Fotocopie ed equità dei compensi

La legge che recepisce la norma europea che regola l’attività di reprografia nasce dal principio per cui ogni eccezione al diritto d’autore deve essere ripagata da un compenso equo a favore dei titolari dello stesso diritto. Nel 2005, la Siae ha iniziato a distribuire i proventi raccolti come “equo compenso” sulle fotocopie effettuate in copisterie e biblioteche. Cifre ancora molto lontane dalle altre realtà europee, ma che possono iniziare a proporre anche in Italia un modo diverso di guardare al fenomeno.
 
In un ideale diario editoriale del 2005 si inserisce a pieno titolo una notizia destinata ad avere un notevole rilievo nei prossimi anni e che da subito richiede alcune riflessioni e analisi. A partire da agosto la Siae ha iniziato a distribuire i proventi raccolti fin dal 2001 sulle fotocopie fatte in base alla norma introdotta con la legge 248 del 2000. Com’è noto, tale legge ha modificato l’art. 68 della legge sul diritto d’autore regolando in maniera diversa l’eccezione relativa all’attività di reprografia. Che è divenuta legittima entro precisi limiti (15% di ciascun libro o fascicolo di rivista e per il solo uso personale) a patto che si versi ad autori ed editori un equo compenso. La stessa legge ha previsto che la raccolta di tali compensi spetti in esclusiva alla Siae, con una decisione in verità unica nel suo genere, in quanto nel resto del mondo tale compito è affidato a organismi creati direttamente da autori ed editori letterari, distinti dalle società di autori ed editori musicali.
I soldi che la Siae ha cominciato a distribuire cinque anni dopo riguardano appunto questo equo compenso, che i soggetti obbligati a pagare (solo alcuni, in verità) hanno effettivamente versato. Le somme distribuite, al netto delle commissioni della stessa Siae, sono pari a circa 6,7 milioni di euro. Una goccia rispetto a quanto avviene negli altri paesi, ma abbastanza da far talvolta gridare allo scandalo, all’eccessiva esosità di un compenso mai visto come effettivamente equo.
Prima di analizzare alcuni dati relativi alla prima ripartizione italiana è forse opportuno richiamare quanto avviene nel resto del mondo. La Tabella 1 mostra quanto raccolgono le società di gestione europee e di alcuni significativi paesi extraeuropei. I diversi paesi possono essere suddivisi in quattro gruppi. Al primo appartengono i paesi scandinavi, più il Belgio e l’Australia: si tratta di paesi dove la raccolta supera un euro per abitante, fino agli oltre cinque euro della Norvegia. I maggiori paesi europei, analogamente a Stati Uniti e Canada, hanno una raccolta che varia dai 30 centesimi per abitante degli Usa ai quasi 90 del Regno Unito. L’Italia fa parte invece di un gruppo di paesi dove il meccanismo non è stato ancora avviato in modo significativo, con raccolte ampiamente inferiori ai 10 centesimi. Nell’Europa a quindici solo Grecia e Irlanda ci tengono compagnia in questo gruppo, mentre Portogallo e Lussemburgo appartengono al quarto gruppo, quello dei paesi che non hanno ancora sviluppato un sistema del genere, gruppo che comprende anche gran parte dei dieci nuovi paesi recentemente entrati a far parte dell’Unione, con la sola eccezione dell’Ungheria.
Il confronto è utile per inquadrare meglio il problema a livello nazionale. Se in Italia si raccogliesse prò capite quanto nel resto della “vecchia” Europa i proventi in distribuzione sarebbero ogni anno pari a circa 40 milioni di euro, e il risultato non sarebbe molto diverso (36,2 milioni) se il confronto fosse fatto solo con gli altri quattro grandi paesi europei (Germania, Regno Unito, Francia e Spagna).
Siccome la raccolta nel 2004 (l’anno migliore da quando la legge è entrata in vigore) è stata invece di 3,4 milioni si può tranquillamente dire che il compenso dato ad autori ed editori è ancora largamente iniquo, essendo meno di un decimo del potenzialmente dovuto.
Ciò detto, a chi vanno i proventi raccolti in Italia sulle fotocopie? E possibile intravedere nella loro destinazione, di nuovo con l’aiuto di un confronto europeo, gli estremi dell’^z/ztó del meccanismo? Innanzitutto, un accordo firmato nel 2004, in attuazione della legge, tra le associazioni di autori ed editori, ha previsto che i proventi siano suddivisi, analogamente a quanto avviene nel resto nel mondo, al 50% tra gli autori e gli editori. Inoltre, per l’individuazione dei singoli beneficiari le stesse associazioni – su mandato della Siae – hanno condotto una complessa indagine statistica con la collaborazione dell’istituto Tagliacarne, che ha permesso di analizzare i dati di oltre 350.000 righe di borderò e 140 giornate circa di rilevazioni nelle biblioteche.
 

 
Come ci si poteva aspettare, il numero complessivo dei beneficiari è molto alto: oltre 1.000 editori e 17.000 autori, senza contare gli stranieri, cui complessivamente sarà destinato il 14% circa dei proventi (in cifre assolute, andranno all’estero 290.000 euro circa a editori stranieri e poco meno di 700.000 euro ad autori).
L’insieme di queste vicende spinge ad alcune riflessioni sulla natura del diritto di fotocopia e, in ultima istanza, sulla natura della stessa attività editoriale nell’attuale contesto economico e culturale. E un’acquisizione ormai consolidata il fatto che gli editori non sono più semplicemente produttori di libri ma produttori di contenuti incorporati all’interno di libri. E che possono trovare in successive utilizzazioni la loro ragion d’essere economica e culturale.
La cessione di diritti per utilizzi “secondari” è sempre meno “secondaria” nel mondo moderno, e questo è uno degli effetti dell’economia digitale. Tuttavia, alcune utilizzazioni non consentono una gestione individuale efficiente, in quanto i costi di transazione sono troppo alti (la necessità di chiedere singolarmente i diritti a ogni titolare comporta oneri spropositati). Sorgono allora società di gestione collettiva di tali diritti. Talvolta poi, per ragioni di opportunità sociale legate all’esigenza di favorire l’accesso alla cultura, si ritiene anche di accompagnare tale gestione con eccezioni al diritto d’autore, che impongono licenze obbligatorie entro limiti definiti e sistemi di pagamento del diritto di tipo perequativo. Ciò non significa tuttavia disconoscere il diritto d’autore, ma modificare soltanto il modo con cui viene esercitato, dalla forma individuale a quella collettiva e – entro certi limiti – dalla negoziazione libera a forme di licenza obbligatorie.
E di questo che stiamo parlando, e non di tasse sulla cultura o altri spropositi del genere, che di frequente si sentono stigmatizzare in questo ambito. Ed è sugli effetti reali che tali forme di gestione collettiva e vincolata dei diritti producono che si dovrebbe riflettere.
Vediamo allora qualche dato tratto dalla prima ripartizione Siae. Viene in genere sottovalutato il carattere perequativo che i modelli di gestione collettiva dei diritti introducono. Immancabilmente, infatti, essi appiattiscono le condizioni contrattuali tra le parti coinvolte garantendo uguaglianza di accesso a piccoli e grandi editori, autori famosi ed esordienti. Le condizioni contrattuali sono infatti determinate per via collettiva e ciascun autore o editore da un lato e utente dall’altro dovrà adeguarsi a tali condizioni. A ciò va aggiunto il fatto che lo sfruttamento secondario delle opere finisce per premiare i libri meno effimeri: in biblioteca o nelle copisterie si fotocopiano testi pubblicati anche da tempo, non si è più schiavi dei tempi di rotazione che il commercio moderno impone alle librerie. Sono gli editori di catalogo, quelli con il respiro più lungo, ad avere maggiore forza competitiva su questo mercato.
Il risultato è che gli indici di concentrazione in questo specifico segmento sono più bassi di quelli generali. Se nell’insieme dell’editoria italiana i primi tre gruppi controllano oltre il 50% del mercato, nella ripartizione dei proventi delle fotocopie lo stesso indice si ferma al 27 % e solo uno dei tre gruppi leader su questo mercato è anche leader nel settore editoriale nel suo complesso. Ci vogliono invece 10 editori (o gruppi) per raggiungere il 50% dei compensi ripartiti e 30 per arrivare al 75%.
L’effetto perequativo, evidentemente, è ancor più esaltato dalle politiche che comprendono utilizzi sociali di parte dei proventi raccolti. Non stupisce allora se in altri paesi ciò avviene regolarmente. In molti casi una quota fissa dei proventi, stabilita dalla legge o decisa dalle associazioni degli aventi diritto, viene destinata a tale scopo. Per esempio, in Spagna, i proventi delle fotocopie finanziano un ampio programma di assicurazione sanitaria per gli autori, nonché varie iniziative di promozione della lettura, di sostegno del sistema delle biblioteche, e così via. Nel Nord Europa, poi, il sistema di gestione dei diritti sulle fotocopie, grazie alle cifre consistenti che si raccolgono, consente di mantenere in vita un’editoria indipendente anche in presenza di mercati che – per ragioni linguistiche – sono inevitabilmente ristretti.
In Italia, le associazioni di autori ed editori hanno deciso di chiedere alla Siae di non distribuire le somme inferiori ai 20 euro, considerato che il costo della distribuzione supera di fatto il beneficio che ciascun soggetto ne riceverebbe. L’insieme di tali somme, pari a 200.000 euro circa, potrà essere destinato a iniziative a favore degli autori (borse di studio, premi ecc.), nonché ad attività di promozione della lettura o a ricerche sul diritto d’autore.
Certo, se si continuerà a raccogliere solo un decimo di quanto in media avviene nel resto d’Europa anche gli effetti sul mercato saranno oltremodo limitati. E se non si inizierà a guardare con un’ottica diversa al problema, ciò sarà pressoché inevitabile.
Sotto questa luce forse anche i termini del dibattito sul diritto di prestito forse possono essere meglio compresi. La norma europea non nasce affatto dalla bizzarria di oscuri funzionari di Bruxelles. Ma dal principio per cui ogni eccezione al diritto d’autore deve essere ripagata da un compenso equo a favore dei titolari dello stesso diritto. In difesa della cultura alti lai si sono levati contro questa norma, provenienti da ogni parte politica, senza eccezioni, e culturale. Ma siamo proprio sicuri che la cultura si difenda riducendo le remunerazioni di chi la cultura produce? E in sede di elaborazione di una nuova norma sul diritto di prestito, che recepisca anche in Italia quanto previsto dalla direttiva comunitaria, non è il caso di puntare l’attenzione sugli effetti finali della norma, sulle modalità di attuazione, sulla distribuzione degli oneri e dei benefici, invece che limitarsi a gridare allo scandalo?