Fandango, ritratto di un editore da giovane

Fandango è il titolo di un film di Kevin Reynolds e il nome scelto da Domenico Procacci per la sua Factory che comprende: produzione cinematografica, distribuzione e ora anche una casa editrice autonoma: «Questo incrociare, intrecciare e anche incasinare le cose produce dei valori», ha detto. Soprattutto serve a far crescere talenti e a pubblicare testi che altrimenti nessun editore avrebbe preso in considerazione.
 
Se è vero che per dar vita a un progetto editoriale gli elementi imprescindibili sono: le idee, un po’ di sana follia e solide coperture finanziarie, il caso Fandango è destinato a confermare la regola.
Nata da una costola della Fandango, marchio cinematografico di film d’autore di qualità (da La Stazione di Rubini fino al recente L’imbalsamatore), la Fandango Libri ha iniziato la sua attività nel 1999 con un testo che pochi avrebbero pubblicato: La maschera di scimmia di Dorothy Porter, trecento pagine in versi. Eppure è andato bene al punto che della saettante quarantasettenne autrice australiana hanno tradotto ancora due libri di «poesia epica»: Akhenaton e Che gran capolavoro.
Non contenti, hanno poi puntato su un autore straordinario ma da noi poco conosciuto: John Cheever, pubblicato finora parzialmente dalla Garzanti e di cui loro invece intendono proporre almeno un libro all’anno. Un’operazione che solo un editore già affermato compirebbe a cuor leggero.
Mossa riuscita, anche se Cheever avrebbe meritato uno sforzo di unificazione linguistico-lessicale e dunque un unico traduttore (invece 11 nuotatore e Ballata sono stati riproposti nella versione di Marco Papi, mentre Falconer è uscito nella traduzione di Ettore Capriolo e Bullet Park è stato affidato a Vanni De Simone).
Hanno poi dato alle stampe due volumi ai limiti della contestazione da parte della legatoria: di 504 e 1.440 pagine rispettivamente, di uno scrittore americano contemporaneo in cui credono molto: David Foster Wallace. Intorno a Infinite Jest, secondo dei suoi testi pubblicati, del quale detengono l’unica traduzione mondiale, hanno anche organizzato un reading di lettura dal sapore beat: settantadue ore non stop al cinema Politecnico di Roma, che gestiscono in proprio.
A suggellare il progetto di una casa editrice che sembra prescindere dalla programmazione prudente, concorrono le copertine di Gianluigi Toccafondo che firma il lay-out dell’intero gruppo. Ognuna diversa, ma tutte legate dallo stesso segno pittorico “forte” che le contraddistingue. Copertine che tutti gli avevano sconsigliato, spiega Domenico Procacci, ma che alla fine sono state scelte perché: «Ogni copertina, ogni libro, è una locandina su tutto il nostro lavoro».
E il lavoro della Fandango vuole essere un lavoro di comunicazione a 360 gradi. Massima apertura del compasso: dalla produzione alla distribuzione di film d’autore e cortometraggi fino alla casa editrice. Un gioco di scatole cinesi al cubo, che funziona quanto più ampie e indipendenti sono le attività collegate tra loro. Unico filtro, irrinunciabile, la qualità.
«Volevo creare una bottega rinascimentale», racconta, «un luogo dove accadessero delle cose, che servisse ad accorciare le distanze tra generi e linguaggi». Una sfida ai tanti specialismi che soffocano il settore della comunicazione e impediscono alle idee di circolare. Mentre lui, Procacci, se c’è una cosa alla quale tiene è proprio questa: continuare a essere ricettivo agli stimoli, lasciarsi entusiasmare da un progetto e nello stesso tempo elargire occasioni a quanti si riconoscono nel suo lavoro.
Un’affinità di gusti e di scelte culturali precise risulta peraltro evidente anche solo a curiosare sul sito Internet (www.fan- dango.it), a guardare i manifesti dei film prodotti sin qui e a sfogliare il catalogo della casa editrice. Affinità che per quanto concerne la produzione cartacea è anche la conseguenza di una sorta di direzione editoriale unica di Sandro Veronesi, che in teoria dirige solo la collana di narrativa «Mine vaganti», in pratica è un po’ il direttore d’orchestra. E anche questa di affidare la collana di fiction a uno scrittore e non a un editor è una scelta anomala.
Quanto alla collana «Documenti», diretta da Anais Ginori, che ha meno di un anno di vita, non può certo essere neanch’essa accusata di conformismo. Alcuni testi come La principessa di Lhasa, storia vera di una monaca buddista incarcerata in Tibet, che da più di dieci anni lotta contro l’occupazione cinese, sono frutto di scelte encomiabili. Altri meno: ben poco condivisibile per non dire destabilizzante è in tal senso il libro di Thierry Meyssan, L’incredibile menzogna. Nessun aereo si è abbattuto sul Pentagono, che lascia interdetti non tanto o soltanto per il contenuto, quanto per l’operazione di marketing che ha previsto il lancio in libreria proprio per l’anniversario dell’l 1 settembre.
I libri per quelli della Fandango sono – con tutta evidenza – soprattutto veicoli non solo di ciò che comunicano, ma dell’idea di cultura cui si rifanno. Se glielo chiedete, però, Domenico Procacci alla domanda di come è nata l’idea della casa editrice, vi risponderà molto semplicemente: «Perché mi piaceva, era una cosa bella da fare». Una scelta di gusto per pubblicare ciò che di «inesploso» c’è ancora in giro, ha aggiunto, testi che altrimenti nessun editore avrebbe preso in considerazione.
Non è una contraddizione in termini, parlando di una casa editrice che è parte integrante di una società di produzione cinematografica? No, se ciò che sembra importare a Procacci è prima di ogni altra cosa la possibilità di creare un punto di aggregazione creativa intorno a un marchio in cui potersi identificare. Una delle immagini cui è ricorso per spiegare i suoi intenti è quella di un Caffè letterario. Un Caffè di stampo mediterraneo e non mitteleuropeo, però. Perché di forte impronta mediterranea è il senso della connessione, frammistione, confusione forse anche, tra generi, specialismi, linguaggi e insieme l’impronta che caratterizza tutta la casa editrice: con una forte prevalenza del valore aggiunto della fantasia sulla razionalizzazione.
Perfino il modo di considerare il mercato è il risultato di un atteggiamento poco usuale. In sintesi: non farsi condizionare dalle aspettative di vendita e fare solo ciò in cui si crede: «Se parti pensando al mercato che potresti avere, fai già uno sbaglio di partenza», sottolinea con forza Procacci. Ciò che non vuol dire ovviamente non dover poi tener conto del mercato. Ma poi, non prima. Del resto, e questo è un aspetto non incidentale, alla Fandango sono abituati a budget incommensurabili rispetto non solo a un semplice libro, ma a un’intera collana. Dalla loro particolare prospettiva di produttori cinematografici diventa quindi secondario l’immediato riscontro commerciale di un singolo testo. Non è una differenza da poco, rispetto a chiunque operi in campo editoriale, questa. E una libertà preziosa, che solo la garanzia di introiti cospicui provenienti da attività parallele può dare.
Ecco perché di contro a film veloci, che fanno tendenza, adatti spesso a un pubblico giovane, troviamo in catalogo testi corposi, talvolta difficili, immaginati per un pubblico di lettori forti che non si lasciano intimidire da tematiche complesse e scritture impegnative. Basti pensare alla produzione di un autore cult, ma leggero, come Muccino e a testi di scrittori poco conosciuti, ma pregnanti, come quelli di Blake Morrison e di Ken Kalfus, che per i tipi di Fandango ha esordito in Italia con Sete.
Procacci sembra essersi impegnato in una sua personale battaglia tesa a diversificare dalle altre attività il marchio editoriale. Una scelta strategica che affida a ogni ramificazione del gruppo un’identità separata capace sì di interagire e connettersi con il resto, ma anche autonoma e immediatamente riconoscibile di per sé.
Si potrebbe però aggiungere che i plot sia dei loro libri sia dei film raccontano spesso di storie di vita viste sotto angolature particolari, in voluta controluce con la cosiddetta normalità. Una critica che serpeggia e ritorna – quasi fosse una cifra poetica di predilezione – da un libro a un film a un cortometraggio. C’è un filo invisibile che collega Come due coccodrilli, film del 1994, al testo di Richard Farina Così giù che mi sembra di star su e a 11 libro di Caino di Alexander Trocchi. Una propensione al dato biografico, di racconto di un’esistenza, quale premessa ineludibile di autenticità che ben si coniuga con l’intento dichiarato di Procacci di voler «far crescere dei talenti» e aprire credenziali a quanti desiderano mettersi personalmente in gioco. E il caso tra gli altri anche di Ligabue che da puro rocker italiano ha saputo trasformarsi con Radiofreccia e Da zero a dieci in sceneggiatore e regista a tutti gli effetti.