Biblioteche vs Google: opportunità, non contrasto

Possiamo dire di stare vivendo una transizione culturale che vede inesorabilmente riversare i patrimoni librari dalle biblioteche a Google? È vero che nella Rete l’impegno dell’utente per capire il funzionamento del sistema di ricerca sembra non sussistere, ma la velocità di risposta non sostituisce la precisione del dato. Ecco perché, proprio in un ambiente come Internet che sempre di più condivide cataloghi e risorse, il nodo dell’accessibilità non può prescindere dalla professionalità dei bibliotecari.
 
Da qualche tempo le biblioteche (un vasto arcipelago che comprende isole di ogni forma e dimensione) vedono diminuire l’affluenza del loro pubblico con una progressione costante. Il fenomeno è iniziato negli Stati Uniti tra il 2003 e il 2004, dove è stato statisticamente dimostrato che il calo percentuale oscilla, secondo le fonti e le analisi a loro commento, tra il 20 e il 40% di utenze, e ora è giunto fino a noi: le sale di lettura sono sempre meno frequentate. Sembra, infatti, che la Rete stia loro sottraendo utenti, grazie alla crescente affidabilità e facilità di approccio all’informazione.
Il riferimento d’obbligo è Google, che è attualmente il motore di ricerca più utilizzato dal mondo dai navigatori, e che nel dicembre 2005 ha annunciato il suo progetto di «biblioteca universale», per mezzo della trasformazione in formato digitale di circa 15 milioni di libri, pubblicati prima del 1930 (e quindi liberi dalla tutela del diritto d’autore), mettendo a disposizione dell’umanità — gratuitamente e tramite la Rete — le collezioni della New York Public Library, quelle delle università americane di Stanford e Harvard e della britannica Oxford University, con un investimento stimato che supera i 150 milioni di euro.
Google, insomma, dopo aver superato tutti i suoi concorrenti nella Rete, con 200 milioni di utenti in media al giorno, tenta ora di configurarsi come «biblioteca delle biblioteche».
Ciò forse significa che stiamo vivendo una fase di transizione culturale che vede inesorabilmente riversare i patrimoni librari (e quindi il loro utilizzo) dalle biblioteche in Google, in nome della facilità di disponibilità fisica grazie al formato digitale?
Considerato che la digitalizzazione è il passo essenziale che le istituzioni culturali devono compiere allo scopo di tutelare e valorizzare il proprio patrimonio culturale, di fornire ai cittadini un migliore accesso a tale patrimonio, di sviluppare la formazione permanente, il problema è capire se, e in che misura, le biblioteche possano fare, per così dire, un uso intelligente delle nuove tecnologie apportate da Internet e dal web. Il nodo fondamentale, a mio avviso, è quello dell’accessibilità per tutti i cittadini, indipendentemente dalla loro età e dal loro livello di competenza tecnica. Sembra ormai un dato di fatto, dicevo, che chiunque abbia una necessità di ricerca, rivolgendosi al «Megastore Internet» riesca a trovare da sé, con relativa facilità e senza intermediazioni farraginose, l’informazione di cui ha bisogno. È proprio così?
Poiché queste note sono destinate a lettori di varia formazione culturale, non necessariamente esperti del settore, cercherò di esprimermi riducendo al minimo indispensabile il linguaggio tecnico, limitandomi a mantenere un’argomentazione informativa e culturale. E allora, per mettere ordine in un’area piuttosto confusa e caotica, partirò dall’assunto incontestabile che il web ha ormai modificato il modo di «fare biblioteca». Per dimostrare questa affermazione, mi sento obbligato a fare una breve digressione su che cos’è, e come è stata organizzata finora la biblioteca.
 
Osservo, innanzi tutto, che essa funziona come un sistema d’informazioni composto da quattro elementi in connessione tra loro:
– utenti;
– chiavi d’accesso (cataloghi e sezione di consultazione);
– deposito, o contenitore, dell’informazione (libri, periodici, documenti diversi);
– personale della biblioteca.
 
In una biblioteca «aperta», l’utente ha la possibilità di:
– andare direttamente allo scaffale, se sa esattamente cosa vuole;
– consultare i cataloghi per cercarvi l’informazione di cui ha bisogno;
– andare di nuovo allo scaffale a trovarla;
– rivolgersi per assistenza al personale specializzato, che probabilmente consulterà per lui i cataloghi, gli troverà l’informazione sugli scaffali, o per lo meno gli indicherà la direzione giusta.
Naturalmente, questa è una semplificazione del problema: come tutti sanno, ci possono essere difficoltà e frustrazioni, perché i libri sono fuori posto, in prestito, o dal legatore, o anche sono stati rubati (purtroppo succede). Di più: il catalogo può risultare difficile da usare o non contenere l’informazione richiesta, o il documento cercato può non esistere in biblioteca. Ancora: il personale può essere occupato, o non capire bene la domanda dell’utente.
È chiaro anche da questa semplice descrizione schematica che le parti del sistema sono interdipendenti e che ciascuna delle quattro possibilità aperte all’utente mette quest’ultimo a contatto, diretto o indiretto, con gli altri elementi del sistema stesso.
In ogni modo, accettando che una biblioteca sia inevitabilmente uno strumento imperfetto per soddisfare le richieste d’informazione di ogni possibile utente in qualsiasi momento, resta impegno dell’utente quello di capire il funzionamento del sistema-biblioteca.
Ecco, qui sta la chiave, a mio avviso, del problema: nella Rete questo impegno sembra non sussistere (o almeno non è percepito).
Torno ancora sulle differenze di approccio: nella biblioteca fisica, l’utente deve:
– rendersi conto che l’informazione totale che cerca su un particolare argomento non può trovarsi tutta concentrata in una sola biblioteca, o in un solo punto della biblioteca;
– dedicare qualche tempo alla comprensione del modo in cui vanno usati i cataloghi e gli indici;
– esporre le sue richieste ai bibliotecari in forma chiara e adeguata;
– imparare a usare i servizi innovativi proposti dalla biblioteca. Così è stato nel passato, così è ancora oggi, ma soprattutto: sarà così nel futuro prossimo?
 
In Google, invece tutto sembra più facile: l’utente non deve compiere un percorso di questo tipo: gli basta digitare!
Il nodo, ripeto, è quello dell’accessibilità. Da qualche parte ho letto che qualcuno ha provato a digitare «Dante Alighieri» e in 26 secondi il motore di ricerca ha fornito la bellezza di 2.690.000 voci da controllare: non male per chi ha parecchio tempo da riservare al vaglio delle fonti! Ma se questo è vero, se cioè la velocità di risposta non sostituisce la precisione del dato, e soprattutto richiede molto tempo per verificarne l’attendibilità, allora perché le grandi istituzioni bibliotecarie (quali per esempio la Nazionale Braidense di Milano, o quasi tutte le biblioteche universitarie) vedono le loro sale di consultazione un tempo affollate oggi poco frequentate e con liste d’attesa quasi vuote? Dove vanno ad approvvigionarsi gli studiosi? Possibile che riescano a trovare tutto ciò di cui hanno bisogno in Rete?
Difficile dare una risposta precisa, azzardo qualche ipotesi: sicuramente vi sono ragioni, per così dire, storiche, nel «cattivo» rapporto utenti-biblioteche e una di queste riguarda le conseguenze dell’affermazione dell’Information Technology nelle biblioteche, la quale ha attraversato almeno due fasi fondamentali. La prima è stata quella dell’automazione, cioè il passaggio dalla lavorazione manuale a quella mediata dall’elaboratore elettronico (circa 19751990), la seconda quella dell’affermazione del pc (1990-1995) e la conseguente immissione sul mercato delle cosiddette «risorse elettroniche» (cd rom; dvd et similia). Nel passaggio tra queste due fasi, si è innestato, per così dire, Internet con la sua idea di «onnipotenza» che rendeva inutile qualsiasi forma di intermediazione. In questo frangente, le biblioteche hanno cercato di impostare una strategia di sviluppo di servizi innovativi volti a fornire un accesso controllato e filtrato all’enorme massa di informazioni disponibili. Ciò ha spostato il baricentro delle loro funzioni primarie, vale a dire: da selezionare, acquisire, rendere accessibile e preservare il patrimonio culturale a fornire istruzione e assistenza nell’utilizzo di tale patrimonio. Effettivamente poi la Rete, con l’affermarsi dei portali, e soprattutto con l’avvento di Google ha catalizzato l’interesse di utilizzatori che prima si rivolgevano alle biblioteche in cerca di risposte. Visto in questa prospettiva, il rapporto tra innovazione tecnologica e pratica biblioteconomica risulta essere stato sempre ambiguo. Se solo meno di dieci anni fa, nell’era geologica dell’avvento di Internet, quando le locuzioni «biblioteca virtuale», «biblioteca elettronica», «biblioteca digitale», hanno fatto la loro prima apparizione nella terminologia e nella fraseologia professionali (e nel senso comune sono state spesso considerate sinonimi), avessimo chiesto a un esperto qualsiasi se esistesse davvero la possibilità di realizzarle e con quali tempi, la risposta sarebbe stata sicuramente negativa: una «biblioteca senza muri», che abbia la capacità di cercare e recuperare l’informazione di cui abbiamo bisogno nel momento in cui ne abbiamo bisogno e nella forma desiderata senza muoverci da casa o dal posto di lavoro, non esiste ancora e non esisterà mai. Invece, tutto è cambiato assai in fretta e molte certezze sono state stravolte.
Ora probabilmente le biblioteche si trovano a operare in una nuova fase (la terza?): quella dell’Open Access. L’avanzata del movimento dell’«accesso aperto» sta rivoluzionando di nuovo le cose in Internet e non solo. Gli emergenti portali culturali on line rappresentano, in questo periodo, un elemento di grande importanza nello sviluppo della società dell’informazione. Essi operano, infatti, in un ambiente di condivisione dei cataloghi e delle risorse elettroniche, e le varie istituzioni bibliotecarie vi sono inserite a pieno titolo.
Un esempio pratico vale più di ogni altra argomentazione. Si prenda il caso delle biblioteche universitarie italiane (Sba, Sistemi Bibliotecari d’Ateneo). La Crui (Conferenza dei Rettori delle Università Italiane), organo consultivo di indirizzo del sistema universitario nazionale, ha stabilito in un importante convegno di due giornate a Messina, il 4 e 5 novembre 2004, di aprire il sistema universitario alle tematiche del libero accesso alla produzione scientifica nel nostro paese, e ha deciso di affidare alle biblioteche delle rispettive università la responsabilità operativa degli archivi istituzionali della ricerca aperti al pubblico.
Questa decisione non è stata la naturale conseguenza di un processo logico. Non è mancato, infatti, anche tra i bibliotecari, ma soprattutto fra i professori e i funzionari tecnico/amministrativi delle università, chi ha chiesto perché se ne debba occupare la biblioteca e non un organismo appositamente creato per gestire il nuovo.
La risposta, a mio avviso, è banale: perché l’anagrafe dei dati e dei materiali posti nella Rete (che può essere definita alla stessa stregua di una bibliografia) deve rispondere a precise norme descrittive (compilazione, norme sulla indicazione degli autori, catalogazione), ma soprattutto deve essere orientata alla facilità di accesso a tali materiali da un lato, e all’assistenza alla compilazione dell’archivio dall’altro. Tutte operazioni che da sempre sono proprie del bagaglio culturale e professionale dei bibliotecari.
L’Open Access, infatti, non è uno strumento privo di un suo «manuale delle regole», tanto meno il luogo dove norme e regole non hanno cittadinanza, ma deve essere il tramite per vedere affermati a livello internazionale strumenti pratici di utilizzo (self-archiving e digital archiving), cioè «metadati», come si dice in gergo tecnico, che vanno… catalogati. Tutto qui!
Ovviamente questo è un esempio (molto vicino alla mia esperienza professionale) che porto proprio a illustrazione del concetto che la biblioteca deve stare al passo coi tempi. In sintesi, per le biblioteche (e ora mi riferisco al sistema bibliotecario nel suo complesso) l’Open Access può anche costituire quella «biblioteca senza muri», di cui parlavo più sopra, cioè il luogo in cui può essere riversato il materiale prodotto dalla comunità intellettuale (pre o postprint: non fa differenza!) in repositories il cui accesso è aperto alla comunità.
Come concetto chiave per la diffusione della conoscenza l’accesso aperto potrebbe diventare occasione per nuove iniziative di progresso culturale, si tratta solo di risolvere alcuni ostacoli nella comunicazione e nel circuito di diffusione (soprattutto in ambito economico = i costi della cultura!).
Di ciò sono ben consapevoli gli stessi esperti dell’Open Access che stanno confrontandosi dialetticamente sul problema di «che cosa significa autore». Il risultato è stato il cosiddetto «creation model» che fornisce una rappresentazione completa di che cosa succede nelle fasi di produzione di qualsiasi contributo scientifico (in termini di stile, stampa, pubblicazione, descrizione dei dati, archiviazione e recupero dell’informazione). Ebbene, dopo infinito discutere, il «modello» scelto è stato quello sviluppato da Ifla (International Federation of Library Associations) e cioè, in parole semplici, le sane, vecchie regole di descrizione bibliografica in uso da circa due secoli nelle vecchie e care biblioteche.
Quindi, per concludere, la possibile soluzione del problema non consiste tanto nell’enfatizzare o, all’opposto, negare la responsabilità di Google nel calo delle utenze bibliotecarie, quanto nel cercare di capire se in questo fenomeno ci sia e quanto pesi l’inadeguatezza delle strutture bibliotecarie di fronte a nuovi modi di fare e consumare cultura. Penso, infatti, che non si debba confondere la parte (Internet) con il tutto (la diffusione della conoscenza). Internet, o meglio la Rete, infatti, non è solo Google (ci sono i gruppi di discussione, i forum, la posta elettronica, i server peer to peer): gli strumenti per la ricerca di informazioni in Internet sono molti, interagenti e/o complementari. Il compito delle biblioteche è quello di mettere ordine in questo mare magnum. Tuttavia, all’opposto, ogni resistenza è vana e i bibliotecari non devono commettere l’errore di credere che le loro biblioteche siano costituite solo dai documenti che contengono, magari pensando che il catalogo crei la collezione o addirittura la sostituisca. Perché l’utente è molto esposto al rischio di credere che il motore di ricerca sia la porta al tutto. Si tratta in entrambi i casi di un errore di prospettiva che solo una buona pratica può correggere.
Comunque vadano le cose, un fatto è certo: gli utenti abbandoneranno le biblioteche solo se queste non sapranno rispondere alle nuove sfide imposte dal cambiamento. Nel mondo del lavoro contemporaneo, e soprattutto nel mondo dell’informazione e della documentazione, le organizzazioni sono di continuo chiamate a confrontarsi con il mutamento, che è ininterrotto.