Gli insegnanti, i libri e i computer

I dati sulla lettura in Italia dell’ultimo anno sembrano piuttosto preoccupanti. Per la prima volta da decenni si segnala, infatti, un calo della percentuale di “lettori di almeno un libro nell’ultimo anno”. Nelle case degli italiani è presente una vera abbondanza di strumenti di comunicazione di cui però non più di una metà dei possessori sa fare uso consapevole. E gli studenti frequentano poco o non frequentano affatto le biblioteche. Eppure non manca qualche elemento incoraggiante: gli insegnanti si segnalano più forti consumatori di libri non solo della media degli italiani ma anche degli altri laureati e frequentatori sempre più assidui della rete.
 
Da alcuni anni su queste pagine abbiamo interpretato le diverse indagini sulla lettura che man mano venivano pubblicate in Italia insistendo su un punto: che il fenomeno abbia a che fare con variabili strutturali (demografiche e culturali) e che un ruolo primario nel determinare i livelli di lettura lo giochi la scuola. Ne derivava un elemento di ottimismo: poiché la quantità di istruzione degli italiani più giovani era superiore a quella dei più anziani, l’avvicendamento generazionale avrebbe comportato una lenta ma inesorabile crescita dei tassi di lettura anche nel nostro paese, cosa che puntualmente andava verificandosi da decenni. Ma sorgeva anche un elemento di preoccupazione: siamo sicuri, infatti, che la qualità della scuola italiana sia tale da far sì che i risultati conseguiti non siano effimeri e sappiano invece resistere alle insidie di una società mutevole che non sembra mettere il libro al centro dei suoi interessi?
I dati pubblicati nel corso dell’ultimo anno sembrano confermare più la preoccupazione che l’ottimismo, ma d’altro canto confermano gli elementi strutturali dei consumi culturali e soprattutto forniscono alcuni strumenti preziosi di approfondimento per comprendere meglio quanto accade nelle scuole italiane sotto questo profilo. Ma procediamo con ordine: gli elementi di preoccupazione derivano dagli ultimi dati Istat sulla lettura che per la prima volta da decenni segnalano un calo della percentuale di «lettori di almeno un libro nell’ultimo anno»: dal 41,9% del 1998 al 38,3% del 1999. Il dato sembra essere il prodotto di un calo generalizzato della lettura tra le diverse classi di età e tra i due sessi, e sarebbe confermato da parallele rilevazioni focalizzate su singoli segmenti di mercato quali la Doxa Junior sulla lettura infantile. E azzardato fornire un’interpretazione organica del fenomeno al momento del suo primo manifestarsi, ma certamente qualche spunto di riflessione si può proporre, da un lato considerando la crescente articolazione dei consumi culturali e (forse soprattutto) dell’uso del tempo libero degli italiani che comprime i consumi librari, dall’altro riconoscendo l’importanza del ruolo propositivo dell’offerta editoriale nell’evoluzione dei comportamenti della domanda. L’acquisizione di lettori occasionali e marginali che è consentita dal lento aumento dei tassi di scolarità italiani non può essere considerata dalle imprese editoriali come un dato certo sul quale adagiarsi. Sono infatti necessarie idonee innovazioni di prodotto in grado di accompagnare i nuovi e occasionali lettori verso comportamenti più abitudinari e definitivamente acquisiti. Questa capacità è stata evidente a metà degli anni Novanta, quando le innovazioni nel formato (il supereconomico), i titoli di grande appeal per i lettori occasionali (dalla Tamaro al fenomeno Ramses) si sono accompagnati a più differenziate strategie di distribuzione (innovazioni nelle librerie, grande distribuzione, punti di vendita despecializzati). Analoghe capacità innovative il sistema delle imprese dovrà mettere in campo per evitare che la lettura diventi in futuro sempre più marginale nel panorama dei consumi culturali e nell’uso del tempo libero (cfr. AIE Progetto Mastermedia, Rapporto 2001 sull’editoria libraria in Italia, www.mm2000.it).
Venendo al secondo punto, la conferma degli elementi di struttura dei consumi culturali degli italiani ci viene dall’interessante ricerca Censis-Ucsi, Primo rapporto sulla comunicazione in Italia. Offerta di informazione e uso dei media nelle famiglie italiane (2001, www.censis.it). Il dato più rilevante — ma per nulla sorprendente è che «nelle case degli italiani è presente una vera e propria abbondanza di strumenti di comunicazione», di cui però «non più di una metà degli italiani sa fare un uso consapevole». Non fa che tornare l’evidenza di una metà di italiani che non possiede gli strumenti di base per usufruire (il che significa godere, trarre utilità…) dell’abbondanza di mezzi e informazioni oggi disponibili e che quindi non legge libri o giornali, è tagliata fuori anche dalle nuove tecnologie ed è perennemente risospinta verso i più facili consumi televisivi. Perché stupirsi, d’altro canto, se da uno studio svolto all’interno di una più ampia indagine internazionale condotta in 21 paesi Ocse, risulta che ben il 65,5% della popolazione italiana possiede competenze alfabetiche «molto modeste», o «al limite dall’analfabetismo»? (ricerca Ials-Sisl, 2000). Si può discutere attorno alla congruità della definizione adottata di «competenza alfabetica» ma non vi è dubbio che il problema principale per lo sviluppo della lettura in Italia, così come per qualsiasi altro consumo culturale evoluto, rimane all’interno del sistema scolastico e si potrebbe aggiungere non solo nella sua capacità di rivolgersi alle nuove generazioni ma anche nella necessità di indirizzare i propri sforzi al recupero di quelle più anziane.
Meritano allora una lettura molto attenta due quaderni Iard (interamente scaricabili da www.iard.it) dedicati rispettivamente a Lettura e non lettura: insegnanti e studenti a confronto, a cura di Ferruccio Biolcati Rinaldi (n. 1, marzo 2000) e a Nuove tecnologie e scuola, a cura di Gianluca Argentin (n. 3, settembre 2000). Entrambi elaborano in realtà dati non dell’ultima ora, i più recenti essendo stati raccolti nei primi mesi del 1999, ma il ritardo è più che compensato dall’ampiezza dei campioni utilizzati e dalla ricchezza delle informazioni rilevate. (Forse, specie per fenomeni che hanno origini e natura strutturale, se più spesso ci si orientasse all’approfondimento invece che alla ricerca spasmodica della novità non avremmo che da guadagnarne.)
Nel primo quaderno sono comparati i consumi di quotidiani e libri di insegnanti e studenti medi superiori utilizzando i dati di cinque distinte rilevazioni, condotte nel 1990 e nel 1999 per gli insegnanti e nel 1987, 1992 e 1996 per gli studenti. Purtroppo, per i libri i dati non sono direttamente riferiti alla lettura e non sono quindi comparabili con altre indagini (in primis quelle Istat): sia presso gli studenti sia presso gli insegnanti sono stati infatti raccolti dati relativi alla frequentazione in biblioteca e agli acquisti in libreria. Malgrado tale limite, il ricco insieme di informazioni e l’attendibilità loro conferita da una metodologia statistica rigorosa consente di fare alcune riflessioni di rilievo.
Il primo elemento da mettere in evidenza riguarda gli insegnanti, che si segnalano come più forti consumatori di libri non solo della media degli italiani (ci mancherebbe altro…) ma degli altri laureati: è vero che si tratta di fenomeni diversi, ma colpisce che nel 1999 il 92% degli insegnanti avesse acquistato almeno un libro (il 55% tre o più libri) negli ultimi tre mesi (ma il dato è influenzato dal fatto che, avendo fatto la rilevazione all’inizio dell’anno, il trimestre include il Natale), quando — sempre nel 1999, secondo l’Istat solo il 79,5% dei laureati italiani aveva letto almeno un libro nell’ultimo anno. Per altro, il dato risulta in crescita dal 1990 al 1999, con particolare evidenza tra gli (si dovrebbe dire le…) insegnanti delle scuole elementari, che passano dall’85% di acquirenti di libri al 93 %. E interessante, per altro, che proprio le insegnanti elementari facciano registrare i valori più elevati, sia pur di poco: pur essendo compresa in questa categoria una maggiore percentuale di lavoratori non laureati, evidentemente la presenza di un corpo insegnante più giovane e maggiormente composto da donne più che compensa la correlazione tra la frequenza in libreria e il titolo di studio.
Le percentuali fatte registrare dagli studenti sono molto più basse, anche perché evidentemente la relazione tra lettura e acquisto in libreria è molto meno scontata. Il 48% degli studenti di scuole medie superiori censiti aveva comprato almeno un libro in libreria nel 1996 in tre mesi e il 21,3% dichiarava di averlo fatto 3 o più volte. Ma è la frequenza delle biblioteche a rappresentare il dato più significativo e insieme preoccupante: la metà esatta degli studenti superiori italiani dichiara di non aver frequentato affatto, in tre mesi, una biblioteca (né scolastica, laddove esistesse, né di pubblica lettura). Se un comportamento che dovrebbe essere connaturato alla vita di uno studente è sconosciuto alla metà degli studenti italiani è molto facile capire la direzione che ogni politica di promozione alla lettura dovrebbe prendere. Ed è ancor più facile se si considera la distribuzione territoriale del fenomeno in Italia: la percentuale di chi non frequenta la biblioteca si riduce al 34% nel Nord Est ed è quasi doppia (66%) nel Sud d’Italia, dove solo il 14% degli studenti è stato in biblioteca con una minima regolarità (3 o più volte in tre mesi). La variabile geografica è quella che fa registrare i valori più distanti tra un estremo e l’altro, molto più del background culturale o della classe sociale delle famiglie o anche del tipo di scuola frequentato (liceo, istituto tecnico o professionale). L’inadeguatezza del sistema bibliotecario scolastico è poi dimostrata dal fatto che nelle città più grandi (con più di 250 mila abitanti) la percentuale di studenti che non frequenta la biblioteca è maggiore (67%) di quella dei comuni intermedi (56%) e di quelli più piccoli (con meno di 50 mila abitanti: 45%). Evidentemente, laddove difficoltà logistiche impediscono la frequenza di una biblioteca di pubblica lettura, lo studente non trova nella scuola una valida alternativa.
L’ampiezza del comune di residenza non è invece una variabile discriminante per le abitudini degli insegnanti nei confronti delle biblioteche: le percentuali di non frequenza variano tra il 47 % dei comuni più piccoli e il 52% di quelli intermedi, il che conferma come il problema non sia di assenza di strutture sul territorio (al di fuori della scuola). Più in generale, anche per gli insegnanti, l’universo sembra dividersi a metà, tra coloro che frequentano le biblioteche e coloro che non lo fanno nemmeno una volta in tre mesi. E anche in questo caso la variabile che maggiormente influenza il comportamento è l’area geografica di residenza, pur in modo meno evidente che per gli studenti: si va da una percentuale del 43 % di non frequenza nelle regioni del Nord Ovest e Nord Est, a un 55 % nel Sud del paese.
Un ulteriore spunto è fornito dalla correlazione tra la frequenza della libreria e gli altri consumi culturali rilevati (Tab. 1). Sia gli insegnanti sia gli studenti che hanno acquistato almeno un libro negli ultimi tre mesi hanno poi più intensi consumi culturali in riferimento a tutte le altre variabili indagate. Se il risultato è più scontato per consumi culturali quali la frequenza di mostre e musei (per gli studenti la percentuale tra i lettori è più che doppia di quella tra i non lettori, o tra gli utenti di musica classica, sia in cd sia dal vivo) è significativo che la stessa situazione si riproduca per il consumo di musica leggera o per la frequenza al cinema, ecc.
 

 
L’elevata relazione tra i diversi consumi culturali induce a disegnare un quadro della scuola italiana caratterizzato dalla presenza di numerosi buoni insegnanti, con un elevato profilo di consumi culturali, ben distinti da una minoranza (sia pur nutrita) di docenti ormai «seduti», restii ad aggiornarsi e dai consumi culturali meno ricchi. Il fatto che le diverse variabili siano tra loro correlate significa anche che non dovrebbe essere difficile distinguere i primi dai secondi e quindi elaborare quei sistemi di incentivi di cui da anni si parla nella scuola italiana.
Il fenomeno si riproduce a pieno anche in relazione all’uso delle tecnologie. Utilizzando gli stessi dati dell’indagine del 1999, il quaderno sulle Nuove tecnologie a scuola indica con chiarezza che gli insegnanti con il più elevato profilo di consumi culturali sono anche quelli che hanno maggiore familiarità con le tecnologie. Di più, il livello dei consumi culturali è la variabile che influenza più di ogni altra la propensione alle tecnologie degli insegnanti, a parte l’ovvio legame con il tipo di disciplina insegnata, per cui i docenti di materie scientifiche usano le tecnologie molto più di quelli delle materie letterarie (Tab. 2).
L’uso dei computer nella pratica didattica ripartisce gli insegnanti intervistati in tre gruppi di pressoché uguale consistenza: il 31% li usa «regolarmente», il 36% «saltuariamente» e il 33% «mai o quasi mai». Se si considera invece l’uso di Internet le percentuali scendono. Alla domanda: «con quale frequenza negli ultimi tre mesi si è collegato a Internet per consultare siti e reperire dati e informazioni utili per la pratica didattica», l’11% risponde «regolarmente» e il 26% «saltuariamente». Comunque più di un terzo degli insegnanti italiani, già al principio del 1999, utilizzava la rete per la didattica. Gli estensori del rapporto giudicano negativamente il dato, evidenziando come solo un insegnante su dieci facesse un uso regolare di Internet. Pur senza cadere nella futile trappola del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto, a noi sembra che le percentuali rilevate siano invece sorprendentemente alte, e testimonino di una capacità degli insegnanti di adeguare le proprie competenze e pratiche lavorative ben superiore a quanto abitualmente non si pensi.
Si consideri in primo luogo che stiamo parlando di dati di oltre due anni fa (per la diffusione di Internet si tratta di un tempo enorme) e che la domanda, come visto, aveva una formulazione molto precisa: non si rilevava la semplice navigazione in Internet, ma un suo uso specifico per la didattica. Ma si ricordi anche, nel valutare i dati, che la stessa indagine Iard rilevava come la metà degli intervistati avesse più di 48 anni. Sotto quest’ultimo profilo è interessante notare come l’uso delle tecnologie sia sì condizionato dall’età com’è scontato e come avviene nel resto della popolazione ma diminuisca sensibilmente solo dopo la soglia dei cinquant’anni, sia se si considera l’uso dei Pc (che passa dal 70% proprio delle prime due classi di età al 60% degli over-cinquantenni: tab. 2) sia per quel che riguarda Internet (utilizzato dal 40% degli under-cinquantenni e dal 35% dei più anziani).
Verrebbe da dire che gli insegnanti italiani, o almeno una parte significativa di essi, siano in grado di crescere e aggiornarsi nonostante tutto, nonostante cioè la povertà delle strutture culturali interne alle scuole (tutte le ricerche ci indicano che così come nelle «biblioteche» scolastiche non ci sono i libri, nei laboratori multimediali non ci sono i cd rom), nonostante l’assenza di incentivi, nonostante l’età media non più giovane, nonostante la pressoché assente politica di aggiornamento professionale da parte del Ministero (ricordiamo che solo il 5% delle risorse impiegate nel Piano di sviluppo delle tecnologie didattiche 1997-2000 era dedicato alla formazione in servizio).