I successi non si assomigliano mai

A farla da padrone nelle classifiche dei più venduti non è il romanzo d’intrattenimento americano, bensì una narrativa, per lo più europea, non insensibile ai problemi di tecnica espressiva e di strutturazione del racconto. Mala vera novità è rappresentata dal ritorno di interesse per la saggistica politica (L’odore dei soldi di Travaglio e Veltri e Scontro finale di Vespa) e dal largo successo di una saga fiabesca destinata agli adolescenti (Harry Potter). Comunque sia, le predilezioni del grande pubblico sembrano rivolte alle varianti del moderno romanzo d’avventure e di ambientazione storico-fantastica.

Non c’è soltanto Camilleri a tenere testa agli scrittori di vasta notorietà internazionale. Nella stagione 2000-2001 ben quattro titoli italiani figurano nella top ten dei libri più venduti: un exploit che concorre a smentire il luogo comune secondo cui il mercato dei successi sarebbe per sua costituzione viziato dallo strapotere della narrativa angloamericana. Alla prova dei fatti i lettori si dimostrano tutt’altro che pregiudizialmente ostili alle opere dei loro connazionali. Anzi.
Certo, i sempre più pervasivi processi d’internazionalizzazione influenzano in maniera rilevante le abitudini di lettura, e non potrebbe essere altrimenti. Ma questa circostanza non costituisce di per sé un motivo di apprensione e tanto meno rappresenta una conseguenza delle logiche di marketing che l’industria editoriale ha introdotto nelle sue scelte strategiche. Fin dalle origini, infatti, il romanzo in Italia è stato in larga misura un prodotto d’importazione, e ciò prima di ogni altra cosa per la diffidenza che i nostri letterati hanno storicamente manifestato nei confronti di questo genere.
Piuttosto, sarà utile verificare quali tra le linee di tendenza della produzione straniera incontrano il gradimento dei nostri lettori. E allora si potrà rimanere stupiti nel constatare che il grande assente nelle posizioni di vertice della rassegna riassuntiva dei successi dell’annata appena trascorsa è per l’appunto il romanzo d’intrattenimento nordamericano. La palma d’onore se l’aggiudica in maniera inequivocabile la narrativa europea, che si impossessa di sei posizioni su dieci (i risultati analizzati sono quelli dell’istituto Cirm pubblicati settimanalmente sul quotidiano «la Repubblica» dall’8 settembre 2000 al 27 luglio 2001).
Ma vediamo l’elenco. Al primo posto s’insedia Codice a zero dell’inglese Ken Follett con 890 punti; al secondo posto L’odore dei soldi di Marco Travaglio e Elio Veltri, 808 punti; al terzo, con 787 punti, Baudolino di Umberto Eco. Seguono Il diavolo e la signorina Prym del brasiliano Paulo Coelho, 732 punti; Le rose di Ataca del cileno Luis Sepulveda, 726 punti; La scomparsa di Patò di Andrea Camilleri, 615 punti; Rispondimi di Susanna Tamaro, 514 punti, Harry Potter e la pietra filosofale della gallese Joanne Kathleen Rowling, 500 punti; 1 figli del Nilo del sudafricano Wilbur Smith, 489 punti; e infine L’ignoranza del ceco Milan Kundera, 433 punti.
Numeri alla mano, a farla da padrone come si vede è una narrativa non insensibile ai problemi di tecnica espressiva e di strutturazione del racconto. A sorreggere l’impianto genetico di questi testi è una preoccupazione di originalità individuale, che li rende molto diversificati gli uni rispetto agli altri, non semplicisticamente riconducibili a un unico standard interpretativo. E vero che la leadership se la spartiscono, in gran parte, i frequentatori abituali delle classifiche mondiali. Figure divistiche e arcinote, che si rincontrano puntualmente anno dopo anno: Ken Follett, Sepulveda, Coelho, Wilbur Smith e vi si potrebbero aggiungere gli altri che si assestano nelle posizioni appena più basse.
Certamente, questa assiduità è l’esito di una concezione spregiudicatamente funzionale della letteratura, intesa come attività artigianale volta a soddisfare i bisogni di ricreazione fantastica dei lettori, ottenendone in cambio un consenso calcolabile in termini quantitativi. Ma bisogna pure riconoscere qualche merito a chi sa rinsaldare annualmente con una proposta nuova i rapporti di fedeltà con un’utenza tanto estesa da coprire tutto il pianeta acculturato: se non altro si tratta di una dote non molto comune, di cui finora ha dato prova un numero ristretto di autori. Semmai sarebbe da augurarsi che di scrittori così ce ne fossero molti, in modo da garantire quel pluralismo che costituisce l’essenza di una democrazia culturale compiuta.
D’altro canto, il panorama che si offre all’esame presenta elementi di novità non secondari, quali il ritorno di interesse per la saggistica politica e il largo successo di una saga fiabesca destinata a un pubblico di adolescenti. Inoltre è doveroso distinguere il differente orientamento che nei confronti del mercato assumono gli autori contemplati. Gli esiti commercialmente rilevanti dei libri di Eco, della Tamaro e di Kundera sono bensì il frutto di una disponibilità al colloquio con larghe fasce di destinatari che si esprime anzitutto nella scelta di un linguaggio discorsivo. Ma, nella difformità delle loro fisionomie, i tre autori si candidano anzitutto a eredi di un patrimonio universale di valori morali ed estetici: li possiamo considerare sostenitori di un umanesimo disincantato e disilluso, che nello scoramento seguito al crollo delle ideologie si propone come punto di riferimento privilegiato tra i conflitti del presente e dell’esistenza, tanto più stabile in quanto vaccinato contro i pericoli dell’infervoramento collettivo.
Una fotografia attendibile degli orientamenti dei lettori richiede però di verificare i risultati anche sotto altre prospettive. Vediamo che cosa succede se sommiamo i punteggi degli eventuali titoli plurimi di un medesimo autore. La graduatoria così ricomposta è la seguente: Camilleri balza al primo posto con 1.530 punti, 6 libri e 28 presenze complessive. Largamente distanziata, la Rowling si afferma al secondo posto con i 1.066 punti e le 30 presenze delle quattro puntate della serie di Harry Potter. Con un solo volume Ken Follett guadagna un egregio terzo posto, insidiato da Travaglio che con L’odore dei soldi e La repubblica delle banane sale a 853 punti eli presenze. Quindi Eco, Coelho e Sepulveda, tutti e tre con un solo libro, incalzati da Wilbur Smith (ottavo con due titoli, 529 punti e 9 presenze), Graham Grisham (nono con due titoli, 517 punti e 10 presenze) e Franck McCourt (decimo, anche lui con due titoli, 515 punti e 10 presenze).
La top ten così rielaborata offre una più conforme misura dell’entusiastico consenso che anche in Italia sta ottenendo la saga di Harry Potter: indubbiamente uno dei casi dell’anno. Inoltre rende più adeguatamente ragione dell’incredibile favore con cui continua a essere accolta la sempre più prolifica produzione di Camilleri: ignorando riedizioni e ristampe, parliamo di una media di due-tre novità all’anno.
Il fatto è che ogni considerazione critica fondata sulle informazioni offerte dalle classifiche librarie deve tenere conto di un’imperfezione di fondo dovuta al forzato utilizzo di criteri relativistici di compilazione. Nell’impossibilità di disporre di dati oggettivi quale il numero effettivo delle copie vendute, le classifiche vengono elaborate è sempre opportuno ricordarlo in base ai risultati dei rilevamenti statistici compiuti in un numero rappresentativo di librerie, con l’assegnazione di cento punti al titolo più venduto della settimana e agli altri di un conseguente punteggio inferiore. In linea di massima, a venire enfatizzata è la performance dei libri dal fiato più largo che raggiungono il loro target su una distanza medio-lunga: spesso più lenti nella conquista delle posizioni di testa, permangono però in classifica per un numero maggiore di settimane. Per contro, rischia di risultare sottostimata la forza di persuasione dei titoli che all’opposto sembrano correre in velocità, nel tentativo di fare subito fatturato per poi agevolare il ricambio delle proposte.
Il difetto di valutazione può essere parzialmente corretto rielaborando i risultati secondo un’altra angolazione ancora: la media dei punti conseguiti. Proviamo dunque a dividere il punteggio complessivo per il numero delle presenze settimanali: rispetto a quelli appena passati in rassegna, gli equilibri risultano quanto mai variati. Con una media di 89,7 punti a settimana s’installa prepotentemente al primo posto L’odore dei soldi, seguito a distanza da Atlantide di Clive Cussler con una media di 72,4 e L’ignoranza di Kundera a 72,16. Quindi C ultimo distretto di Patricia Cornwell (71,4); I figli del Nilo di Wilbur Smith (69,85), Le rose di A toc a di Sepulveda (66), Baudolino di Eco (65,5), Rispondimi della Tamaro (64,25), Codice a zero di Follett (63,57), La tempesta del secolo di Stephen King (63).
La graduatoria così ottenuta rispecchia in maniera più congruente l’effettivo segmento di mercato ricoperto dalla produzione nordamericana, che pure si deve accontentare di uno score non eccelso. Ma, soprattutto, dà maggiore risalto a quello che è stato il fenomeno più reboante dell’anno in Italia: il libro su Berlusconi di Travaglio e Veltri, che ha miracolosamente portato ai vertici delle classifiche una sigla storica della sinistra, risorta dopo una dolorosa fase di ristrutturazione, gli Editori Riuniti.
Certo, la fortuna di L’odore e dei soldi è dovuta in primo luogo alla campagna propagandistica che gli ha assicurato un promoter d’eccezione quale è l’indiavolato Daniele Luttazzi, volgare e insopportabile quanto si vuole ma abilissimo nel comunicare alle platee. La sua attualità sta nell’aver riassunto in maniera documentata i principali sospetti sull’operato imprenditoriale dell’attuale presidente del Consiglio: dagli interrogativi sulle origini dei primi finanziamenti della Fininvest alle false fatture di Publitalia, arrivando fino ai rapporti con il boss mafioso Vittorio Mangano e all’irrisolto conflitto di interessi che soggiace fra l’altro alla cosiddetta legge Tremonti.
In realtà, i due autori non aggiungono molto a quanto già si sapeva. Non solo per la difficoltà oggettiva di raccogliere informazioni riservate, ma soprattutto perché gli intenti che li hanno mossi non sono tanto quelli della cronaca storica o dell’inchiesta giornalistica, quanto piuttosto quelli della pamphlettistica militante protesa a intervenire nel dibattito in corso richiamando i lettori alla necessità di una esplicita presa di posizione. E sotto questo profilo il libro non solo ha raggiunto, ma ha largamente superato il proprio obiettivo, anche grazie all’animoso clima della concomitante campagna per le elezioni politiche.
A partire dall’ottobre 2000, quando viene resa ufficiale la candidatura di Francesco Rutelli ad avversario del leader del Polo, la contesa politica torna infatti a egemonizzare l’attenzione dei media e dell’opinione pubblica. I riscontri sul piano librario non sono mancati. A riprova basta citare il dignitoso terzo posto che, con 396 punti, Bruno Vespa si è aggiudicato raccontando in Scontro finale i retroscena di un «duello» a distanza di grande fascino spettacolare. Naturalmente, né il libro di Travaglio né quello del giornalista RAI possedevano le energie per avviare un serio esame di coscienza collettivo sulle sorti del paese. Nondimeno, l’ampiezza del loro consenso dimostra che il pubblico dei successi è ben ricettivo di fronte a una qualificata saggistica d’attualità che affronti le grandi tematiche della vita consociata senza inclinazioni dottorali. D’altronde, è proprio in quest’area merceologica che gli italiani escono da sempre vincenti sui concorrenti d’oltralpe e d’oltreoceano. La ragione può essere rintracciata nella provenienza giornalistica degli autori, abituati a una prosa vivacemente discorsiva, modellata sulle forme del parlato, e formati a uno spirito di servizio che li induce a non perdere di vista la chiarezza espositiva.
Più che mai, però, nella saggistica di massa gioca un ruolo importante la capacità di cogliere i temi del momento, che galvanizzano e dividono la coscienza collettiva. La popolarità televisiva può agire da volano, ma da sola non è in grado di garantire il successo e tanto meno ne costituisce un requisito indispensabile. E ne abbiamo la conferma. Da un lato, la diffusa ansia per i rischi sottesi ai processi di globalizzazione porta in posizioni di tutto rispetto il voluminoso No logo di Naomi Klein (174 punti e 4 presenze), popolarissima negli Stati Uniti come articolista del «New York Times» ma ignota al pubblico italiano. Dall’altro, invece, il pur prevedibile effetto di trascinamento non riesce a far decollare La repubblica delle banane, il libro inchiesta che Travaglio ha scritto insieme al collega dell’«Espresso» Pietro Gomez e che, con due presenze, non supera i 45 punti. L’argomentazione non è più fragile del testo precedente. Ma il tema trattato, le malefatte impunite della classe dirigente italiana della prima e della seconda Repubblica, risulta di più fiacco impatto in un periodo in cui si è ormai affievolito il senso di sdegno che nel decennio scorso aveva fatto seguito alle indagini intorno a Tangentopoli.
Ma nel settore della saggistica c’è un altro risultato apprezzabile: ed è il quindicesimo posto nella graduatoria generale dei titoli di Non siamo capaci di ascoltarli. Riflessioni sull’infanzia e l’adolescenza di Paolo Crepet (372 punti, 9 presenze). Anche qui ci troviamo di fronte a un prodotto che trae vantaggio dalla notorietà dell’autore, psichiatra di grido, onnipresente sulla stampa e nei talk show televisivi. L’agile libretto sa però rispondere con un linguaggio confidenziale e brillante a una delle esigenze primarie del mondo contemporaneo: e cioè il recupero, invocato da più parti, di una funzione «forte» del ruolo di genitore ed educatore. Al di là di talune generalizzazioni sociologistiche, Crepet a questo riguardo fornisce in primo luogo ai lettori maschi alcuni utili criteri di orientamento pratico, contribuendo a contrastare quella «vergogna» di essere padri che nell’era postsessantottina ha soppiantato con molti danni l’autoritarismo patriarcale. L’accento batte sullo spirito di autonomia, inteso come scopo primario dell’atto educativo, tuttavia non per giustificare il permissivismo pseudolibertario, ma per incoraggiare i genitori a un’assunzione di responsabilità di fronte ai propri figli, da esercitare secondo i modi suggeriti da un buon senso problematico e insieme operativo.
Quanto alla narrativa, le predilezioni del pubblico sembrano rivolte alle diverse varianti del moderno romanzo d’avventure, di ambientazione storica o fantastica. Il fattore unificante di questi testi è costituito dall’articolata struttura fabulatoria, che si dispiega in un intreccio complicato di piani temporali e filoni narrativi per una quantità di pagine significativa: si va dalle 408 di Codice a zero alle 654 di I figli del Nilo. In mezzo vi troviamo Che paese l’America, 441 pagine; Baudolino, 526; Atlantide di Clive Cussler, 576; Harry Potter e il calice di fuoco, 604. Romanzi lunghi, insomma, che al centro delle loro storie collocano protagonisti dalla fisionomia corposa, delineata a tutto tondo: eroi tormentati della modernità, sospesi tra la pulsione ad agire e il bisogno di sostare a riflettere.
Certo, rispetto ai precedenti remoti, questi racconti sono percorsi da una maggiore inquietudine angosciosa: in un universo sempre più fluttuante e incerto, non è tanto facile continuare a coltivare il mito ottimistico del self made man, che l’avventura letteraria si era incaricata di divulgare nella sua genesi ottocentesca. La lezione della storia ha il suo peso, ed è lì ad ammonire che il più delle volte colui che parte svantaggiato nella competizione sociale non riesce a rimontare l’handicap iniziale. Ciò nonostante, la sostanza positiva del messaggio non viene revocata in dubbio: in definitiva, la parabola narrativa di questi personaggi acquista un senso dal fatto che costoro hanno imparato che a ognuno è data l’opportunità di affermare la propria presenza nel mondo. Ciò che importa è non dichiararsi sconfitti a priori di fronte agli ostacoli e alle trappole di cui il destino lastrica il nostro cammino. La via d’uscita del resto non è molto lontana: basta cercarla dentro di noi, disponendosi ad ascoltare la propria coscienza. Solo così ci si potrà emancipare dal condizionamento dei comportamenti abitudinari e delle norme tramandate.
Detto questo, bisogna aggiungere che le differenze non potrebbero essere più marcate: del resto, diversi sono i sottogeneri di riferimento, e cioè l’orizzonte sul quale i libri devono essere valutati. Nel movimentato Codice a zero Ken Follett ritorna agli schemi intricati e intriganti della spy story, focalizzando l’attenzione su un tema di grande presa sull’immaginario collettivo: la conquista dello spazio. Siamo nel pieno della Guerra Fredda, e USA e URSS si contrappongono nel tentativo di affermare una supremazia scientifica e politica sul pianeta. La ricostruzione degli avvenimenti legati al lancio dell’Explorer I, il primo satellite americano, rimane però sullo sfondo del racconto per portare in primo piano i conflitti interiori con cui deve fare i conti il protagonista nel tentativo di recuperare la memoria perduta e riprendere possesso della propria incerta identità.
Dopo l’ambientazione contemporanea del Pendolo di Foucault e quella barocca di L’isola del giorno prima, Eco torna invece al mondo medievale: l’universo ecclesiastico che con i suoi contrasti interni aveva fatto da sfondo al Nome della rosa cede però il posto al mondo laico dei comuni e della corte imperiale di Federico Barbarossa. Sapientemente orchestrato in una complessità di piani narrativi, il romanzo attinge simboli e moduli ai più disparati repertori letterari di derivazione colta e popolare: il dialogo filosofico, le cronache, i bestiari, le rappresentazioni sacre, i cantari, il giornale di viaggio. Ma nella sua impostazione di fondo si presenta anzitutto come una biografia avventurosa, in cui il personaggio che ha vissuto le vicende le racconta commentandole con il senno di poi e le manipola suscitando un insieme di interrogativi sulla sua attendibilità. A venire tratteggiato, in sostanza, è un elogio della fantasia creativa, della menzogna fertile e immaginosa che restituisce un senso all’esistenza. Ed è questa attitudine a mentire che consente al protagonista di sopravvivere superando gli scogli che incontra nel suo girovagare in lungo e in largo per il mondo, tra battaglie, sangue e chimere. Lo stile adottato è, secondo le convenzioni letterarie, quello della commedia, con il riuso colto delle forme «basse» del parlato e una calcolata disponibilità al pastiche che però salvaguarda la chiarezza di lettura.
Per parte sua, la Rowling si affida invece ai moduli del romanzo di formazione proiettandoli nella dimensione del meraviglioso. Tra figure fantastiche e inverosimili epifanie, la fiaba di Harry Potter contrappone con felice intuizione due mondi paralleli e opposti: da un lato, la deprimente quotidianità dell’ambiente familiare in cui il piccolo protagonista si è trovato a vivere dopo la morte dei genitori e, dall’altro, la seducente riservatezza di un’improbabile scuola di magia, nascosta agli sguardi dei profani. I presupposti di un successo tanto clamoroso si trovano anzitutto qui: in questa onirica trasfigurazione del desiderio di fuga dalla realtà abitudinaria, per ritornarvi armati di maggiore sicurezza dopo avere soggiornato in un altrove in cui è dato rigenerarsi ed essere se stessi. Scandita dai ritmi dell’anno scolastico, la storia è passibile di diversi sviluppi; la sua tenuta dipende prima di ogni altra cosa dall’abilità che l’autrice saprà dimostrare variando di libro in libro le costanti narrative, secondo i procedimenti consueti della produzione in serie.
D’altra parte, l’avventura letteraria distesamente strutturata soddisfa soltanto una parte dei bisogni del pubblico. Il lettori manifestano di apprezzare anche una narrativa di indole opposta, che ha i suoi punti di forza nella maggiore leggerezza di struttura e nella rapidità di movimenti consona alla misura breve del racconto o dell’apologo. Potremmo definirla una narrativa di ritratti, che tende a puntare i riflettori sulla fisionomia di un solo personaggio, schizzata con taglio ellittico, secondo procedimenti cinematografici. Anche in questo ambito peraltro si collocano testi diseguali per ispirazione e pregio estetico. Coelho ripropone gli schemi collaudati del suo minimalismo pensoso per ribadire un messaggio di apertura ottimistica volto a riscoprire nell’interiorità dell’individuo le forze cosmiche della vita. Mentre Sepulveda nelle microstorie di Le rose di Ataca sembra inneggiare a una sorta di speranza laica, raccontando la parabola di uomini sconosciuti e quasi sempre perdenti che però hanno saputo compiere un gesto di coraggio opponendosi agli arbitrii e alle ingiustizie del potere.
In Rispondimi la Tamaro scandaglia invece miserie e virtù della condizione umana, dando voce a un riscoperto spirito religioso di segno cattolico. Gli episodi si susseguono in maniera incalzante, in una drammaticità di ascendenza melodrammatica: ecco, nel primo racconto, le disgrazie di una bambina ipersensibile che dopo la morte della madre prostituta è precocemente costretta a confrontarsi con il cinismo degli adulti; nel secondo, le ansie di vendetta di una donna che per quarant’anni ha vissuto al fianco di un marito che la maltrattava e che le ha ucciso il figlio; nel terzo, i pentimenti di un uomo che in preda a un raptus di gelosia uccide la moglie di cui è innamorato. Lo scopo è far affiorare per contrasto l’eterna attualità dell’insegnamento biblico che proprio nel buio atroce della disperazione invita a rivolgere il pensiero a Dio, cui è indirizzata l’invocazione del titolo, a metà strada tra l’innocente grido di protesta e l’umile supplica.
Infine un altro italiano, Tabucchi. Sorprendentemente al dodicesimo posto della classifica generale per titoli con 399 punti, Si sta facendo tardi è un libro ostico, aristocraticamente disadorno e sprovvisto di elementi di facile appeal, che ripropone le forme anacronistiche di un genere di grande tradizione letteraria: il romanzo epistolare. Con la libertà d’invenzione che la scelta compositiva gli assicura, l’autore divaga tra atmosfere evocative e intimismo meditabondo, dando prova di una non comune abilità stilistica. Siamo nell’ambito di una aggiornata prosa d’arte, che si traduce in un linguaggio dimesso ma studiatissimo: una sorta di parlato sublime. Il destinatario elettivo è naturalmente il pubblico colto, di formazione umanistica: anch’esso, dopo tutto, costituisce una nicchia di mercato, una delle più ricettive. E anche quella più snob, sempre pronta a proclamarsi indifferente alla politica dei best seller. Ma questo poco importa, in una logica commerciale.