Il tempo degli allegati

Un titolo alla settimana. Che spazio resta per la mediazione editoriale quando l’imperativo è, il settimo giorno, inondare le edicole di volumi? L’analisi degli allegati di «Corriere» e «Repubblica» dimostra che un margine di progettazione strategica non solo è possibile, ma paga già nel medio periodo. Dopo aver stordito lettori e mercato con tirature e vendite senza precedenti, i due colossi del giornalismo italiano approdano alla «fase due»: pianificazione delle collane, attenzione al paratesto, cura delle traduzioni, proposta di titoli nuovi accanto a quelli di catalogo. Trasformandosi in «nuovi editori» a tutti gli effetti.
 
In origine ci furono, negli anni novanta, i «Centopagine», la preziosa collana con cui Calvino, per i tipi di Einaudi, aveva consacrato trent’anni prima a genere editoriale quello che fin lì era stato solo un ibrido, il romanzo breve o racconto lungo: li ripescò e li mandò in edicola «l’Unità», in allegato al quotidiano. Ma coi ritmi del marketing, questo antefatto quanti siamo a ricordarlo? Parliamo, naturalmente, del fenomeno «romanzi in edicola», libri allegati appunto ai quotidiani, vera novità, in Italia, del terzo millennio (scenario al quale, da Verne ad Asimov, nessuno scrittore di fantascienza ci aveva preparato). Cifre – astronomiche – a parte (nei primi due anni 60 milioni di copie vendute), liti tra grande stampa e librai accantonate, la domanda che ci poniamo è questa: i nuovi editori arrivati sul mercato «cosa» ci vendono?
Di necessità, nella massa di volumi che strabordano dall’edicola, restringiamo il campo: ai soli titoli prodotti da quotidiani, tra questi ai soli due maggiori, «Corriere della Sera» e «la Repubblica», e a due soli generi, narrativa e poesia. Perché solo focalizzando l’attenzione su una parte, appunto sulla guerra che le due corazzate della carta stampata si sono condotte a colpi di Balzac e Baricco, Neruda e Dante, possiamo capire i meccanismi della nuova industria e il «cosa» essa produce. Cosa offra, intendiamo, in senso culturale.
Prima notazione: i due quotidiani, fin qui, hanno messo in vendita soprattutto titoli da catalogo, mentre i titoli-novità costituiscono, dell’offerta, solo una parte residuale. Nel campo novità si è lanciato in realtà il solo «Corriere», con le due saghe sui misteri d’Egitto di Christian Jacq, tradizionalmente autore Mondadori, pubblicate in prima edizione italiana nell’estate 2004; e coi libri delle «sue» firme, Fallaci su tutte, poi da Stella a Bossi Fedrigotti. Più anomala, l’operazione di «Repubblica» con Faletti: nella serie di «Le Strade del giallo» il 21 ottobre manda in edicola Io uccido, titolo che in quel momento, in versione tascabile, ancora è saldo in classifica. Ma, siccome Baldini Castoldi Dalai il 5 ottobre ha fatto uscire in libreria il nuovo thriller del comico-scrittore, Niente di vero tranne gli occhi, in questo caso siamo, è evidente, di fronte a un’operazione di rimbalzo, un titolo che fa pubblicità all’altro, studiata tra il quotidiano di piazza Indipendenza e l’editrice milanese.
Dunque: titoli da catalogo. Rispetto ai quali il mercato manifesta una sindrome da tempi di crisi: faccio provviste, compro l’utile e il duraturo, il «classico». Per di più a prezzo basso e garantito dal «mio» giornale: come, da Auchan o da Sma, comprare anziché lo sfizio griffato Giovanni Rana, gli spaghetti low price della linea della catena, quella che in gergo chiamano «private label».
«Repubblica» lancia la sua «Biblioteca» con i primi cinquanta titoli, poi altri cinquantadue, che attingono al forziere del Novecento. A essi seguirà l’«Ottocento». Il «Corriere» sforna i «Grandi romanzi italiani», poi allarga il tiro con la «Grande letteratura». In una seconda fase la guerra si sposterà sul fronte della poesia: «Repubblica» parte con la riedizione d’un classico, l’«Antologia della poesia italiana» curata da Segre-Ossola per Einaudi, prosegue con due volumi di poesia greca e latina, poi con le antologie spagnola e latinoamericana, araba, portoghese e brasiliana, russa, tedesca. Da via Solferino arriva nei chioschi, invece, «La grande poesia del Corriere», dove c’è un po’ di tutto, da Dante a Sylvia Plath.
Dietro, c’è un imperativo che, da gennaio 2002, accomuna la produzione dei due giornali, e che è presto detto: sfornare un titolo a settimana. Cioè: se l’editoria classica ha come vincolo primario costi e ricavi, i «nuovi editori», che ragionano su tirature e vendite da capogiro (tra le 100.000 copie vendute, all’incirca, per la poesia, e le 500.000 in media dei romanzi novecenteschi), hanno come vincolo il tempo.
E quando si produce in corsa la qualità ne soffre? La produzione allegata ai due quotidiani registra due fasi: la prima è l’arrembaggio al mercato, la seconda è la fase di una pianificazione, nei limiti, maggiore; la prima è quella di un nuovo ramo d’impresa affrontato con la struttura produttiva tradizionale, la seconda è quella in cui, accertato che si ha tra le mani una gallina dalle uova d’oro, la macchina si adegua. Diciamo comunque che la prima fase, in tutti e due i quotidiani, consiste in questo: tirar giù una lista di titoli e procurarseli, se stranieri e fuori diritti acquisendo i diritti di traduzione, se in regime di copyright i diritti sul testo. Solo che «Repubblica» pianifica l’operazione, perché la inventa. Mentre il «Corriere», colto di sorpresa, saccheggia anzitutto, per cominciare, i titoli della holding, il Gruppo RCS, che ha alle spalle. Un vincolo per entrambi: la mole, perché i libri devono costare tutti lo stesso prezzo.
Ecco perché di Proust, con «Repubblica», nella prima serie va in edicola non tutta la Recherche ma solo La strada di Swann, di DeLillo Rumore bianco anziché il suo capolavoro Underworld, di Joyce Dedalus anziché l’Ulisse. I primi tre titoli di «Repubblica», poi, svelano come, un po’ a tentoni, si cerchi di capire cosa voglia il pubblico: esordio con Il nome della rosa in regalo, e il mercato deglutisce in un paio d’ore 1.200.000 copie del romanzo di Eco, poi il seguito per il quale a piazza Indipendenza passano la notte in bianco, Cent’anni di solitudine di Garcìa Màrquez, stavolta a pagamento, e la domanda è: ma non ce l’avranno già tutti? No, le sue 500.000 copie le vende. Terzo lancio, al contrario, anziché col capolavoro dello scrittore universalmente noto, con l’opera un po’ meno nota dello scrittore, certo, universalmente amato, insomma Se una notte d’inverno un viaggiatore di Calvino. Che, dell’intera serie, risulterà essere, alla fine, uno dei libri più venduti. A piazza Indipendenza se ne faranno una ragione: qualunque cosa daranno al mercato, per qualche anno, verrà deglutita. Ora, la leggenda più accreditata (anche se smentita sia in piazza Indipendenza che in via Solferino) è che in origine l’idea del «romanzo al chiosco» sia arrivata dal quotidiano spagnolo «El Mundo», che l’abbia proposta al suo partner in Italia, il «Corriere», e che, vistasela rifiutare, l’abbia girata al concorrente «Repubblica». Da qui, supponiamo, un penchant un po’ strano per il romanzo spagnolo: nell’Ottocento di «Repubblica», due titoli su cinquanta, Clarin di Leopoldo Alas e Tris tana di Benito Pérez Galdós, un po’ troppi rispetto ai solo otto russi, visto che l’Ottocento, per la narrativa spagnola, non è proprio un jzg/o de oro. Mentre più ovvio, in stile vecchio liceo classico, è il peso degli italiani, cinque, Verga, Foscolo, Fogazzaro, Manzoni e Nievo.
Quanto alle prime serie del «Corriere» non mancano gli svarioni: tra i «Grandi romanzi italiani» appaiono due pièces teatrali, Gli esami non finiscono mai di Eduardo e Mistero buffo di Dario Fo; fa sussultare la consacrazione, in questo pantheon, di titoli più da sociologia della letteratura, come Vi’ dove ti porta il cuore di Tamaro, Castelli di rabbia di Baricco e Porci con le ali di Lombardo Radice-Ravera. E, in chiusura di una serie che ha pescato tutta nel secondo Novecento, ha un effetto comico il Decamerone. Ma appunto: è il tempo, tiranno, che detta le scelte, e Boccaccio, qui, s’immagina sia il riempitivo duna settimana vuota. Svarione niente male, nella serie successiva, il Frankenstein ripescato in «Bur» e pubblicato nella prima edizione del 1818, anziché nella seconda, rielaborata da Mary Shelley nel 1831.
Poi, la seconda fase. I «nuovi editori» decidono di trasformarsi in editori veri. Cioè, pur continuando a lavorare su testi acquisiti e non su novità, offrire al mercato prodotti che prima non erano in circolazione. Per «Repubblica», l’evoluzione si può datare già alla serie «Ottocento»: le quarantacinque opere straniere vengono offerte in nuove traduzioni, con biobibliografie, note e introduzioni critiche scritte per l’occasione. Le introduzioni sono firmate Umberto Eco e Carlo Pagetti, Giorgio Patrizi, Cesare G. De Michelis, Nadia Fusini… Insomma, sono di primissimo o primo livello. Ma visto il parco collaboratori del quotidiano sarebbe stato difficile far male. Idem le traduzioni, Barbara Lanati per i Racconti di Poe, mettiamo, o la riscrittura di Anna Karenina effettuata da Laura Salmon. L’iniziativa è di qualità tale da farsi perdonare l’esordio con Notre-Dame de Paris di Victor Hugo in coincidenza con la prima, a Roma, del musical di Cocciante… Il motivo della «conversione», raccontato da chi s’intende di marketing, è pratico e di marchio: costa più comprare i diritti d’una traduzione che far ritradurre; il quotidiano, in più, si trova in mano un prodotto – il copyright sulla nuova versione – spendibile nel tempo, oltre l’effimero della settimana in edicola; e l’acquirente sa di avere in mano un prodotto davvero «targato», un libro «di» «Repubblica».
Dopodiché l’operazione da editori veri continua con la poesia straniera (giacché la prima serie, italiana, era, l’abbiamo scritto, semplicemente frutto di un acquisto in casa Einaudi). In poche settimane, affidandosi a un service, si approntano le antologie spagnola e latinoamericana diretta da Martha L. Caufield, araba curata da Francesca Maria Corrao, portoghese e brasiliana da Luciana Stegagno Picchio, russa da Stefano Garzonio e Guido Carpi, tedesca da Monica Lumachi.
Il salto, il «Corriere» lo fa prima, più timidamente, con la «Grande letteratura», poi, poderosamente, con la poesia. Per la letteratura straniera arrivano i prefatori illustri: Magris per Kim di Kipling, per esempio. Per la poesia le prefazioni diventano veri saggi e rendono i libri novità vere: se Fernanda Pivano riscrive e aggiorna la sua vecchia presentazione di ]uke box all’idrogeno di Ginsberg e se Vassalli cura i Canti orfici del «suo» Dino Campana. Dietro, stavolta, oltre il marketing c’è una mente: Giovanni Raboni. Che avrebbe suggerito di far ritradurre anche i testi, se necessario. Ma il tempo, per la nuova editoria, è tiranno.
E appunto, nell’anno domini numero quattro dei «nuovi editori», la realtà è questa: hanno soldi per fare quello che altri non possono permettersi, hanno firme e studiosi quanti ne vogliono. Il loro unico lato debole è l’essere effimeri di necessità. Ma, anche su questo, si stanno attrezzando.