Il senso delle copertine

Ci sono quelle bianche, quelle blu, quelle che scandagliano le infinite sfumature del beige. Quelle con i quadri d’autore, con le fotografie in bianco e nero. Ormai, c’è chi le chiama packaging culturali. Sono l’avanguardia semantica del testo, e il più evidente rivelatore delle scelte editoriali. Definiscono il prologo dell’incontro tra lettore e libro, in un gioco continuo tra allusioni e illusioni. Ma soprattutto, le copertine rappresentano il primo strumento di marketing e di motivazione all’acquisto. Lo dimostra l’evoluzione della grafica libraria nell’ultimo quindicennio: nasce nelle grandi case editrici, e tiene conto della diffusione di massa della comunicazione visiva.
 
A voler cercare la lite, si potrebbe partire da un’idea brutale: se il libro è un prodotto, la copertina è il suo imballaggio. Intendendo per «copertina» non tanto la protezione fisica collettiva delle pagine quanto l’insieme delle caratteristiche percettive del libro visto dall’esterno: lo spessore (numero di pagine), la tattilità (la grana del cuoio, la «mano» del cartoncino), la sensazione che il libro comunica fin dal banco del libraio (o dallo scaffale del supermercato): aspetto lucido o opaco, colori e – via via distinguendo – caratteri, immagini, testi.
Poi, procedendo per questa via e per non giocarsi anche le simpatie dei lettori meglio disposti, si potrebbe temperare la rozzezza di questa impostazione ricordando che una copertina, più che un imballaggio, è un packaging nel senso in cui lo intendono i pubblicitari: cioè che, fatta salva l’importanza dei dati fisici e di quelli percettivi, quello che conta di più sono i valori semantici.
Da questo punto di vista, certo la copertina è un’immagine del libro, ma non perché ti debba raccontare che cosa ci troverai dentro (questo prova a farlo il testo sul risvolto o in quarta di copertina): perché ti propone un’idea di che cosa rappresenta quel libro nel contesto delle tue scelte di lettore, o delle tue scelte culturali tout court, cioè in termini di stile di vita complessivo.
La copertina preannuncia un certo rapporto tra il libro e il lettore, parla – più che del libro – dell’editore ed è sempre stata il primo rivelatore delle concezioni editoriali da cui nasce. Ha rispecchiato rivoluzioni culturali (le copertine dei tascabili Penguin e, nel dopoguerra, le copertine della vecchia «Bur») oppure semplici aggiornamenti del gusto che non travolgono le categorie di marketing editoriale (i «classici da collezionare», passati dalla rilegatura in finto cuoio a quella flessibile e colorata degli allegati ai quotidiani).
 
Copertine o patatine?
In questo suo alludere a modelli di vita complessivi il packaging culturale non è diverso dal packaging alimentare: anche su un sacchetto di patatine ce un «risvolto» che parla dei contenuti. Nei casi più evoluti indica il tipo di patata e di lavorazione; sempre elenca gli ingredienti – pensate se per legge si dovessero codificare e dichiarare gli ingredienti narrativi in quarta di copertina – e sempre propone un modello di consumo attraverso scritte e immagini. Anzi, si potrebbe dire – per rendere meno sgradevole l’accostamento ai lettori meglio disposti di cui sopra – che il libro ha precorso di molto tutte le altre merceologie in questo attribuire all’imballaggio valori semantici generali.
I biscotti narrano attraverso il loro sacchetto uno stile di vita (la vita schietta della famiglia allargata e concorde negli affetti a contatto con la natura – che il modello richieda per realizzarsi una struttura familiare ed economica disponibile più o meno solo alla schiatta degli Agnelli, è un altro discorso). Il libro, con la copertina, questo gioco lo pratica da sempre.
La copertina, insomma, da paratesto visivo e tattile, vive in misura più o meno importante una vita propria rispetto al testo e parla, più che di esso, delle sue condizioni di fruizione nel momento in cui viene pubblicato. Certo, l’ideale sarebbe che la copertina aderisse con finezza al senso del libro; ma non è mai necessario che la copertina lo rispecchi puntualmente.
Se l’editore poi, per convinzione o per rispetto della propria immagine di qualità, avverte l’incongruenza di scelte infedelmente evocative, ha di fronte due strade. La prima consiste nell’evitare il problema con una copertina senza immagini (esempi italiani: la «Medusa» di Mondadori e i saggi Einaudi). La seconda, più onerosa e raffinata, nel dedicare risorse alla scelta oculata delle immagini. Oggi lo fa bene Adelphi, che spesso addirittura sacrifica alla correttezza del riferimento culturale la carica evocativa del dipinto scelto per la copertina; e che perfino nella collana «gialla» dedicata al commissario Maigret (venduta anche nei supermercati) si permette splendidamente di mettere in copertina foto parigine degli anni trenta-cinquanta, con autori del calibro di Brassai. Noblesse oblige.
 
Un marketing dal volto umano
La tendenza degli ultimi quindici anni è comunque verso la valorizzazione della copertina come luogo di comunicazione esplicita. Certo solo gli editori di periodici, grazie alle risorse del mercato pubblicitario, possono permettersi di commissionare studi di mercato mirati a definire le buone regole per disegnare le copertine dei settimanali e dei mensili. Ma anche i – loro malgrado – più liberi editori di libri hanno quasi del tutto rinunciato alle copertine senza immagini, che sopravvivono solo in poche specializzatissime nicchie editoriali, dove non c’è concorrenza. Altrimenti le immagini sono costantemente presenti, perfino sui dizionari scolastici.
La spinta alla valorizzazione della copertina nasce anche qui dall’evoluzione strutturale delle case editrici e dalla crescita dell’attenzione al marketing editoriale; ma non nasce dai piccoli editori (orientati, secondo le risorse di ciascuno, sul filone citato: grafica senza immagini o immagini pertinenti). La svolta delle copertine italiane si afferma con la rivoluzione mondadoriana degli anni novanta e l’introduzione nel mondo del libro di una concezione dell’immagine ripresa dalla cultura del graphic design, della pubblicità e della comunicazione legata al marketing.
L’enorme catalogo di Mondadori e dei marchi del gruppo (Einaudi compreso) nel corso di un decennio si è progressivamente allineato a un livello di elaborazione delle copertine decisamente nuovo per il nostro paese, dove non conta la pura e semplice scelta dell’immagine ma la comunicazione coordinata tra testo e immagine (come in pubblicità). Le copertine si sono assunte il ruolo di orientare il lettore tra le collane del catalogo: gli «Oscar» si sono suddivisi in sottocollane tematiche distinte per le loro caratteristiche visive (le opere di Calvino, per esempio) quando non per caratteristiche fisiche (gli «Oscar poesia», diversi anche per formato e per lavorazioni in rilievo o con colori fluorescenti dell’immagine di copertina).
L’«ufficio grafico» di Mondadori, pur facendo capo a un unico art director (Federico Luci prima, Giacomo Callo poi) è divenuto in un decennio una rete di collaboratori operanti autonomamente in propri studi grafici piccoli-medi, diffusi su tutto il territorio nazionale, tra i quali viene suddivisa la cura di singole collane, sottocollane, frammenti di sottocollana o singoli titoli.
Gli altri editori grandi e medi seguono la stessa strada: RCS con le copertine di un italiano che ha lo studio a New York (Matteo Federico Bologna), il quale peraltro copre solo una parte delle esigenze grafiche della casa editrice, cui si risponde ancora con soluzioni stilistiche non omogenee; mentre nel gruppo Longanesi solo le copertine dei marchi Salani e Ponte alle Grazie sono affidate alle cure dello studio milanese GrafCo3 guidato da Mauro Panzeri.
 
Identità nella varietà
In questa situazione di sistematica frammentazione, come possono i risultati rispecchiare l’immagine coerente dell’editore? Trattandosi di un megaeditore basta che si conservino pochi caratteri comuni, tenuti sotto controllo dall’ufficio centrale; ma in realtà la fedeltà è garantita dalla stessa vastità del «parco collaboratori» impiegato, e si fonda su una koinè grafica coincidente con il linguaggio medio dei professionisti italiani (peraltro di ottimo livello tecnico). In questo caso l’introduzione nel mondo editoriale della cultura del marketing ha coinciso con una forte spinta – positiva – all’aggiornamento culturale: l’editoria libraria, già propensa per inerzia alle soluzioni della cultura tipografica classica (sempre più di tipo archeologico, anche per motivi tecnici), oggi ha un filo diretto con le esperienze contemporanee della comunicazione visiva, il che aumenta la sua capacità di entrare in contatto con il pubblico.
Fermo restando questo sfondo comune, l’elemento negativo dello scenario è se mai un antico atteggiamento di prudenza editoriale: la preferenza a operare non per collane (con coerente ma rischiosa previsione delle tendenze), ma per titoli singoli, che si adattano meglio al vento del mercato e impegnano meno risorse; in cambio non costruiscono identità, e da questo punto di vista l’organizzazione frammentata della progettazione delle copertine è perfettamente funzionale.
L’aspetto positivo dell’evoluzione delle copertine appare comunque dove la coerenza dei contenuti della collana o della serie viene fedelmente osservata: senza andare troppo lontano, il lettore che abbia avuto la ventura di seguire dall’inizio le pubblicazioni di Tirature (e che certo ne custodisce gelosamente la serie completa, in bell’ordine nella sua biblioteca) può confrontare la copertina di Tirature ’91 con quella di Tirature ’04.
La prima presenta il volume, per misure e per dichiarazione esplicita, come un tascabile, e nella tradizione einaudiana sceglie un’immagine di ascendenza colta e moderna: un libro d’artista, un «libro illeggibile» di Bruno Munari, fatto di immagini e non di parole. Quello che conta è che il legame tra immagine di copertina e contenuto del libro è sostanzialmente generico e indica semplicemente: a) che il contenuto del libro riguarda i libri; b) che il livello del lettore cui si propone l’opera è medio-alto. Per apprezzare la copertina occorre infatti che il lettore conosca l’opera di Munari: riprodotta in dimensioni minime com’è, non c’è modo di «leggere» correttamente l’immagine se non con l’aiuto della microscopica didascalia in quarta di copertina. Solo così e solo se si conosce l’opera per altra via e si comprende che il libro di Munari è un paradosso, se ne apprezza l’ironia. E la soluzione tradizionale che veniva adottata dagli editori di qualità.
Tirature ’04, invece, oltre a una maggiore complessità del paratesto di copertina (testata da periodico, sottotitolo della testata, titolo dell’annata), presenta anche un’immagine sostanzialmente diversa, che segue il criterio di visualizzazione della pubblicità. Il senso dell’opera (indagare le origini, anche produttive, della letteratura contemporanea italiana) è reso con un’immagine appositamente realizzata: il guscio d’uovo con il testo stampato all’interno, che non richiede didascalie ed è immediatamente comprensibile, senza altre spiegazioni.
È un esempio di come anche in Italia le copertine dei libri abbiano realizzato un ibrido, generalmente tutt’altro che infelice, tra la comunicazione «lenta» delle copertine tradizionali e quella fulminea delle copertine dei periodici.