Scrittori postcoloniali e afropolitani

Il 2016 ha visto la ripubblicazione o ritraduzione di diversi romanzi nigeriani: che cosa è cambiato, a trent’anni esatti di distanza dal Nobel a Wole Soyinka, nella presenza della letteratura nigeriana in Italia? Come si sono trasformate la mappa dell’immaginario e quella del materiale in questi ultimi anni?

Sono passati esattamente trent’anni da quando, nel 1986, lo scrittore nigeriano Wole Soyinka vinse il premio Nobel per la letteratura. La traduzione del suo memoir, Sul far del giorno (2006), uscito in Italia nel 2007 per i tipi di Frassinelli (traduzione di Alessandra di Maio), viene ora ripubblicata dalla neonata Nave di Teseo. E c’è un secondo dato, altrettanto rilevante, che riporta la nostra attenzione sulla letteratura nigeriana. Il libro di Soyinka esce nella stessa collana, «Oceani», che ospita una nuova traduzione – Le cose crollano, firmata da Alberto Pezzotta – del romanzo che forse più di tutti ha rappresentato una pietra miliare per la letteratura africana postcoloniale, Things Fall Apart (1958), del nigeriano Chinua Achebe (già tradotto nel 1962, sull’onda del successo del Nobel, da Mondadori, e poi nel 1977, da Jaca Book e poi e/o, in un contesto già più sensibile alle letterature africane). Insomma, Achebe è entrato definitivamente nel campo della «traduzione infinita» (Alberto Rollo), riposizionandosi all’interno del sistema della letteratura tradotta in Italia. Il suo periplo editoriale testimonia un costante mutamento dell’orizzonte d’attesa sul quale si è ricollocata buona parte della letteratura proveniente dall’Africa subsahariana. Che cosa è cambiato nel nostro modo di leggerla? E che cosa è successo, in questi trent’anni, in quelle letterature? A quanto sembra, molto. E la Nigeria, paese che ospita diverse etnie e diverse lingue, tradizionalmente patria di scrittori anglofoni che hanno reso nota l’Africa all’Occidente, costituisce un osservatorio privilegiato per orientarsi all’interno di una mappa le cui coordinate, almeno da una decina d’anni, sono in profondo mutamento. Da altrettanto tempo, infatti, si parla di «terza generazione di scrittori nigeriani», tutti nati dopo l’indipendenza del paese (1960), per registrare la grande vitalità di scrittori e scritture proveniente dal paese di Achebe, Soyinka e del pluripremiato (Booker Prize 1991 con La via della fame) Ben Okri. E, se pure il dibattito si è svolto per lo più nell’accademia e nelle principali sedi critiche in ambito anglofono, dove ha trovato una cassa di risonanza in un articolato sistema di premi letterari, anche lo scaffale dei lettori italiani ha ormai registrato il mutamento in atto.
La ritraduzione di autori nigeriani o la loro trasmigrazione da case editrici piccole o specializzate a cataloghi di grandi editori ha interessato anche questi scrittori più giovani e permette di delineare una nuova mappa dell’immaginario: una mappa, è qui il caso di dirlo, genuinamente transnazionale, che cioè prende forma nel continuo andirivieni tra la realtà occidentale – per lo più la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, dove spesso gli scrittori della “terza generazione” hanno trascorso anni cruciali per la loro formazione – e la Nigeria contemporanea, dagli anni difficili successivi al boom petrolifero (1965-80) a oggi. Più che postcoloniali, etichetta utilizzata soprattutto per gli scrittori della generazione precedente, i nuovi scrittori sono stati raggruppati sotto il termine Afropolitan, che descrive «un modo di essere africani nel mondo […] di optare per l’ibridità culturale» (Gikandi). La parola è di conio accademico; è molto dibattuta, perché descriverebbe una realtà pienamente inserita nell’industria culturale occidentale, ed è stata rifiutata, più o meno veementemente, da diversi scrittori per i quali è stata usata. Senza voler entrare nel dibattito accademico, vale tuttavia la pena di sottolineare due dati salienti di questa nuova ondata, che definiscono le coordinate della nuova mappa africana, nel materiale e nell’immaginario: da un lato l’effettiva mobilità, sia degli scrittori sia dei personaggi delle loro storie, tra la realtà africana e quella occidentale, con una conseguente fusione, più che contrapposizione, dei due mondi, evidente fin nelle strutture narrative; dall’altro la progressiva centralità di scenari di modernità urbana, quello della Lagos contemporanea in primis, in cui prendono forma molte delle esperienze narrate così come molte delle imprese culturali che oggi fanno della metropoli nigeriana un importante centro dell’industria culturale globale.
Il vasto territorio dell’immaginario descritto dai giovani autori nigeriani si può percorrere lungo tre diverse direttrici. La prima è quella disegnata da romanzi ambientati in una Nigeria teatro di pesanti conflitti: notoriamente quello del Biafra – come in Metà di un sole giallo di Chimamanda Ngozi Adichie (2006, traduzione di Susanna Basso, Einaudi 2008) – ma soprattutto quelli causati dall’instabilità politica del periodo di grande crisi seguito alla fine del boom petrolifero. E qui che si addensa una quantità di narrazioni che prediligono il genere del romanzo di formazione: è il caso dell’fòzsco viola (2003, traduzione di Maria Giuseppina Cavallo, Einaudi 2012), sempre di Adichie, in cui la vita della protagonista Kambili, figlia della borghesia nigeriana, narratrice adolescente in prima persona, subisce una svolta decisiva con il trasferimento presso la casa di uno zio professore. In Graceland (2004, traduzione di Laura Prandino e Isabella Zami, Edizioni Terre di Mezzo 2006), invece, Chris Abani abbandona l’ambientazione borghese e intellettuale per concentrarsi sulle avventure del ragazzino Elvis nei ghetti della Lagos dei primi anni ottanta. Lo scenario bellico è anche quello del breve romanzo Canzone per la notte, sempre di Abani (2007, traduzione di Sara Marinelli, Fanucci 2010), in cui un bambino soldato, sminatore, cantastorie in prima persona, dà voce a una vicenda che ha in realtà riguardato molti. Infine, una guerra senza luogo e senza nome, che ha piagato, oltre la Nigeria, molti altri paesi africani, è al centro di Bestie senza nome (traduzione di Alessandra Montrucchio, Einaudi 2005) del giovane (classe 1982) Uzodinma Iweala, recentemente oggetto di un adattamento cinematografico prodotto e distribuito dal colosso Netflix. Comune a questi romanzi è appunto l’adozione della prospettiva di un personaggio bambino o ragazzo, quasi a voler “riscrivere”, da un punto di vista diverso e volutamente non “dominante”, le pagine fondanti della storia del paese dopo l’indipendenza, dalla quale poi (ri)partire per costruire narrazioni diverse, non per forza ambientate in Nigeria, o comunque non esclusivamente, come farà Adichie nel suo ultimo romanzo, Americana!) (2013, traduzione di Andrea Sirotti, Einaudi 2014), su cui torneremo più avanti.
Una seconda linea è quella di romanzi in cui a predominare è invece la questione identitaria di coloro che sono nati in Nigeria ma si sono formati in Occidente, ossia la linea che più di tutte ha portato a parlare di fenomeno “ Afropolitan”. È il caso dell’acclamato Città aperta (2011, traduzione di Gioia Guerzoni, Einaudi 2013) di Teju Cole (classe 1977), che narra di uno studente in psichiatria nigeriano alla ricerca della propria identità tra New York e Bruxelles: romanzo molto (troppo, vien da dire) sofisticato, ricco (forse sovrabbondante) di citazioni dalla teoria postcoloniale, ed esplicitamente ispirato a W.G. Sebald per l’uso massiccio della fotografia e di una scrittura cadenzata sui toni del saggismo. La Nigeria come scenario lontano, come origine, è anche quella della Bambina icaro di Helen Oyeyemi, che, strizzando l’occhio al mondo delle fiabe, con la storia di un amico invisibile (di un Doppelganger, come lo definisce l’autrice), racconta della crisi d’identità di una bambina nigeriana che vive a Londra. Dopo questo romanzo d’esordio, Oyeyemi ha scelto di traslare la questione identitaria in uno spazio-tempo altro, ossia l’America degli anni cinquanta in cui ambienta Boy, Show, Bird, uscito in Italia nel 2016.
Significativo, per tracciare una terza linea, emersa in tempi recentissimi, di chi è già erede idealmente della “terza generazione” e giunge al debutto in un contesto già mutato, è il caso di Chigozie Obioma (classe 1986), che ha riscosso un grande successo con I pescatori (2015, traduzione di Beatrice Masini, Bompiani 2016). La storia, ambientata a metà degli anni novanta, ha come protagonista Ben, nove anni, il cui padre deve trasferirsi lontano per lavoro. Quando il padre se ne va, Ben e i fratelli maggiori, sul fiume, incontrano il vagabondo della città, il quale preconizza la morte di uno dei fratelli. La profezia scatena le ansie – esplicite o meno – dei cinque fratelli, e finirà per avverarsi: un fratello ne ammazza un altro, e la vita della famiglia cambia per sempre. Con innegabili doti da scrittore, Obioma riesce a combinare con maestria una trama “mitica”, che si rifà alla tradizione africana, con una narrazione che non è astratta dalla realtà della Nigeria contemporanea: il mondo di Benjamin si muove così fra tradizione popolare e modernità piccolo-borghese, in un contesto decisamente urbano, due poli che non vengono visti come opposti l’uno all’altro. Il romanzo è sorretto da un efficace contrappunto tra una storia densa di elementi realistici (come la parte sui disordini in seguito all’elezione di Moshood Abiola nel 1993) che ci introducono in un ambiente africano per nulla stereotipato e un’altra, eterna e tragica, strutturata dagli istinti, dall’amore, dall’odio, dalla paura, da sentimenti universali. Arrivato dopo un decennio di grande sviluppo del romanzo, Obioma riesce così a tenere insieme un’anima più “letteraria”, che si rifà esplicitamente ai padri fondatori del moderno romanzo nigeriano, Achebe in testa, e un’attenzione alla realtà contemporanea.
Adichie, Abani, Oyeyemi, Cole e Obioma sono stati tutti lanciati dall’industria editoriale occidentale, fatto, questo, che ha dato adito a non poche critiche – in un certo senso fondate – sulla “mercificazione” (commodification, in inglese) di un immaginario che, per quanto rinnovato, è pur sempre molto “accessibile” al lettore occidentale. Eppure la “terza generazione” di scrittori nigeriani ha profondamente mutato anche la propria posizione rispetto al mercato editoriale nazionale e globale, assumendo spesso anche la veste di mediatore culturale tra la nuova realtà africana e l’Occidente. Una mediazione che è spesso e volentieri vera e propria mediazione editoriale. Se certamente i colossi dell’editoria di ambito anglosassone sono ancora bene presenti sul territorio africano, non si può non constatare come negli ultimi dieci anni l’industria editoriale e pubblicistica nigeriana abbia conosciuto un grande sviluppo, che ha profondamente mutato la posizione del paese sulla mappa degli scambi letterari a livello globale. Il grande successo di scrittori nigeriani all’estero ha generato una grande domanda anche in patria, intercettata proprio da coloro che, reduci da un’esperienza fuori dai confini, hanno saputo dar vita a un’offerta che intercettasse i profondi mutamenti sociali intervenuti nei primi anni del XXI secolo.
Per capire di cosa parliamo può essere utile soffermarci sul romanzo Americanah (2014), in cui Adichie racconta la storia di una ragazza nigeriana di estrazione borghese, Ifemelu, che alla fine degli anni novanta si trasferisce a Philadelphia per completare i propri studi: lì il sogno americano si infrange contro la difficoltà di integrarsi non solo come nera, ma come nera africana, e non afroamericana. Attraverso un lungo e doloroso processo, la protagonista prende coscienza di sé e inizia a tenere un blog in cui si rivolge ad americani, afroamericani e nigeriani. A partire da un episodio specifico, mette a fuoco in ogni suo post la posizione di chi, come lei e come molti degli scrittori nigeriani di cui abbiamo parlato, ha plasmato la propria identità pubblica, di scrittore e spesso di intellettuale, in un continuo transito fra l’Occidente anglofono – spesso con un passaggio decisivo in accademia – e una Nigeria sempre più moderna e per certi versi simile a quell’occidente, in cui spesso si sceglie di tornare. Così succede alla protagonista di Americanah che, dopo essersi affermata come blogger, torna in Nigeria dove lavora come giornalista per la stampa femminile. Scopriamo così, attraverso le avventure della protagonista, una Lagos che ha tutti i tratti di una metropoli contemporanea, popolata di personaggi borghesi e in rapida ascesa sociale, certo a fronte di un contesto per nulla immune da fortissime tensioni politiche, tra cui la presenza di Boko Haram (su cui non sono mancati di intervenire diversi scrittori consacrati in Occidente, come Helon Habila e Adaobi Tricia Nwaubani, quest’ultima autrice di Ragazze rubate: storia delle ragazze rapite da Boko Haram, traduzione di Viviana Mazza, Mondadori 2016).
E quello descritto in Americanah il contesto che ha favorito, oltre che lo sviluppo di “Nollywood”, ormai terza industria cinematografica al mondo per volume d’affari, la nascita di diversi editori indipendenti (ma non per forza di nicchia) che hanno saputo intercettare una domanda interna crescente. Proprio a partire dal (e grazie al) successo di autori nigeriani volutamente “letterari”, eredi della tradizione postcoloniale, la giovane industria editoriale nigeriana ha investito sulla letteratura di genere, nella convinzione che il vero sviluppo della letteratura africana si avrà quando il pubblico dei lettori si sarà allargato nel contesto nazionale con un’offerta nuova su tutta una gamma di generi, scritti a partire da una nuova consapevolezza e non più importati dall’estero. Da segnalare, in questo ambito, è per esempio Cordite, imprint dell’editore Parresia specializzato in gialli e noir, e diretto dallo scrittore “militante” Helon Habila. Ma forse ancora più interessante è la Ankara Press, imprint dell’editore Cassava Republic, dedicato solo a romanzi rosa.
«A new kind of romance», si legge sotto il marchio: diretta da Bibi Bakare-Yusuf, donna intellettuale di spicco e molto presente, con Adichie (a confermare la massiccia presenza femminile sulla nostra nuova mappa, del materiale così come dell’immaginario), nel dibattito pubblico in Nigeria. Ankara ha intercettato la grande domanda di romanzi d’amore con ambientazioni nigeriane contemporanee, che andassero a sostituire i classici d’importazione che certo non rispecchiavano i profondi mutamenti intervenuti non solo nell’immaginario femminile, ma anche in quello nazionale. Sono stati così pubblicati (in formato e-book), nel giro di un solo anno, una decina di titoli firmati da giovani scrittrici, con protagoniste volutamente emancipate, spesso impiegate nel terziario, e vicende ambientate nelle maggiori città africane. Si va dalla madre single Adoo, imprenditrice di se stessa (ha un catering di dolci) che in A Taste of Love (di Sifa Asani Gowon, 2015) trova l’amore in Toby, cuore solitario come lei, a Mira, giornalista ambiziosa protagonista di Black Sparkle Romance (di Amara Nicole Okolo, 2015) che prova un sentimento di amore contrastato per un fotografo che a un certo punto viene ingaggiato proprio dal suo giornale: il rapporto tra i due è sia di lavoro che sentimentale, e scruta così profondamente le aspirazioni della protagonista. Non mancano, poi, storie incentrate sul conflitto di classe, come in A Tailor-Made Romance (di Oyiandamola Affinnih, 2015), in cui una pubblicitaria di successo si innamora di un sarto, e tutta la vicenda riguarda la differenza di classe – ma soprattutto di “postura” sociale – tra i due. Si tratta di narrazioni affidate per lo più a narratori in terza persona, tradizionali, in cui in rilievo sono l’ambientazione moderno-africana, descritta con una buona dose di realismo, e la trama amorosa, nella quale veniamo immessi subito, come vogliono le regole del genere. Inutile a dirsi, sembra che l’iniziativa abbia ottenuto un buon riscontro di pubblico. Obiettivo riuscito, quello di Bakare-Yusuf, nell’associare a un marchio “letterario” e ormai riconosciuto globalmente (del 2015 è l’apertura di una filiale londinese) una produzione di largo consumo e fortemente ancorata a una realtà locale contemporanea, in grado di dialogare con quelle di altre metropoli “globali” emergenti, a tutti i livelli del sistema letterario.
Nuove narrazioni africane, polifoniche per generi e stili, si sono ormai pienamente insediate nel nostro immaginario, con un fenomeno per certi versi accostabile a quello dell’india nello scorso decennio. Come ha giustamente sottolineato il giovane editore romano 66thand2nd, molto ricettivo rispetto alle nuove realtà africane (anglofone come francofone), il minimo comune denominatore fra i libri da lui pubblicati non è tanto la provenienza geografica comune, africana, quanto il fatto di «ritrarre paesi in grande sommovimento culturale» (fonte: «Giornale della Libreria»). Un sommovimento culturale che si mantiene fortemente ancorato alla dimensione locale, ma che arricchisce decisamente la mappa del romanzo globale.