il quadro sconsolato della situazione sia Vincenzo Consolo («l’italiano è diventato un’orrenda lingua, un balbettio invaso dai linguaggi mediatici che non esprime altro che merce e consumo», «Corriere della sera», 6 giugno 2000), non stupisce, viste le sue note posizioni antimoderniste. A fare invece le osservazioni più equilibrate e consapevoli degli indispensabili movimenti di interazione fra le lingue è proprio Giovanni Nencioni, a lungo presidente dell’Accademia della Crusca. Del resto, l’associazione promossa da Saverio Vertone si chiama «La bella lingua»; ma forse una lingua parlata, prima che bella, ha da essere funzionale.
Cresce l’attenzione del giornalismo culturale verso l’editoria. I dibattiti di quest’anno sul mondo del libro toccano questioni legate a diversi elementi costitutivi del percorso editoriale: il testo e il paratesto, l’autore, la collana, l’editore, la promozione.
A marzo si discute di Gramsci, della scarsa reperibilità in Italia delle sue opere più famose a fronte del moltiplicarsi delle traduzioni (fresca di stampa quella messicana). Sulle pagine dell’ «Unità» (10 marzo 2000) Ernesto Franco risponde all’appello firmato da decine di studiosi internazionali che pongono la questione, e Guido Liguori (il giorno dopo) puntualizza con garbo le affermazione del direttore editoriale dell’Einaudi, descrivendo con chiarezza lo stato effettivo delle disponibilità di Gramsci in libreria. Come non di rado capita in terze pagine e supplementi, quando un argomento acquista visibilità su una testata, viene più facilmente ripreso a breve scadenza, nella medesima o in altra sede. È il caso di Gramsci: sul «Corriere della sera», il primo di aprile, Cesare Medail riprende la notizia data dall’«Unità» delle dimissioni di Renato Zangheri dalla presidenza della commissione scientifica della nuova edizione delle opere. È l’occasione per avviare una riflessione sui criteri, cronologico o tematico, da adottare per la futura edizione critica dei Quaderni. Duro invece il confronto che ha opposto Les Belles Lettres e Mondadori, a proposito dell’edizione dei Dialoghi filosofici italiani di Giordano Bruno curata da Michele Ciliberto, accusato di aver utilizzato senza dichiararlo in modo palese la lezione approntata da Giovanni Aquilecchia per l’editore francese («Corriere della sera», 13, 14 e 18 maggio 2000).
Il caso della Lettera ai romani è quello di una insolita polemica tutta relativa agli apparati paratestuali. Il curatore del volume einaudiano, Paolo De Benedetti, dissente infatti con vigore dai contenuti dell’introduzione, firmata da Sebastiano Vassalli, il quale ribadisce pubblicamente la sua posizione («la Repubblica», 16 e 17 febbraio 2000). Più in generale, la polemica mette in luce una tendenza significativa che meriterebbe qualche riflessione, la pubblicazione di testi biblici con nuovi apparati da parte di editori laici (Feltrinelli e Adelphi, Einaudi e Mondadori).
Il dibattito che si sviluppa all’inizio di settembre sul solito «Corriere della sera» riguarda invece la proposta avanzata da Raboni di dare vita a un consorzio inter-editoriale incaricato di pubblicare una grande collana di classici italiani del Novecento, subito appoggiata da Massimo Bray, direttore editoriale della Treccani. Alla discussione partecipano Walter Pedullà e Franco Brevini, ma le osservazioni più convincenti sono quelle di Renata Colorni («Corriere della sera», 7 settembre), direttore dell’editoria letteraria Mondadori, e quindi della collana di classici italiani di ogni tempo di gran lunga più dinamica, i «Meridiani», nella quale i titoli novecenteschi sono quaranta.
Pur avendo messo in dubbio le potenzialità promozionali della formula torinese, le polemiche che hanno accompagnato la XII edizione della Fiera del libro confermano in definitiva l’efficacia dell’appuntamento. È stata quasi una rappresentazione in tre tempi, registrata fedelmente dalla stampa. Atto primo: prologo. 28 febbraio, Marcello Dell’Utri presenta la XI Mostra del libro antico e propone un grande salone del libro e dell’editoria a Milano, con il pieno accordo di Giuseppe Zola. Il presidente dell’Ente Fiera dichiara infatti: «Milano potrebbe ospitare una Fiera del libro, dato che è la capitale dell’editoria. Lì dove si fabbricano le automobili, si mettano in mostra le macchine» («il Giornale», 29 febbraio 2000). Ernesto Perrero, direttore della Fiera di Torino, prende le difese della «più grande libreria d’Italia», che dà ai lettori «la possibilità di scoprire la produzione degli editori medio-piccoli, piccoli e minimi» («il Giornale», l marzo 2000). Dell’Utri interviene nella stessa sede e precisa l’idea: pensa a «una grande Fiera di interesse internazionale che abbracci le nuove forme di editoria su Internet e di e-book in contemporanea con l’attuale Mostra del libro antico»; «L’intenzione non era quella di scatenare i campanilismi» ma di «differenziare gli sforzi» (5 marzo). In realtà, sembrerebbe essersi già costituito un gruppo di lavoro che riflette sul futuro dell’editoria a Milano: lo dichiara sul «Corriere della sera» del primo marzo Maurizio Costa, amministratore delegato della Mondadori e presidente del settore Editoria e comunicazione di Assolombarda. Atto secondo: il dramma. Mancano dieci giorni all’inaugurazione della Fiera torinese. Il direttore generale della divisione libri Mondadori Gian Arturo Ferrari comunica la decisione «sofferta e meditata» di disertare l’appuntamento: «non c’è rapporto tra i costi che si devono sostenere e i benefici, non solo economici ma anche promozionali», e inoltre la manifestazione «non è riuscita a trovare una formula [ .. . ] tale da imporla come l’evento nazionale sul libro» («Corriere della sera», 3 maggio 2000). Naturalmente, i torinesi contrattaccano, e sottolineano il ritorno di Laterza, Zanichelli, Donzelli, Loescher, Fazi. Atto terzo: la riconciliazione. A sorpresa, Ferrari varca i cancelli del Lingotto e partecipa a un dibattito con Perrero e tanti editori grandi e piccoli. Un accordo provvisorio è raggiunto, l’istituzione di una segreteria permanente di coordinamento che permetta agli editori di avere «Un ruolo importante nella preparazione della Fiera» e consenta di dar vita a un progetto «che per tutto l’anno promuova il libro, la lettura» come dice Perrero («la Repubblica» e «Corriere della sera», 15 maggio 2000). Dal punto di vista di Mondadori, la visibilità è assicurata con una notevole ricaduta di stampa; l’ipotesi di un’iniziativa milanese insieme complementare e antagonista a quella di Torino è stata avanzata pubblicamente; il ritorno sotto la Mole avverrà con una maggiore possibilità di intervento organizzativo. Per la Fiera, d’altronde, l’assenza della Mondadori sembrerebbe aver favorito le altre case editrici in termini di venduto. Ma ha anche – una volta tanto – compattato il fronte frastagliato degli editori presenti.

Nostalgie dell’impegno?
Gli intellettuali italiani contemporanei non se la passano bene: questa l’opinione quasi unanime degli scrittori, artisti e critici nel dibattito ospitato da febbraio ad aprile soprattutto sulle pagine del «Corriere della sera» (fra gli altri Arbasino, Fo, Mariotti, Modeo, Treccani, Baj, Di Stefano) . Tutti d’accordo, nonostante le differenze di età e di fisionomia culturale: manca negli intellettuali d’oggi l’impegno civile e politico, è scarsa la tensione, è bassa la vivacità della vita culturale. Il tema non è inedito, anzi, né sorprende la connotazione negativa degli interventi; basti ricordare il dibattito sulla crisi degli intellettuali di sinistra aperto l’estate scorsa da Giulio Ferroni (Contro gli intellettuali, «l’Unità», 27 giugno 1998). Come ogni tema che si ripresenta puntuale, serve comunque per mettere a fuoco alcuni caratteri del «senso comune culturale da terza pagina», quel complesso di idee, schemi di ragionamento, propensioni emotive e atteggiamenti intellettuali che emergono con evidenza particolare dai giornali.
Le riflessioni di quest’anno sugli intellettuali contemporanei sono quasi sempre costruite sul confronto con il passato. Ed è proprio il passato ad attirare le principali attenzioni, come confermano i frequenti ricordi autobiografici che affiorano negli articoli. Il dibattito sembrerebbe svilupparsi per lo più sul piano della valutazione, positiva o negativa, di ciò che è stato, non senza giudizi sommari: «Franco Fortini era un vero e proprio campione olimpionico dell’aria fritta», sentenzia Vassalli sul «Corriere della sera» (28 marzo 2000). Lo sguardo sul presente resta in superficie: non c’è interesse per una effettiva ricognizione sul campo e si rinuncia anche a uno sforzo di analisi concettuale. Cosa s’intende oggi per intellettuale? Esiste, e come funziona, un’intellettualità di massa? Quante forme di militanza comprende il termine «impegno»?
Numerosi interventi danno per scontata la sostanziale assenza di una vita intellettuale significativa, anche se forse la realtà è più ricca e sfaccettata di quanto sembri a guardarla da lontano: «Se i “maestri” illustri hanno gettato la spugna, altri, non noti, non da vetrina, lavorano con pazienza, attenzione, rigore. Con coerenza e dignità, soprattutto. Nelle università e nelle accademie, nelle scuole elementari e nei centri sociali. Una nuova cultura, un nuovo impegno sommerso, poco appariscente, ma serio» (Dario Fo, «Corriere della sera», 5 febbraio 2000). Come dice Vittorio Giacopini, «Basterebbe guardarsi in giro con un po’ di curiosità. Iniziative, riviste, tentativi, esistono, eccome» («Corriere della sera», 2 aprile 2000).
La tematica dell’impegno torna in qualche modo nella serie di nomi di cui si è più discusso. Che cos’hanno in comune Silone, Sciascia, Guareschi, Pasolini, Sartre? Anzitutto, una fisionomia culturale molto distante da quella del Letterato con la maiuscola, cultore dello specifico estetico. Nella loro evidente diversità, sono scrittori «impuri» e militanti, impegnati in un imprescindibile corpo a corpo con il reale, inclini a provarsi in una pluralità di generi espressivi non solo letterari (giornalismo, pamphlettistica, saggismo, grafica, cinema, teatro). Tutti hanno una biografia «importante», caratterizzata da una partecipazione di primo piano alla vita pubblica. Emblematici i casi, opposti e complementari, di Sciascia e Guareschi. In occasione del decennale della morte dello scrittore siciliano (il Leonardo Sciascia Web censisce circa quaranta articoli commemorativi) viene espresso più di un parere fortemente limitativo. Per Raboni la scrittura di Sciascia sarebbe essenzialmente «ideologica», sempre «a tesi»: «la tanta decantata limpidità “illuministica” del suo stile narrativo, la tanta vantata trasparenza della sua prosa, a me sono sempre sembrati secchezza, aridità, pedanteria, mancanza di spessore fantastico» («Corriere della sera», 20 novembre 1999). Non diversamente, per Angelo Gugliemi «Sciascia era un uomo di grande forza intellettuale», che però «non riusciva a trovare modi espressivi originali, finendo per ritirarsi in forme imitative di grandezza» («L’Espresso», 6 gennaio 2000).
Se nel caso di Sciascia un autore consacrato dagli studi è stato oggetto di un disinvolto tentativo di ridimensionamento critico, i fan dello scrittore popolare Guareschi hanno voluto vedere nel convegno promosso dalla Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori a Milano una consacrazione letteraria del tutto impropria. Guido Conti è arrivato a fare di Guareschi il punto d’approdo «della grande tradizione italiana del racconto ciclico popolare che ha la sua radice nel Piovano Adotto e nella tradizione dei fioretti di San Francesco, o del Calandrino di Boccaccio» («Corriere della sera», 4 aprile 2000). Al contrario Raboni lo definisce autore di «libri tanto furbi quanto dozzinali», infarciti di stereotipi («Corriere della sera», 27 marzo 2000). In effetti, la scrittura di Guareschi ha una sua evidente originalità, da ricondurre però al mondo della scrittura popolare, a un livello appropriato del sistema letterario, quello del resto in cui il suo autore intendeva collocarla. Troppe volte le dinamiche del dibattito giornalistico prediligono le posizioni estreme, la ricerca dell’effetto, a scapito della fedeltà all’oggetto in discussione, con tutte le sue pieghe contraddittorie.

Le forme della comunicazione
Al contrario di quel che si potrebbe credere vedendo le prime pagine del «Giornale», programmaticamente tendenziose e provocatorie, l’Album della cultura del quotidiano rivela un’indole piuttosto pacata e didascalica. Ancora una volta è il «Corriere della sera» a confermarsi testata leader nel settore dibattiti: le parole chiave discussione e polemica occhieggiano di frequente in grassetto nei titoli delle sue pagine culturali. I temi di rado sono ripresi da altre sedi, più spesso sono proposti dallo stesso «Corriere», che per sollecitare il contraddittorio usa anche la formula dell’accostamento di due pareri opposti sul medesimo argomento: il 15 marzo 2000 Sebastiano Vassalli sostiene che La vita è bella senza computer, mentre di fianco Tiziano Scarpa ribatte Ma chi va in fretta è più vicino a Dio. Alcuni dibattiti del «Corriere della sera» sono stati lanciati anche in rete sul sito on-line del giornale e, fatto nuovo, il quotidiano ha pubblicato i pareri più significativi: Cari intellettuali, c’è post@ per voi è il titolo del pezzo con cui Cinzia Fiori racconta le opinioni degli «internauti» sulla mancanza di impegno politico e tensione culturale degli intellettuali.
Anche quest’anno i dibattiti non sono decollati dalle rubriche deputate all’intervento polemico: i corsivi sono numerosi, ma non sempre colpiscono nel segno per felicità di stile e acutezza di sguardo. Sfogliando i giornali ci si accorge di una cospicua presenza di recensioni, a differenza di quanto si sente dire da un po’ di tempo a questa parte. Certo, le pagine culturali dei quotidiani hanno ristretto lo spazio per l’articolo dedicato a un libro, a favore di interviste, rassegne a tema e inchieste confezionate spesso in fretta al telefono, ma i supplementi sono in realtà per gran parte magazzini di recensioni.
n dibattito di gran lunga più fitto dell’anno, anzi degli ultimi due anni, è quello dedicato alla collaborazione di Ignazio Silone con la polizia politica fascista. Per la sua ampiezza e per come si è sviluppato, bene si presta a qualche ultima considerazione più generale sulle modalità della comunicazione culturale su quotidiani e settimanali. Si tratta di un argomento molto particolare, a due facce: pur essendo un tema decisamente specialistico, ha però una straordinaria forza di risonanza. La collaborazione con i servizi segreti del duce, di uno scrittore notissimo, autore di opere di spiccata tensione morale e ideale, è una questione che non può certo lasciare indifferenti. Ma per formulare un giudizio attendibile occorre un’approfondita e dettagliata analisi dei documenti portati alla luce dagli storici, accompagnata dal possesso di competenze specifiche relative alla storia della polizia politica fascista (un terreno ben poco dissodato dalla ricerca) e dell’opposizione antifascista. Da qui la grande quantità di interventi giornalistici un po’ approssimativi, in cui prevale un’idea indipendente dall’analisi concreta: fidando nel suo istinto («io non ho grande fiducia nei documenti, ne ho molta di più nel mio istinto»,
«Corriere della sera», 5 aprile 2000), Indro Montanelli non crederebbe nella colpevolezza di Silone neanche se lo scrittore tornasse reo confesso dall’oltretomba. Un argomento come questo richiederebbe dunque attenzione, cautela e pacatezza di toni. Purtroppo non sempre è stato così, sia nell’impostazione scelta per il loro lavoro dagli storici che hanno avviato il caso, Dario Biocca e Mauro Canali, sia nel trattamento riservato dai giornali alla «notizia». Se Biocca e Canali hanno proceduto pubblicando la ricerca «a puntate», quasi fosse un serial storiografico di genere giudiziario, argomentando in modo troppo assertivo, la stampa ha spesso usato toni gridati. Come capita non di rado. Eloquenti alcuni titoli: Silone. La spia che venne da Fontamara (Dario Fertilio, «Corriere della sera», 25 gennaio 1999), Silone, i segreti di Giuda (Adriano Sofri, «la Repubblica», 15 aprile 2000).
Oltre a questa tendenza all’enfasi, l’altro tratto spesso caratterizzante degli stili di ragionamento predominanti sulle pagine culturali è quella che si potrebbe definire una scarsa familiarità e simpatia per il concreto. Nella discussione sui meccanismi della vita culturale contemporanea sembrano quasi mancava la curiosità e la passione per le cose, come l’attenzione puntuale alla fisionomia dei testi di cui si parla e con cui si polemizza. E viene subito in mente una delle vocazioni essenziali del grande giornalismo, quella di riuscire a mordere davvero la realtà.