Dopo il postmoderno

È certo che il postmodernismo non ha lasciato le cose come stavano. E riuscito, infatti, a liberare il campo letterario dalle pastoie di un novecentismo ormai esausto, aprendo un orizzonte più spregiudicato, pluralistico e multiforme. Senza contare che ha saputo mettere in crisi il mondo della cultura nei suoi due aspetti cruciali: il rapporto con i lettori e la funzione dell’editore. Fondamentale a questo proposito il successo del Nome della rosa, che ha messo d’accordo i gusti del lettore con le esigenze di vendita e che è stato in grado di rilegittimare il romanzo (con tutti i suoi sottogeneri) come genere principe della modernità.

Comunque lo si voglia giudicare, il postmodernismo non ha lasciato le cose come stavano, per lo meno in Italia: nel senso che ha interpretato e promosso un cambiamento di mentalità ormai maturo, particolarmente nel campo della cultura letteraria. A venir messa in causa è stata l’idea di letteratura dominante nel corso del Novecento: quella secondo cui la vera letterarietà doveva rivendicare la sua estraneità irriducibile agli sviluppi strutturali della civiltà moderna. L’accusa dei novecentisti batteva su due punti interconnessi: l’industrializzazione della cultura e l’acculturazione di massa. Tradizionalisti e sperimentatori, spiritualisti e marxisti o marxistizzanti di scuola francofortese concordavano nel ritenere che l’arte dello scrivere debba costituirsi come un’alternativa radicale alla degradazione e l’imbarbarimento dei valori etico-estetici in atto nella società massmediatica.
Questo orientamento intransigente è stato posto in crisi dal postmoderno proprio nei suoi due aspetti cruciali: il rapporto con i lettori e la funzione dell’editoria. Ma a far emergere in pieno l’esigenza di una svolta è stato il fallimento della inedita strategia operativa impostata dalla neoavanguardia negli anni sessanta. Gli esponenti del Gruppo 63 e dei suoi compagni di strada avevano concepito un progetto straordinariamente spavaldo: attuare una politica di tipo entrista nei confronti del sistema editoriale, per proporsi come i campioni di una intellettualità nuova, giovane e pimpante, capace di indurre il pubblico colto ad accettare le sperimentazioni più laboriose, invece di lasciarsi sedurre dagli allettamenti mistificatori del «romanzo ben fatto». Naturalmente l’operazione, per quanto condotta con sagacia, non andò a buon fine. Non basta metter a portata di mano del frequentatore delle librerie Sanguineti o Balestrini per farglieli apprezzare e amare, abbandonando le «nuove Liale» Bassani e Cassola. E vero che i neoavanguardisti erano abbastanza spregiudicati da mostrare un occhio di riguardo per la produzione dichiaratamente da edicola, in quanto non concorrenziale con la loro. Ma a tradirli furono proprio i lettori di buon livello sui quali avevano fatto conto. Ed è stata la costatazione di questo errore strategico a innescare un ripensamento complessivo dei problemi della letterarietà, in termini più realistici e giudiziosi: anzitutto, proprio nell’ambito neoavanguardistico.
A impersonare il mutamento di rotta è stato infatti Umberto Eco. Lo studioso di Joyce, il teorico dell’«opera aperta» si è metamorfosato in narratore per scrivere un romanzo che più romanzesco non si può, calibrato sapientemente in modo da coinvolgere sia i dotti sia gli indotti – un «libro per tutti», avrebbe detto il vecchio Manzoni. L’ex avanguardista Eco era persuaso da sempre della necessità di rilanciare e rinsanguare l’area asfittica della letterarietà moderna: ma ora sera chiarito ultimativamente che per raggiungere un pubblico più largo e composito non si può non stabilire una sintonia con le sue capacità ricettive oggettivamente accertate: senza peraltro che ciò significhi di necessità perdere i contatti con il pubblico specialistico, quello dei laureati in lettere.
Questo, Il nome della rosa dimostrò che lo si poteva fare: non solo, ma con successo di vendite, plauso dei critici e felicitazioni degli editori. Fine del ciclo avanguardistico, o per dirlo in altro modo, fine del novecentismo; e ascesa del postmoderno. Le conseguenze si fecero sentire subito, nell’Italia che scrive e che legge. Anzitutto, cambiò la considerazione del bestsellerismo. In precedenza, se un libro otteneva un risultato commerciale cospicuo, veniva perciò stesso sogguardato con diffidenza astiosa: si trattava del sintomo di un cedimento ai gusti più corrivi, in obbedienza ai criteri della mercificazione più cinica. Da allora in poi, invece, nei confronti dei primatisti nelle classifiche degli incassi è subentrato un atteggiamento per lo meno di rispetto, quando non di apprezzamento ammirativo: il caso Camilleri insegna. Ciò implica un calo del sussiego aristocraticista verso il pubblico medio, non troppo sofisticato ma nemmeno immerso nell’analfabetismo; e disponibile a esperienze di lettura qualificate, purché non così affatturate da respingerlo, negandogli il diritto di far valere le sue preoccupazioni e aspirazioni.
Nella situazione tardonovecentesca, ne conseguono alcuni criteri di opportunità operativa. Per rendere produttivo l’incontro con l’immaginario collettivo più diffuso, la scelta preliminare da compiere è di collocarsi, a preferenza, sul terreno non della poesia ma della prosa. Anche in Italia, la forma romanzo ha ormai assunto definitivamente una posizione di centralità egemonica nel sistema letterario: un popolo di poeti è stato traghettato sulle sponde della narrativa romanzesca. Le avanguardie vecchie e nuove non avevano questo obiettivo, e prendevano in considerazione il romanzo solo per contestarne l’identità strutturale: in effetti, il Novecento è stato anche il secolo dell’antiromanzo. Ma il genere principe della modernità ha un’indole proteiforme che gli consente di inglobarselo, lasciandolo sussistere come una delle sue varianti interne più ghiribizzose. Ovviamente però la direttrice di marcia più consentanea ai postmoderni o postpostmoderni consiste nella riscoperta proprio dei sottogeneri più regolari e quindi più familiari a tutti.
E qui che si rende evidente il divorzio dalla mentalità letteraria prevalente nel secolo passato, che i generi li esecrava, confinandoli ai piani bassi del sistema; e per il resto li dichiarava estinti, in nome della libertà di invenzione che non tollera impacci di norme, schemi, convenzioni prestabilite. A prendere corpo è il ricongiungimento con le strutture costitutive della tradizione letteraria moderna, come si sono fissate lungo l’Ottocento, periodo chiave per lo sviluppo dei maggiori filoni narrativi, sia quelli di ascendenza illustre come il romanzo storico o il romanzo di formazione sia quelli di nascita bastarda come il poliziesco o il sentimentale. Beninteso i generi, anche quelli a identità più marcata, evolvono nel tempo, modificandosi, demoltiplicandosi, incrociandosi fra loro: come vediamo succedere ai giorni nostri, ad esempio con lo storico-poliziesco o il fantastorico o il giallo-rosa. Ma questa è solo una conferma della loro vitalità ribollente, che attraversa tutti i livelli della produzione. Rilegittimare i generi, sia pur con gli alibi dell’ironia snobistica, ha avuto il senso di un ritorno alla normalità istituzionale: giacché non si è mai vista una letteratura in cui i rapporti fra scrittori e lettori non si articolassero secondo una pluralità di modelli fisionomici e paradigmi di riferimento.
Ecco allora riprendere visibilità le tipologie romanzesche più animate dal senso dell’avventura, nelle configurazioni che ha assunto in epoca di modernità matura. L’esaltazione del gioco tra prevedibilità e imprevedibilità dell’esistenza, che è la base tensiva dell’immaginazione avventurosa, rimane tuttora utile per rappresentare suggestivamente i chiaroscuri del nostro mondo complesso e semplice, familiare e ignoto o mal noto. Il quadro narrativo potrà comporsi in chiave realistica o irrealistica, puntare sull’intimità personale o sull’estroversione sociale, proporsi una finalità accentuatamente conoscitiva o di intrattenimento ludico: non importa, l’essenziale è che sappia suscitare l’interesse e incatenare l’attenzione del lettore sino alla fine. E per farlo, non c’è mezzo migliore che agevolare i processi di identificazione nelle vicende di personaggi oggi più che mai lacerati fra il desiderio di realizzazione autonoma dell’io e i condizionamenti di una realtà prevaricatrice. Naturalmente, l’efficacia dei risultati dipende dalla bravura del singolo scrittore. Ma questo è un altro discorso.
In questa sede, importa solo dar merito al postmoderno di aver affermato l’attualità della strumentazione d’intreccio e l’icasticità ritrattistica che hanno fatto del romanzo il genere principe della modernità, come il più idoneo alla comunicazione con la maggioranza del pubblico socialmente disponibile. Questa sorta di recupero degli archetipi ha il senso di un ritorno alla leggibilità, a profitto dei ceti che avevano risentito di più il disagio conseguente all’antitesi secca tra cerebralismo solipsistico e banalità aproblematica. Ma la riconciliazione con i lettori aveva anche il valore di una rappacificazione con gli editori. Sottintendeva infatti l’ammissione che è troppo comodo scaricare sull’imprenditoria libraria la responsabilità per l’insuccesso dei testi a carattere più dichiaratamente elitario. Il buon senso impone di tirare in causa il modus operandi di chi quei testi li ha scritti e passati all’editore perché li immetta nel mercato librario. Che poi l’imprenditore prediliga le opere che promettono un ampliamento e consolidamento dell’utenza, non si può fargliene un addebito. Qualsiasi azienda si comporta così, uniformandosi a un principio di vendibilità che nel nostro caso tende a coincidere con quello di leggibilità.
Gran parte della miglior intellettualità umanistica novecentesca, invece, si è fatta un vanto di ignorare questi concetti, esaltando la natura intrinsecamente diseconomica dell’attività letteraria, di contro all’economicismo bronzeo del lavoro editoriale. Ma per quanti successi di prestigio le belle lettere giustamente ottenessero presso le persone arcicolte, ciò non poteva bastare ad allontanarne le prospettive di emarginazione dai circuiti di lettura più consolidati. In effetti, gli orfani della vecchia comunità letteraria sono arrivati a proclamare che la letteratura versa ormai in uno stato di sopravvivenza postuma: il che, se mai fosse vero, lo sarebbe soltanto per un certo tipo di letteratura orgogliosamente iniziatica. Ma non lo è nemmeno in questa accezione.
Verissimo è, tuttavia, che lungo il secolo la situazione è andata complicandosi, sotto un aspetto rilevante. Il sistema editoriale si è sviluppato nel senso del gigantismo oligopolistico: e nelle grandi aziende integrate è cresciuto a dismisura il potere non dell’intellettualità umanistica ma dei manager e commercialisti, professionisticamente inclini ad assolutizzare la ricerca della redditività immediata, puntando sullo sfruttamento dei filoni e formule più collaudati, senza star troppo a coltivare progetti a lunga scadenza. Sarebbe esagerato sostenere che la grande editoria è soltanto il regno dell’immobilismo conservatore, della serialità ripetitiva: nessun settore aziendale può adagiarsi in una situazione di staticità priva di aperture al nuovo, perché dovunque vige una logica di avvicendamento delle tipologie di prodotto, quando sia stata raggiunta la saturazione del mercato – purché beninteso l’innovazione abbia un tasso di vendibilità apprezzabile. Ma certamente i gruppi proprietari che investono i loro capitali nell’editoria sono diversi dal vecchio padronato familistico, mentalmente più duttile e più sensibile a ragioni non di puro marketing.
Per il ceto degli scrittori o aspiranti tali si trattava dunque di recuperare potere contrattuale nei confronti di una editoria meno incline di prima a subire il fascino della letteratura di qualità. E ciò proprio mentre aumentava sempre più l’offerta di una narrativa audiovisiva, che poneva ai letterati un motivo di inquietudine ulteriore: come poteva la narrativa scritta offrire all’immaginario collettivo gratificazioni di intensità tale da sfidare il confronto con la concorrenza del grande e del piccolo schermo. Il postmoderno indicò una risposta efficace a queste difficoltà nella spettacolarizzazione della pagina. Il romanzo neoavventuroso doveva sostanziarsi di fatti e fattacci, scene madri incandescenti, effetti di evidenza plastica tali da mobilitare i sensi del lettore: insomma tutto l’armamentario del melodrammatismo appendicistico, aggiornato secondo le lezioni del cinema o del fumetto e rivisitato con l’intelligenza colta di chi ricorre all’enfasi manieristica più ruvida per far passare le inquietudini più sottili. Questa miscela di risorse ben combinate, dove l’intelletto critico sorveglia i colpi bassi emotivi, è alla base del trionfo ottenuto dal Nome della rosa, che non è un’opera letterariamente impeccabile, e sul piano propriamente linguistico-stilistico non ha un’organicità né un’autorevolezza esemplari: ma costituisce indubbiamente il libro-manifesto del postmoderno in Italia.
Come è risaputo, le parole d’ordine postmoderniste circolavano da tempo all’estero, anzitutto in America; ed erano già noti da noi vari scrittori che si ispiravano all’una o all’altra accezione di questo movimento, alquanto magmatico. Ma solo la publicazione dell’opera prima di Eco romanziere ha avuto la forza dirompente dell’evento destinato a scuotere un’opinione pubblica tanto più vasta della cerchia dei letterati. Semmai si può aggiungere che poco prima o poco dopo Il nome della rosa sono apparsi due grandi libri che, in modi diversissimi, convalidavano l’orientamento a colmare l’abisso secolare tra la casta dei letterati e la generalità della popolazione. Certo, La Storia nulla ha che fare col postmoderno; e Se una notte d’inverno un viaggiatore, abbastanza poco: almeno, secondo me. Tuttavia sia Morante sia Calvino correggono i loro percorsi precedenti per collocare le rispettive nuove opere all’insegna di due poetiche dell’effettismo spettacolare – profondamente dissimili, va da sé, ma comunque inclini al recupero di una leggibilità non impervia.
Detto questo, il discorso sul postmoderno può anche considerarsi concluso: nel senso che la sua energia propulsiva si è arenata non molto dopo l’acclimatazione da noi. Il modello Nome della rosa non ha avuto prosecuzioni altrettanto clamorose per mano del suo stesso autore e non ha trovato scolari o emuli del suo livello: il romanzo storico-poliziesco-saggistico è stato molto letto, molto studiato ma pochissimo imitato. Naturalmente, non hanno mancato di farsi avanti narratori giovani o meno giovani in qualche modo riconducibili alle premesse generali del postmodernismo: e alcuni hanno anche avuto un meritato successo sia di critica sia di pubblico. Ma un filone, un raggruppamento, una tendenza identificabile mi sembra difficile configurarla. Detto in altri termini, i letterati hanno accolto con percepibile riluttanza l’invito di Eco a entrare in competizione per conquistare nuovi lettori senza perdere i vecchi.
Quanto al caso isolato di Camilleri, piuttosto che dargli una etichettatura specifica lo considererei una risultante del cambio di mentalità che ha portato a valorizzare tutte le poche esperienze narrative capaci di divertire gli arcicolti senza annoiare gli incompetenti. Certo, di postmoderno si è continuato a discutere per ogni dove, come oggetto di disquisizioni accademiche o di chiacchiere pantologiche. E va bene, perché la sua stagione è stata comunque positiva. Ma direi che l’efficacia della sua ambizione rinnovatrice va misurata soprattutto nella liberazione del campo letterario dalle pastoie di un novecentismo ormai esausto; e nell’aver aperto un orizzonte più spregiudicato, pluralistico e multiforme. Chi vi si inoltrerà meglio, non è ancora chiaro. Intanto però la situazione è stata rimessa in movimento. E scusate se è poco.