Diventare grandi a Milano

La lettura di un quartetto di Bildungsroman che si svolgono all’ombra della madonnina (a firma di Simonetta, Busi, Pischedda, Mari) consente di chiarire i caratteri del rapporto tra singolo e città. Che il destino dell’eroe giovane si compia in termini di conflitto o assimilazione, repulsione o consapevolezza grata nei confronti della metropoli lombarda, i romanzi di formazione «alla milanese» rispecchiano esemplarmente i fattori di evoluzione o involuzione, allargamento spregiudicato o restrizione elitaria che si sono accavallati: Milano è sempre Milano, ossia la capitale della modernità culturale. E i piccoli uomini crescono, nella città più città d’Italia.

La diagnosi romanzesca più cupa e inquietante sui rapporti fra i ceti e le generazioni nella Milano secondo-novecentesca la pubblicò Umberto Simonetta parecchi anni fa: il libro aveva un titolo innocente, Lo sbarbato. Era il 1961, l’epoca del benessere ottimistico, della massificazione incalzante, del post e antineorealismo. La sigla editoriale era quella di una piccola casa di sinistra, la Parenti. L’autore era un esordiente in campo narrativo, anche se il suo nome era ben noto nell’ambito dell’intrattenimento comico, sia teatrale sia radiotelevisivo. Ma proprio questa fama collaborò a far sottostimare anzi sostanzialmente ignorare la prova di talento dell’opera prima romanzesca, tutt’altro che ilare e leggera.
Lo sbarbato è un romanzo di formazione alla rovescia: racconta come un figlio di buona buonissima famiglia diventi adulto incanagliendosi, con un’evoluzione rigorosamente lineare. A casa, sua madre è capace solo di piangere e strillare; il padre è un ambrosianone borioso e miope; la scuola gli fornisce solo nozioni libresche. Il luogo di socializzazione del ragazzo sono i bar. Frequentandoli quando bigia le lezioni, comincia con l’imparare un linguaggio diverso dal suo, più spicciativo e colorito. A differenza dei ragazzi di vita pasoliniani, qui l’italiano lo sanno tutti, anche se lo adoperano in chiave alquanto extraletteraria, mescolandolo col dialetto e ancora più con il gergo della piccola mala: giovani balordi, appartenenti non tanto al vecchio sottoproletariato, quanto a una nuova sottoborghesia, cinicamente asociale.
Il protagonista, che racconta in prima persona, si esprime come i personaggi ai quali ha voluto affratellarsi e dei quali emula le bricconate ai margini o fuori della legalità. Solo che loro le compiono per motivi pratici, spinti dal bisogno di far soldi, e stanno attenti a non incappare in crimini gravi: è il caso del grande amico, il sostituto paterno che Mario pensa di aver trovato nel famelico Mangia, uno che campa di furtarelli ma aspira al posto di fattorino con stipendio fisso. Lui invece, il protagonista, strafà, per dimostrare che non è un ragazzino dabbene ma un vero adulto, un duro. Così finisce per rendersi complice di un omicidio con rapina. Buon per lui che la polizia arresta un innocente: cosa di cui ci si può anche dispiacere un po’, ma senza prendersela troppo, «è la legge del menga».
Congegnato narrativamente in modo impeccabile, l’apologo dello Sbarbato vede nella grande città un intreccio e un rimescolio di spinte psicosociali in cui è facile andare allo sbando: e gli immaturi corrono i rischi più ignobili, quando la generazione adulta è troppo deficitaria. La perfidia dello scrittore consiste nel dare quest’immagine repulsiva della milanesità ostentando di assecondare il punto di vista, deviato ma interno al contesto ambrosiano, di un giovane che per sottrarsi ai conformismi tradizionalistici diventa un delinquente irresponsabile.
La violenta provocazione del libro di Simonetta cadde però nel vuoto: e comunque non ebbe emuli. Per trovare un’immagine diversa del ruolo assolto dall’ambiente metropolitano lombardo nel passaggio delle nuove generazioni dall’adolescenza alla maturità, occorre aspettare oltre una ventina d’anni, sin quando, nel 1984, esce il Seminario della gioventù di un altro esordiente, Aldo Busi, presso il titolatissimo editore Adelphi: e le accoglienze cambiano. I processi della modernizzazione urbana hanno fatto intanto passi da gigante e Milano esercita un potere d’attrazione più che mai forte sui ragazzi di provincia.
Ecco in arrivo il piccolo Barbino dalle campagne bresciane, luogo dell’arretratezza economico-sociale, dove vige un familismo autoritario a gestione matriarcale. Anche in questo libro il protagonista si autonarra, ma con un linguaggio complesso, impastato di sontuosità e arditezze spregiudicate, secondo le nervature di una sintassi soffertamene emotiva ma sorvegliata con lucidità da un’ironia puntigliosa. Il Seminario è una sorta di gigantografia dell’io autoriale, accanitamente narcisistico, assorto nel culto della sua sensibilità ipertrofica, tra sensazioni meticolose e intuizioni brillanti.
Lo sfoggio di bravura letteraria è frutto di una conquista particolarmente ardua, condotta in solitudine: a casa di Barbino i libri li si bruciava. L’emigrazione dal chiuso localismo paesano all’orizzonte aperto cittadino conferisce un segno di piena vittoria al passaggio dall’infanzia alla maturità intellettuale. Ma in questo percorso, il soggiorno a Milano rappresenta solo una tappa non decisiva, cui è dedicato un numero ristretto di pagine. Eppure è qui che il personaggio sperimenta la durezza del rapporto di classe, in una condizione di lavoro dipendente, per non dire servile: il cameriere di un bar di lusso, frequentato da una clientela di bella gente che l’io narrante sogguarda con disprezzo caricaturale. D’altronde, proprio qui viene per la prima volta a contatto con il mondo della miglior cultura letteraria: un ritrattino irriverente è dedicato nientemeno che a Eugenio Montale, bonariamente cordiale con lo svelto giovanotto ma per niente disposto a occuparsi dei suoi impicci.
Il punto è che il processo formativo di Barbino-Aldo subisce una torsione decisiva sul piano della sessualità: il personaggio è gay, molto gay, tutto gay. E per sviluppare con pienezza di orgoglio esibizionistico la sua scelta di vita, è meglio trasferirsi su uno scenario cittadinesco più rutilante e cosmopolita, più accogliente verso ogni forma di diversità. E a Parigi che si colloca la maggior parte del Seminario, che è anche la più originalmente spassosa. Il giovane emigrato italiano si trova infatti ad aver a che fare soprattutto con donne: una delle quali innamorata persa di lui. Il romanzo di costumi che procede da questa relazione/non relazione si svolge all’insegna d’un deprezzamento sfrontatissimo della femminilità. Ne nascono battute strepitose, come quella sui seni della ragazza «bellissimi, se mai si può parlare di bellezza per una cosa simile, nutritiva». Che è pure, a suo modo, un segno di piena fuoriuscita dal tradizionalismo erotico più accreditato.
Il classico contrasto fra città e campagna occupa per intero il primo piano, una dozzina d’anni dopo, nel 1996, con un terzo libro d’esordio: Com’è grande la città di Bruno Pischedda, editore Marco Tropea. E stavolta la metropoli lombarda assolve un ruolo pienamente salvifico nei confronti del paesano inurbato che funge da narratore e protagonista. Eppure a tenere la scena è la Milano dell’ultimissimo Novecento, la Milano da bere, quella di Mani pulite e dei cataclismi ideologici. Ma a dispetto di tutto ciò, Milano è sempre Milano, ossia la capitale della modernità culturale, sede non solo di grandi industrie editoriali, ma di istituzioni universitarie ad alto livello.
Per il giovane teppistello di basso ceto e incerta autocoscienza, proveniente da Cesate, l’approdo alla Facoltà di Lettere significa il gran salto di classe, e qualcosa di più: gli apre la consapevolezza delle contraddizioni fondamentali del nostro tempo, fra le spinte alla democratizzazione del sapere e i rischi di omologazione conformista dei prodotti intellettuali. Pischedda ha voluto dare conto di un percorso di crescita interiore che ha esaltato sotto ogni aspetto la sua personalità etico-sociale. Ne è nato un libro singolare, di genere suggestivamente misto: da un lato narrazione autobiografica, dall’altro riflessione saggistica; su un versante la rammemorazione aneddotica godibilissima delle imprese fatte e patite da un Gian Burrasca di provincia, spavaldo e ribaldo; a controcanto, le considerazioni pensose dettate dall’attualità della vita pubblica e dal dibattito delle idee nel periodo di fine secolo.
La pienezza dell’adultità raggiunta dal Pischedda di oggi rispetto a quello anni settanta si misura dall’atteggiamento di disincanto sobrio con cui sogguarda l’altro se stesso, al quale sente o crede di non assomigliare per nulla, anche se qualcosa deve pur essergliene rimasto al fondo dell’io. Certo, non c’è traccia di nostalgia, nessuna concessione all’intenerimento elegiaco nei riguardi del ragazzo d’un tempo, con la sua strafottenza ma anche l’ingenuità, le gaffe, le balordaggini gratuite. Quel ragazzo non esiste più, come non è sopravvissuto il paesetto arretrato e meschino in cui era nato. E c’è persino da stupirsi, a ripensare come erano fatti: possibile mai tanta rozzezza, tanta asfitticità di vedute?
D’altra parte, l’attitudine criticistica acquisita nel frattempo chiede di essere esercitata anche e soprattutto verso il presente, sia quello dell’io singolo sia della comunità urbana, moderna o postmoderna che si voglia definirla. E allora l’identità del giovane intellettuale, figlio di «quella fase impetuosa dello sviluppo che aveva accostato cultura bassa e cultura istituzionale», appare tutt’altro che consolidata definitivamente. Il passato non c’è più ma il futuro è ancora nebbioso. La persuasione della sconfinatezza dei problemi incombenti sull’esistenza individuale e collettiva alimenta la vena di inquietudine assorta che pervade le pagine di Com’è grande la città, assicurando il coinvolgimento del lettore.
A un anno di distanza dal libro di Pischedda, una fisionomia ulteriore di narratore/protagonista, sempre con l’ottica dell’ex bambino, si affaccia a opera di Michele Mari in Tu, sanguinosa infanzia, editore Mondadori. Qui finalmente sono i ceti colti, coltissimi della metropoli ambrosiana a trovare un portavoce di alta raffinatezza espressiva. Mari riprende il mito dell’infanzia come stagione incantata, sorretta da una pienezza di vita fantastica che l’età adulta non potrà non deludere e disperdere. Ma la fanciullezza appare al nostro scrittore anche l’epoca degli sgomenti inorriditi, delle ferite inattese e immedicabili. Tutto è già accaduto sin da allora, e di tutto va custodito gelosamente non il ricordo, ma la presenza nell’io.
Per adempiere questo compito, questa missione, la scrittura dovrà essere la più adulta possibile, la più sofisticata, la più iniziatica. Il dono supremo dell’animo infantile è la ricchezza trepida della sensibilità, al primo affacciarsi sull’avventura del vivere. Ecco allora il letterato espertissimo che è Mari effondere il suo amore sviscerato per i giornalini a fumetti, che diedero le prime indimenticabili sollecitazioni alle sue facoltà immaginative. Insieme a essi però si fanno avanti i grandi romanzi, i classici dell’avventura.
Mari organizza una gara singolarissima, allineando otto scrittori molto diversi fra loro, e molto dispari di livello: ciò che conta è solo l’efficacia degli appelli che rivolgono all’immaginario collettivo. I nomi sono Joseph Conrad, Daniel Defoe, Jack London, Henry Melville, Edgar Allan Poe, Emilio Salgari, Robert Louis Stevenson, Jules Verne. Al termine di una serie di eliminazioni, la palma viene assegnata all’autore di Moby Dick, «libro impuro che travolgendo le regole è nel contempo romanzo, trattato, poema, diario di bordo, tragedia, sacra rappresentazione, ballata, quel libro che interroga incessantemente la Morte incalzandola da presso come la lancia dei ramponieri incalza l’immensa bestia; quel libro dello squarciamento e del colamento, dell’urlo e della demenza, del tormento e della dannazione».
La salvezza sta dunque nella dedizione a una sorta di libro totale, che dice tutto quello che c’è da dire nel mondo e sul mondo. L’intellettuale moderno giunge a questa meta suprema di sapienza artistica procedendo da Mandrake Gordon l’Uomo mascherato al capitano Achab: sempre sorvolando la meschinità del vivere quotidiano, coi suoi problemi grettamente utilitari. E ciò vuol dire trascendere il linguaggio della volgarità discorsiva, per inventare un’elocuzione totalmente artefatta, in una mescolanza di ingredienti ai limiti dell’idioletto. Mari si colloca su una linea di estrosità espressionista che ha il suo capostipite nell’ottocentesco milanesissimo Carlo Dossi.
La capitale della narrativa d’intrattenimento più diffusa si conferma capace di ospitare i maestri di un aristocraticismo stilistico rarefatto, coi loro struggimenti vertiginosi, in contrapposizione alle facilonerie del vitalismo corrivo. L’intonazione profonda di Tu, sanguinosa infanzia è d’indole funerea, come di un’iscrizione tombale sull’infanzia defunta. E un sentore ancor più acre di decomposizione organica spira dal recentissimo libro di Mari, Verderame, da leggere come una rimembranza postuma degli incubi mortuari della puerilità. Ma alla letteratura spetta anche di ammonirci sempre che degli inorridimenti di un tempo meminisse iuvabit.
Sogguardato nell’insieme, il quartetto dei Bildungsroman più rappresentativi della milanesità contemporanea conferma che la struttura del romanzo di formazione porta a illuminare trasparentemente le dinamiche di ogni regime di convivenza associativa nel suo ganglio forse di maggior delicatezza. Viene infatti esaltata la problematicità del destino dell’eroe o antieroe protagonista, sia ascesa trionfale o disfatta clamorosa. Ma naturalmente, la vicenda individuale è sempre rapportata alle accoglienze che le generazioni adulte sono disposte a concedere alle nuove leve giovanili. E i romanzi di formazione «alla milanese» rispecchiano esemplarmente i fattori di evoluzione o involuzione, allargamento spregiudicato o restrizione elitaria che si sono succeduti o intrecciati nei processi di ricambio fra le classi d’età matura e quelle sopravvenienti, differenziando i cittadini doc dai paesani, gli eredi a pieno titolo dei ceti dirigenti dagli sbandati, i déracinés.