Perché leggiamo i gialli

È uno dei generi forti della modernità letteraria: svela il perturbante ma riconcilia con l’ordine, racconta il crimine ma manifesta fiducia nella giustizia, fa trionfare il bene ma è intrinsecamente laico, ha protagonisti comuni ma capaci di scoprire i più efferati disegni criminali. Sa ibridarsi con il romanzo storico, il rosa, il fantastico. Il favore dimostrato dal pubblico alla narrativa poliziesca coincide con il desiderio di confrontarsi con trame romanzesche gestite da un io narrante che conduca con spregiudicatezza la sua sfida al lettore. Dal giallo primario alle sfumature più intense del noir, insieme al colpevole si ricerca il piacere della lettura: e alla fine, il gusto della scoperta di un enigma ben congegnato ripaga della fatica di leggere.

In campo letterario, il passaggio dal ventesimo secolo al ventunesimo è avvenuto all’insegna del poliziesco: cioè del genere di romanzo che punta più astutamente al coinvolgimento del lettore nei meccanismi d’intreccio. L’insediamento di questo tipo di produzione libraria nel sistema editoriale italiano era avvenuto già da tempo: la data di riferimento abituale è il 1929, quando Mondadori lanciò una collana periodica intitolata «I libri gialli», accorto pseudonimo per evitare il ricorso a termini troppo espliciti. Ma per lo sdoganamento, ossia la legittimazione estetica da parte dei ceti colti, ci vollero ancora vari decenni, e l’entrata in gioco di scrittori altamente autorevoli, da Gadda a Sciascia, da Fruttero & Lucentini a Eco. Fu quest’ultimo a dare il colpo decisivo, utilizzando le convenzioni giallistiche con spregiudicatezza postmoderna ed efficacia eccezionale: successo megagalattico sia di critica sia di pubblico.
Così infine, nell’ultimo scorcio del Novecento si è arrivati a una vera invasione generale del romanzo poliziesco, a tutti i livelli, dai più sofisticati ai più grossolani, e nelle modellizzazioni più vecchie o più nuove. A impersonare questa irresistibile ascesa si può prendere Andrea Camilleri: gli ci volle una vita per farsi conoscere, anzi semplicemente pubblicare, ma da vecchio è diventato un glorioso re delle classifiche, mentre otteneva l’attestato di qualità costituito dall’inclusione nella famosa collana dei «Meridiani».
Evidentemente questa forma o formula di genere, così caratterizzata e così duttile, ha aumentato straordinariamente la sua presa sull’immaginario collettivo per effetto d’una crescita esponenziale del desiderio di assaporare il brivido dell’avventura, nei lettori forti come in quelli deboli. Si direbbe quasi che il grande assestamento della civiltà urbano-borghese connesso alla fine della Guerra fredda abbia avuto per contraccolpo una voglia dilagante di emozioni sanguinose, inquietudini, paure, ribrezzi da eccitare e insieme esorcizzare con le invenzioni narrative giallistiche. Questo genere romanzesco, tipicissimo della modernità, si prestava particolarmente bene al compito perché assicura l’appassionamento del lettore attraverso l’utilizzo sistematico dei meccanismi psicologici della curiosità ansiosa: che si traducono narrativamente nelle tecniche di calibratura della suspense.
La distanza abissale di questi procedimenti rispetto all’idea di letteratura prevalente nel Novecento sancisce il declino delle sofisticazioni elitarie, d’indole programmaticamente sperimentale e avanguardistica, esaltando il ritorno a orientamenti tesi ad allargare la cerchia del pubblico disponibile alla lettura, non a restringerlo selettivamente. Ma ovviamente il ricorso alla suspense, pur fondamentale, non basta di per sé a spiegare la fortuna travolgente del poliziesco. Va tenuto conto che lo statuto del genere dà una forte motivazione etica allo sfruttamento della curiosità per gli sviluppi del racconto, in quanto la qualifica come ansia di giustizia: ossia desiderio impaziente di veder ristabiliti i valori umani che il delinquente ha leso. E ai giorni nostri, si può capire che un’esigenza simile sia particolarmente sentita.
Bisogna poi aggiungere che il poliziesco è intrinsecamente laico: non presuppone alcuna fiducia in qualche corte di giustizia oltremondana, così come d’altronde non fa appello ai verdetti che saranno emessi dal tribunale della storia futura. Siamo su un orizzonte di attualità tutta terrestre. Su di esso viene inscenata una esplosione di pulsioni aggressive, delle quali il lettore è invitato a partecipare su un doppio versante: rabbrividendo alla loro impressionante manifestazione e condividendo la meritata punizione, conseguente allo smascheramento del colpevole. È vero che i giallisti più pensosi, come per esempio il giovane Sciascia, evitano di dare alle loro storie la conclusione dell’happy end più rasserenante. Ma la struttura del racconto d’indagine rimane la stessa, ed è sempre orientata a un accertamento di verità: che è comunque una vittoria morale dell’esigenza di giustizia, anche se priva di effetti pratici.
Forte della sua natura invariabilmente bifronte, tra il turbamento e la rassicurazione del lettore, il poliziesco si concede una disponibilità disinvolta a ibridarsi con le tipologie narrative più diverse, senza smentire la propria identità. Dal punto di vista dell’evoluzione dei generi letterari, la novità più significativa di fine secolo e millennio è l’incrocio del poliziesco con un genere di comprovata vetustà e nobiltà, il romanzo storico: Il nome della rosa lo ha riusato e parodiato, dando il via a una schiera di emuli e seguaci. Ma anche la fantascienza è stata cannibalizzata, lasciando inalterati i moduli dell’inchiesta, come nei romanzi goticheggianti di Valerio Evangelisti. Il fatto è che nell’epoca delle globalizzazioni, quando il pianeta è stato perlustrato per ogni dove, l’immaginazione avventurosa può assumere tinteggiature esotiche robuste solo proiettandosi a ritroso nel passato, prossimo o remoto, oppure inabissandosi nel futuro.
L’essenziale è che la vicenda punti sempre a rischiarare l’oscurità che avvolge, confonde e falsifica un evento delittuoso. Non si tratterà di un mistero metafisico, come tale impenetrabile, ma piuttosto di un enigma, da risolvere con le risorse psicofisiche di cui è provvisto l’indagatore, e che investono non solo il raziocinio ma anche l’intuito. Tutti sanno che un fattore decisivo di fortuna del giallismo è la possibilità offerta al lettore di identificarsi senza sforzo in una figura di eroe positivo modernamente inteso, magari non senza macchia ma senza paura, addestrato professionalmente a sventare gli inganni e vendicare i misfatti dell’illegalità. Dal frate Guglielmo da Baskerville di Eco al commissario Salvo Montalbano di Camilleri, all’ispettore Michele Ferraro di Gianni Biondillo, al sergente Antonio Sarti di Loriano Macchiavelli, al commissario Bordelli di Marco Vichi, all’inquisitore Nicolas Eymerich di Valerio Evangelisti, negli anni scorsi è venuta componendosi una galleria di ritratti quasi interminabile.
A passarli in rassegna, ci si accorge che per lo più presentano un tratto fisionomico unificante: sono incarnazioni dell’uomo medio e comune, quasi si trattasse dell’inquilino della porta accanto. Sì, il Guglielmo di Eco ha qualche aspetto superomistico, ma per compenso l’autore mette in risalto che non è affatto infallibile, e che la sua conduzione dell’indagine sfiora il fallimento. Quanto ai suoi colleghi dei tempi nostri, ciascuno ha i vizi, i difetti, le magagne della normale umanità. L’ispettore Ferraro di Biondillo, per citarne uno, è proprio un poveraccio, per non dire uno sfigato. Aggiungiamo un dettaglio. Uno stereotipo frequente vuole che il poliziotto, professionista serio e persona perbene, abbia una vita sentimentale disastrata. Caso esemplare, il ruvido Montalbano, che vive in Sicilia ma ha una petulante fidanzata residente a Genova; e non si sa bene se lui se ne consoli qualche volta con una pimpante svedesina.
Siamo comunque lontani sia dall’ascetismo del Philip Marlowe di Chandler sia dalla casalinghitudine del Maigret di Simenon. S’intende però che il sesso non manca di prendersi le sue rivincite. In effetti, diventa elemento basilare in un filone che di recente ha avuto sviluppi clamorosi, rivaleggiando con il classico giallo a enigma. La si chiami noir o horror o semplicemente giallo d’azione, questa tipologia ridimensiona il peso della struttura analettica, che fa consistere il racconto nella ricostruzione retrospettiva delle modalità e responsabilità di un crimine già avvenuto all’inizio della narrazione. Nel giallo d’azione l’indagine si svolge in simultanea con il compiersi delle imprese criminose, sovente replicate in serie. Siamo sempre di fronte al solito conflitto tra la Legge e l’Illegalità, ma in un clima di sovreccitazione dinamica e con esiti incerti, o per lo meno assai arrischiati.
Ad arroventare la suspense provvede l’enfatizzazione degli stimoli emotivi, in chiave sadomasochistica. Le grosse macchine romanzesche di Giorgio Faletti e Tullio Avoledo ipnotizzano il lettore con storie di psicopatologia sanguinaria ben più efferate, e scombinate, dei casi di ordinaria delinquenza dei polizieschi d’impianto tradizionale. E in un mondo pervaso da una sorta di delirio generale, non c’è da stupirsi se il protagonista ci rimette le penne in modo atroce, come capita in Lo stato dell’Unione di Avoledo. Il comprensibile desiderio di veder ristabilito il giusto ordine delle cose viene dunque deluso. Ma l’essenziale è che si arrivi alla scoperta della verità e all’individuazione dei colpevoli, anche se destinati a rimanere impuniti: come notoriamente capita spesso davvero.
Il punto è che, paradossalmente, il personaggio può ben essere sconfitto, ma l’io narrante è sempre vittorioso: nel senso che si rivela in grado di spiegare al lettore come si sbrogli la matassa. Naturalmente, in qualsiasi romanzo colui che narra la storia (in prima o in terza persona, è lo stesso) sa bene come si sono svolti i fatti, per il buon motivo che glielo ha detto chi li ha inventati, ossia l’autore reale. Ma nel genere giallistico l’io narrante fa finta ostinatamente di non saper nulla di più di quel che viene man mano comunicato esplicitamente dall’investigatore o alluso ambiguamente, compresi gli errori ed equivoci di cui in seguito ricredersi. L’uso della prolessi è rigorosamente bandito. Lo scopo di questa strategia è di tenere il lettore in uno stato di soggezione, di dipendenza accentuata da chi gli sta somministrando, tra mille trucchi e ambagi, le notizie necessarie per alimentare la sua curiosità.
Qui sta la ragione di fondo della fortuna incontrastata arrisa al giallo in tutte le sue coloriture nella stagione del postmoderno o del postpostmoderno: il desiderio dilagante di ritrovare il piacere della lettura attraverso trame romanzesche gestite da un io narrante tecnicamente ben preparato, che conduce con spregiudicatezza la sua sfida al lettore, in una partita di gioco nella quale vince chi perde. Se il lettore intuisce troppo presto come andranno a finire le cose, dà una prova di sagacia che potrà gratificarlo, ma facendogli cessare in anticipo il divertimento. Se invece gli toccherà aspettare sino all’ultima pagina per capire chi ha infranto la legge e perché, si sentirà mortificato per la sua scarsa bravura, ma sarà rallegrato dalla constatazione di avere scelto un libro ben fatto.
In un’epoca in cui tutto è regolamentato, omologato, reso prevedibile, e nello stesso tempo ognuno si sente esposto alla casualità e caoticità più sorprendenti, lasciarsi coinvolgere nei ritmi incalzanti dell’avventura poliziesca significa riconoscere all’immaginazione un compito che non è puramente evasivo e consolatorio. L’investigatore d’oggi, non è detto che appaia in condizione di ripagare adeguatamente i danni portati all’ordine costituito dai malfattori, individui singoli o bande organizzate. Ma si impegna comunque a fare chiarezza sulle manovre, gli imbrogli, le trame di cui è intessuta copertamente la vita di relazione. Rendere trasparente ciò che vorrebbe restare occultato, è un’operazione meritoria. Il genere poliziesco non è, su questo piano, palesemente indegno delle preferenze massicce che gli sono accordate.