di Stella Casiraghi

 

È possibile ricostruire a ritroso le letture che hanno formato prima e sono diventate frutto di progetti di teatro poi nell’immaginario di un maestro del Novecento? Sono molteplici i fili della memoria che si possono seguire per scoprire fra le carte private di Giorgio Strehler e nel confronto con i libri della giovinezza e della maturità la statura di testimone oculare del suo tempo conquistata proprio in virtù della natura e del fine che il regista attribuiva alla conoscenza.

La sua attività di interprete, consolidatasi a partire dai primi anni quaranta, fu una rivolta contro gli anni di censura e incultura fascista che avevano portato con sé il disfacimento del teatro come forma d’arte. La scena italiana richiedeva una rigenerazione sostanziale nel modo di creare e pensare lo spettacolo. La sua nuova idea di regia si propose di mettere al centro il testo, unitamente al ruolo dell’attore e degli spettatori.

Non riesco a pensarmi un simbolo della cosiddetta regia creativa, quella che talvolta rifà i testi del teatro a suo piacimento, quella che intesse variazioni ed interpretazioni del tutto personali, quella che ricopre con una invariabile e trionfale personalità il testo drammatico. Direi che sta qui l’angoscia che accompagna il mestiere vacillante dell’interpretazione, come il camminare di un cieco che scopre con le mani, con il tatto e le orecchie, il percorso giusto da compiere. Forse c’è solo una attitudine di fondo per accostarsi al significato estremo del testo drammatico: una estrema umiltà ed una estrema disponibilità. L’abbandono di ogni pretensione culturale persino e di ogni interpretazione culturale aprioristica che fatalmente ci fa credere sempre di avere «la nostra» interpretazione della struttura scritta e che la nostra personale riscrittura è quella giusta, ovviamente. Ed in questa umiltà davanti al capire il nucleo drammatico primario, il testo, le sue strutturazioni successive e le reazioni scritte che esse provocano nella collettività nasce anche il sentimento della coscienza sociale del mestiere […]. Richiede un vigilante senso morale, capace di cogliere nessi, messaggi, altre verità celate che si scoprono con fatica e meraviglia e che quasi distruggono alcune certezze che ci eravamo creati.[1]

Il piano artistico andò sempre di pari passo anche con l’attenzione partecipe del pubblico a cui l’artista attribuiva la necessaria funzione attiva di soggetto drammaturgico, vero e proprio co-produttore dello spettacolo. Nella sua visione l’evento teatrale era concepito come un incontro, un mezzo di animazione culturale, di conoscenza interpersonale, di soddisfazione di bisogni sociali.

Come riuscire ad essere primo ricettore senza frapporsi in modo arbitrario tra l’autore e il secondo ricettore, ossia il pubblico? L’opera scritta risulta già gravata da una serie di ipoteche: si tratta di tutti gli orpelli originati dalla sedimentazione, in epoche successive, di proiezioni postume, codici culturali diversi, diverse preoccupazioni e cadenze esistenziali, diverse problematiche sociali e filosofiche, modelli scientifici… Ma l’opera scritta è dotata di una forza propria che spesso resiste alle piccole grandi violenze esercitate dagli interpreti, lotta sempre per farsi capire, per riuscire a farsi attuare e attuale.[2]

Scorrendo anche solamente in parte le sue produzioni di prosa andate in scena al Piccolo Teatro sappiamo che fu lettore di Maksim Gor’kij, di Armand Salacrou, di Calderón de la Barca, di Carlo Goldoni, di Luigi Pirandello, di Aleksandr Ostrovskij, di Fëdor Dostoevskij, di William Shakespeare, di Thomas Stearns Eliot, di Carlo Gozzi, di Anton Čechov, di Thornton Wilder, di Henrik Ibsen, di Henry Becque, di Albert Camus, di Alberto Savinio, di Molière, di Georg Büchner, di Ugo Betti, di Sofocle, di Ernst Toller, di Ferdinand Bruckner, di Nikolaj Gogol’, di Jean-Paul Sartre, di Dino Buzzati, di Jean Giraudoux, di Alberto Moravia, di Massimo Bontempelli, di Federico García Lorca, di Bertolt Brecht, di Friedrich Dürrenmatt, di Carlo Bertolazzi, di Peter Weiss, di Jean Genet, di August Strindberg, di Samuel Beckett, di Gotthold Ephraïm Lessing, di Eduardo De Filippo, di Corneille, di Louis Jouvet, di Johann Wolfgang Goethe, di Marivaux e di molti altri. Restano gli amati poeti, Montale e Saba per primi, la musica tutta, Mozart in testa.

Ho un personale ricordo, indelebile, di alcune sue letture pubbliche al Teatro Studio, del Wilhelm Meister di Goethe, dei Canti di Giacomo Leopardi, di Vita di Galileo di Brecht e delle Memorie di Goldoni. Lo sento ancora implacabilmente dare vita e respiro a tutti i personaggi narrati con una sensibilità e una potenza generativa. Una lettura d’artista, da regista-autore.

E la sua abilità di lettore era palese ancor più nelle prove a tavolino, difficile raccontare l’incantamento dei primi passi di ogni suo spettacolo. Leggendo ogni autore sapeva disegnare di luce lo spazio e stratificare il paesaggio emotivo del contesto e della storia. Si percepiva nel suo metodo una sorta di lavoro da cesellatore-artigiano e da lettore-spettatore-regista: quello non era il commento sul prodotto da costruire ma la cifra creativa di ogni suo atto di interprete. Nella lettura Strehler mostrava alla compagnia difficoltà, compromessi e ombre dell’opera da mettere in scena e giocava con ogni registro. Insegnava a non trascurare per nessuna ragione di amalgamare intuizioni artistiche ed esigenze di palcoscenico. Affrontava i suoi dubbi con artisti e tecnici soffermandosi spesso con loro su ogni nuova idea, che costava ore di riflessione per poter essere tradotta compiutamente in azione drammaturgica.

Scriveva già nel dopoguerra, negli anni del suo apprendistato:

Ammettiamo per ipotesi che il processo della regia avvenga fra due poli: una conoscenza sensoriale di un testo drammatico e quella oggettiva dell’autore che si deve affrontare. Il lavoro procede sempre a tentoni tra questi poli con continui agguati, verifiche, ritocchi, riflessioni… leggere senza fine.[3]

Parole precise e meditate sono degli anni precedenti la fondazione del Piccolo Teatro di Milano:

Teatro è una risultante matematica i cui termini testo/spettacolo/pubblico ritrovano un senso ed una ragione d’esistere solo in funzione del loro equilibrio… all’uomo di teatro è impossibile trattare separatamente i pezzi della sua arte, le sue ragioni si collocano in un colloquio tra collettività e collettività. È lì che l’opera drammatica si ritrova e acquista la sua forma esatta.[4]

Agli inizi degli anni settanta e fino a metà degli anni ottanta diversi protagonisti della cultura teatrale del Novecento rinunciarono consapevolmente al valore del testo, eliminandolo o manipolandolo, riconducendolo esclusivamente al servizio delle necessità del fatto scenico.

Strehler, stigmatizzato solamente come padre della regia, si impose di non disgiungere la propria responsabilità sociale da quella verso le opere e i poeti, nei confronti degli interpreti e del pubblico. L’intangibilità della parola autorale con lui non perse forza, gli restò fedele.

All’opera scritta, in prima istanza, spetta il compito di produrre l’evento teatrale. Ed è per questo che anche la messa in scena più riuscita non impedirà mai all’Illusion comique di essere stata scritta e creata da Corneille e non da Strehler. […] Io dico molto semplicisticamente: non si può scrivere su una locandina, che so? Risveglio di primavera di Wedekind, regia di X e rappresentare (bene o male, genialmente o no) un qualcosa ove non esistono le parole di Wedekind, dove non c’è nulla, forse neanche una parvenza di trama e dove non di regia si tratta ma di sogno, di onirico divagare su un palcoscenico, di attori e suoni che valgono proprio perché sono se stessi e basta. Sarebbe onesto dire: ispirata da una idea, ma forse neanche questa, oppure una rappresentazione inventata da…[5]

Le parole di un maestro scuotono a volte, per lo più accompagnano. A un certo punto si ha forse la presunzione di capire, molte sue consapevolezze vengono spazzate via da tante disillusioni della Storia. Ma non ci si disamora di un maestro, mai, lui ti sostiene nelle lotte contro ogni possibile tentazione di fuga nel disimpegno. Ed è allora che ci si immerge veramente nella sua poetica. Si impara a leggersi attraverso le sue letture che fanno tutt’uno con le nostre.

 

Guarda l’incontro del 6 aprile 2022 Strehler lettore, il secondo dei tre incontri promossi da FAAM all’interno del palinsesto Strehler100 – organizzato dal Piccolo Teatro – e del ciclo di incontri “Strehler” città aperta, tenutosi presso la Scuola di Teatro Luca Ronconi.

 


[1] Giorgio Strehler, da un discorso tenuto a Roma, Convegno dell’Associazione nazionale dei critici di teatro, 1985, in Non chiamatemi maestro, a cura di Stella Casiraghi, Milano, Skira Editore, 2007, pp. 59-61.
[2] Ivi, p. 79.
[3] Id., pagine private (inedito).
[4] Id., Un discorso sul teatro, 1942, in Contro le barbarie. Scritti politici e civili di Giorgio Strehler, a cura di Stella Casiraghi, Milano, Zolfo Editore, 2022, p. 36.
[5] Id., Non chiamatemi maestro, cit., p. 79.