Figli senza padri

Dietro la «rottamazione» delle figure genitoriali di tanta parte della narrativa contemporanea, c’è quella dei modelli di vita, valori e disvalori incarnati dai padri, ormai screditati moralmente e civilmente. I giovani protagonisti non stanno più al gioco di un’Italia che cambia, ma non si rinnova; né tradiscono rimpianti per i bei tempi andati. Costretti nel guado tra un passato di arretratezza e un futuro incerto, osservano il presente senza edulcorazioni sentimentalistiche o convenzionalismi ideologici. E cosi il realismo romanzesco ai tempi della crisi salda inventività fervida e Bildungsroman di denuncia per raccontare – con una lingua sporcata ad arte – le vicende di due generazioni alle prese con lo sgretolamento degli entusiasmi più ingenui e clamorosi.

Le figure paterne spesseggiano, nei nostri romanzi d’oggi. Ma sul significato della loro presenza, bisogna distinguere bene: perché le cose cambiano a seconda che lo scrittore parli del rapporto del padre coi figli oppure di quello dei figli con il padre.
Nel primo caso, i risultati di solito sono poco interessanti. Valga l’esempio di Caos calmo, di Sandro Veronesi, dove il vedovo protagonista ostenta uno struggimento d’affetto per la figlioletta, mentre ha in mente soprattutto il lato B di una bella signora, che intende sodomizzare. Più anodino Le cose fondamentali, di Tiziano Scarpa, che già col precedente Stabat Mater aveva sancito l’abbandono della vena spudoratamente grottesca dell’esordio, Occhi sulla graticola.
L’interesse della lettura si solleva quando il narratore adotta il punto di vista di personaggi giovanili alle prese con il modello di vita incarnato dai babbi. Facciamo i titoli di Riportando tutto a casa di Nicola Lagioia, Acciaio di Silvia Avallone, Per sé e per gli altri di Maurizio Braucci; aggiungiamo, un po’ più indietro nel tempo, Come Dio comanda di Niccolò Ammaniti. Il racconto può essere in prima o in terza persona, il protagonista sarà di sesso maschile o femminile, starà accingendosi a entrare nell’età adulta o avrà già un certo patrimonio di esperienze: non importa. Ciò che conta è il rifiuto dell’autorità genitoriale, perché non fondata su un codice di valori condivisibile.
Non è che gli esponenti della generazione anziana appaiano considerati sempre dei falliti, non è detto. Ma si sono screditati moralmente e civilmente agli occhi scrutatori dei loro figli. Il personaggio di Braucci, al termine delle sue peregrinazioni oltreoceano, accerta che il papà, asso della sartoria maschile, era profondamente colluso con la camorra. I due emblemi della virilità adulta di Avallone sono, l’uno un bruto con concupiscenze incestuose, l’altro un truffatore senza vergogna. Lagioia mette in scena i nuovi ricchi di un Meridione modernizzato ma più incasinato che mai. Mentre il papà di Ammaniti, senza essere un malvagio, è uno squilibrato, un vero pericolo pubblico.
In questi libri, i figli non stanno al gioco di un’Italia che cambia, ma non si rinnova, non migliora davvero. D’altronde, non hanno nessun rimpianto per il paese di una volta, il paese dell’arretratezza, del sottosviluppo: e dell’arcaismo patriarcale. Non intendono volgersi all’indietro; il guaio è però che non sanno dove guardare in avanti. Sono più che mai in mezzo a un gran guado. Per intanto, quello che possono e vogliono fare è vedere le cose come stanno: senza edulcorazioni sentimentalistiche, compromessi d’accatto, convenzionalismi ideologici.
È questo il dna del nuovo realismo romanzesco, con la sua carica di inventività fervida che rende i testi attraenti alla lettura: perché la realisticità si coniuga bene con la leggibilità. Siamo oltre le sofisticazioni esoteriche della vecchia Neoavanguardia. E i destinatari elettivi dei migliori narratori di ultima generazione fanno riferimento a una intellettualità umanistica che non disconosce affatto i grandi classici (e non ha letto solo quelli italiani), ma sa anche come ci si esprime nel tempo della tv e di Internet.
Il loro è un italiano sporco, ma ad arte. Vale più che mai il memorabile detto del grande Edoardo Sanguineti, bisogna «sapere bene come scrivere male». Poi, che nel flusso discorsivo si infiltrino anche spezzoni poeticistici, e si metaforeggi, e si alzi il tono di voce, è naturale: in questi romanzi l’io narrante di solito è assai superiore al mondo narrato, e vuole farlo sentire, differenziandosi dal parlato quotidiano: cosa del resto in linea con la fondamentale norma moderna della mescolanza dei generi e degli stili.
Succedeva così già all’epoca del malfamato Neorealismo: i narratori si davano da fare per sliricare la prosa italiana, declinando il discorso su livelli mediobassi – però ci tenevano a esibire le marche della letterarietà più riconoscibile, perché non volevano affatto essere letti come semplici autori di documenti cronachistici.
Oggi potremmo forse dire che assistiamo all’espansione di una sorta di realismo mediterraneo, con una carica percepibile di turgore espressionistico nella violenza dei colori e nella spettacolarità delle strutture narrative. Non per nulla questi romanzieri provengono in maggioranza dai luoghi di un Centrosud che va sprovincializzandosi. Per lo più, si tratta di romanzi di avventure urbane, non campagnole, non paesane. E comune è la fisionomia costitutiva del Bildungsroman, il romanzo di formazione, impostato sul passaggio sempre arduo dall’adolescenza in boccio all’età delle responsabilità adulte: tanto più difficile per i ragazzi odierni, ai quali compete di trarre un bilancio dal retaggio di generosità ingenue e di errori clamorosi della generazione sessantottesca.
È singolare che dal Meridione provenga anche lo scrittore che ha portato in scena la vicenda storica di una collettività di forte radice settentrionale: il contadiname veneto trasmigrato in epoca fascista dalla Bassa padana all’Agro pontino bonificato dal fascismo. Ma Canale Mussolini di Antonio Pennacchi si distacca fortemente dai libri sin qui citati, perché non prende le distanze dal passato ma lo epicizza, come se a esprimersi fosse l’erede di un patrimonio da accettare senza tanti benefici d’inventario.
Il sacerdote che racconta, figlio illegittimo e incestuoso di una famiglia proletaria del ferrarese, non giudica e non discute le gesta degli avi, compreso l’orrore del massacro a bastonate d’un povero prete democratico, al tempo dello squadrismo più feroce. Letterariamente, il risultato è senz’altro apprezzabile per tutta la prima parte del libro, di ampio respiro e ritmo serrato. In seguito però l’autore sente spesso il bisogno di appoggiarsi a intermezzi storici che, col loro didascalismo di notizie scontate, appesantiscono e banalizzano il flusso narrativo. A conferma che il registro epico è difficile e insidioso da adottare, rispetto alla gamma di possibilità offerte dal codice formale romanzesco.
Naturalmente, tutto cambia quando i padri siano stati testimoni e martiri di eroismo civile: e la loro immagine non venga romanzata né epicizzata ma messa a fuoco nitidamente, col soccorso della memoria domestica, come accade nelle biografie scritte dai figli di Walter Tobagi, Luigi Calabresi, Giorgio Ambrosoli.