La vita non è un fumetto, baby!

Dick Tracy è coetaneo di Sam Spade: il giallo a fumetti nasce assieme alla «scuola dei duri», a quella lezione si mantiene lungamente fedele. In area italiana il fumetto d’atmosfera criminale si sviluppa relativamente tardi, ma per lo meno dagli anni settanta precorre e supporta quella istituzionalizzazione del genere che nella narrativa scritta ha corso assai più recente. Di rado vi compaiono investigatori come Alack Sinner, nel cui poetico e disperato squallore si riflette l’infelicità degli altri prima che il loro desiderio di prevaricazione. Ai giustizieri della violenza metropolitana, tuttavia, si oppongono gli eroi giallo-comici, da Alan Ford a Big Sleeping, che si fanno beffe della norma poliziesca proprio mentre tentano di adeguarvisi.
 
All’inizio, sulle pagine del «Vittorioso», c’erano la mascella quadrata e il pugno implacabile di Dick Fulmine (1938-1955), il poliziotto che soppianta gli eroi americani invisi al fascismo: ma gli schemi dell’esotismo avventuroso a fumetti vi sono appena ritinti di poliziesco, a opera di Vincenzo Baggioli e Carlo Cossio. Né hanno immediati sviluppi i tentativi di riduzione bambinesca della detective story intrapresi da Jacovitti, per esempio con il personaggio dell’arcipoliziotto Cip (1945). A un primo sguardo d’insieme sulle sorti italiane del fumetto, si direbbe che il giallo abbia stentato a prendere piede, almeno nelle forme canonizzate dai romanzieri. In un’ottica pedagogica, le sue tematiche «adulte» non sono ritenute le più adatte a un mezzo d’intrattenimento che viene destinato per lungo tempo a un’utenza infantile. In effetti i tempi e i modi dell’investigazione poliziesca, l’impianto del giallo a enigma, sono idonei alla narrazione distesa del romanzo; non paiono altrettanto conformi alle dinamiche più stringenti e animate del fumetto. Non sembrano del resto commisurabili alla dimensione romanzesca gli spazi perlopiù esigui entro i quali il racconto a fumetti è tenuto a svolgersi. Il nero, più che il giallo, è invece la tinta predominante nel fumetto d’atmosfera criminale, perché il nero risulta senz’altro più in sintonia con le istanze avventurose poste a fondamento dello stesso mezzo fumettistico. S’intende che a riscaldare l’immaginario dei lettori, almeno dagli anni trenta in poi, sono anzitutto le avventure del rischio e della prodezza fisica, del corpo a corpo con gli avversari, piuttosto che l’applicazione del raziocinio logico-deduttivo, la brillante ricostruzione del delitto su base indiziaria. Le origini di tale penchant risiedono nella primaria componente iconica del racconto disegnato: che sa offrire in presa diretta il dato di rappresentazione, assai più immediatamente di quanto possa fare il racconto verbale, e tende perciò a sottrarsi alla temporalità in certo qual modo sospesa, differita, dell’indagine retrospettiva, quale predomina per contro nel romanzo whodunit. Poiché il fumetto è in grado di sceneggiare visivamente l’azione, e in ciò risiede il suo maggior potenziale espressivo, ecco che i lettori, specie quelli inclini alle candide vampate dell’adolescenza, richiedono giustappunto l’azione, nuda e cruda, non la sua deduzione a partire da quanto è già accaduto. Insomma, se si racconta per figure, la sfida ai ferri corti tra carnefice e vittima risulta inevitabilmente più seducente – con i suoi moventi e i suoi incerti vitali – che non il ritorno sul teatro del delitto a cose fatte, al seguito del detective, soggetto terzo chiamato a ristabilire torti e ragioni per dovere d’ufficio.
La spontaneità pulsionale sollecitata dal fumetto si traduce, nell’ambito del genere poliziesco, in un arretramento cronologico dal momento dell’indagine post factum al momento del delitto o della sua reiterazione, cioè al momento del confronto violento: tra il criminale da una parte e la vittima, l’investigatore, o un antagonista altrettanto criminale dall’altra. Di qui il frequente spostamento della funzione protagonistica sulla figura del delinquente, motore primo degli eventi, e insieme la progressiva espunzione del ruolo di vittima dal sistema dei personaggi: nessuno può ritenersi innocente, grava su ciascuno il rispettivo bagaglio di colpe. E il rocambolismo d’ascendenza appendicistica, più che il romanzo poliziesco, a influenzare la nascita del fumetto «per adulti» in Italia. I primi nonché i maggiori eroi neri degli anni sessanta si ritrovano in Diabolik (1962), delle sorelle Giussani, e Kriminal (1964), di Magnus e Bunker. Essi perseguono una sorta di superomismo individualistico e edonista che li colloca al di là di ogni norma etico-sociale condivisa. L’uno lo fa con ambizioni estetizzanti di agio ed eleganza, l’altro con più genuina spregevolezza: analoga è la loro impareggiabile primazia. La brutalità dell’eroe nero può scatenarsi senza guardare in faccia a nessuno, perché nessuno in fin dei conti è degno di compatimento, tutti essendo dediti soltanto al proprio tornaconto: l’immoralismo del criminale è specchio di una società non meno corrotta ma ben più meschina di lui.
Se per un verso gli eroi del fumetto nero proseguono la vena dell’appendicismo truculento, per l’altro anticipano di gran lunga l’affermarsi del noir nella narrativa scritta. E senz’altro favoriscono l’acquisizione al racconto disegnato dei moduli polizieschi, insieme con un più generale svecchiamento delle concezioni fumettistiche. E negli anni settanta, di fatto, che il giallo consegue piena legittimità nella produzione di fumetti, e arriva a costituirne uno dei filoni portanti, con risultati tra i più significativi anche sul piano del valore estetico. Si delineano allora alcune proposte autoriali di tutto rilievo, come quelle di Magnus, Munoz e Sampayo, Giardino; «Il Corriere dei ragazzi», che diffonde il fumetto francese e belga, pubblica anche I grandi nel giallo e Uomini contro di Mino Milani e Sergio Toppi (1972), le storie dei ladri gentiluomini Gli Aristocratici e del detective invisibile L’Ombra di Alfredo Castelli (1973), mentre su un fronte più popolare l’Eura Editoriale di Michele Mercurio, Filippo Ciolfi e Stelio Rizzo (nata nel 1974) avvia con i settimanali antologici «Lanciostory» e «Skorpio» la divulgazione del fumetto latinoamericano, di cui il genere poliziesco rappresenta uno dei bacini più fecondi. Se il giallo autoctono non era ancora abbastanza consistente e differenziato rispetto alle esigenze dei lettori, occorreva senz’altro incrementare l’offerta mediante la produzione d’oltreoceano. Di rincalzo, ne traggono incentivo i polizieschi italiani ospitati in settimanali di enorme tiratura come l’«Intrepido» e «Il Monello», sui quali i fumetti erano già affiancati al giornalismo d’intrattenimento. Neppure l’Eura Editoriale peraltro si limiterà a un’iniziativa di importazione: saprà anche promuovere opere di autori argentini rivolte espressamente al pubblico italiano. Nella fattispecie, Spaghetti Bros., di Carlos Trillo, Guillermo Saccomanno e Domingo Mandrafina (1993), è un affresco d’ambientazione italoamericana in cui si intrecciano le vicende pittorescamente assortite dei fratelli Ferro: un prete, un poliziotto, un boss mafioso, un’assassina su commissione e una diva del cinema. La narrazione a sequenze alternate, di taglio sapientemente filmico, smentisce con acre ironia le illusioni che ciascuno nutre sul proprio conto e su quello degli altri, al di qua e al di là del perimetro familiare.
Per tal via quindi, tra originali proposte d’autore e opere di stampo seriale, tra elaborazioni nazionali e contributi esteri, il fumetto giallo recupera presto i suoi ritardi nei confronti dell’analoga forma romanzesca, mentre il genere viceversa giace ancora ai margini dell’istituzione letteraria. Il poliziesco fumettato costituisce una piattaforma espressiva dove consapevoli personalità autoriali e una più affinata sensibilità del pubblico possono incontrarsi per dare luogo a opere di buona leggibilità e insieme di pregevole esito artistico. Il fumetto d’autore e quello popolare trovano nelle strutture giallistiche un punto di mediazione tra le rispettive istanze. Non solo gli altri generi della narrativa disegnata, ma la stessa narrativa romanzesca sapranno trarre giovamento da tale reciproca convenienza tra le attitudini compositive e quelle fruitive. La massiccia diffusione e poi l’istituzionalizzazione del romanzo giallo che avranno corso negli anni novanta, poggiano anche sulla crescita del giallo a fumetti avviata vent’anni prima. Emblematica la parabola della Granata Press di Luigi Bernardi (1989-1995), nel cui pionieristico catalogo gli autori più interessanti del fumetto nostrano e internazionale, soprattutto giapponese, stanno fianco a fianco con esponenti della narrativa criminale che di lì a poco avrebbero conquistato gli allori letterari: Giuseppe Ferrandino, Carlo Lucarelli, Marcello Fois, Nicoletta Vallorani.
Conviene ripercorrere dunque, a monte della sua consacrazione letteraria, gli svolgimenti fumettistici del giallo, lungo un itinerario di rapida maturazione estetica. Nel 1969 Max Bunker e Magnus intonano con Alan Ford (Editoriale Corno; ora, Max Bunker Press) un controcanto farsesco ai loro precedenti personaggi neri: è una serie di lunga tenuta, il cui successo si basa anzitutto sulla coralità grottesca del gruppo TNT. Gli istituti del genere poliziesco si sovrappongono qui a elementi della narrativa spionistica, ma virano verso un antieroismo sbrindellato: il paradosso è che la salvezza della società dipenda da una manica di arruffoni affamati. L’esempio di Alan Ford viene seguito da Bonvi e Guido De Maria con Nick Carter, un cartoon che nasce nel 1972 per la trasmissione Rai «Gulp ! Fumetti in TV» (poi «Supergulp!», dal 1977): solo in seguito al successo televisivo subentra la trasposizione a fumetti. Di nuovo, è la dominante grottesca a segnare le fortune della serie: il disegno caricaturale è giocato su una gestualità greve ed enfatica, su una gamma fisionomica elementare, cui atti di violenza parossistica apportano ulteriori motivi di deformazione. La ripetitività delle situazioni topiche e dei tormentoni caratterizzanti illustra l’ingegno non proprio brillante dei personaggi. Le storie sono svelte, tra le quattro e le sei tavole ciascuna, attingono ai principali cliché della tradizione poliziesca come pure ai luoghi comuni dell’immaginario cinematografico americano. Nick Carter prevale sì, ma soltanto perché è un po’ meno sprovveduto dei malfattori, perché con il gigante Patsy e il minuscolo Ten costituisce un gruppo di lavoro affiatato, nel quale la balordaggine del singolo è compensata da quella dei compagni.
Entro un orizzonte parodico si muove anche Daniele Panebarco con il suo investigatore Big Sleeping, che sin dal nome appare ispirato ai classici chandleriani (le sue avventure appaiono dal 1977 su «Il Mago», poi su «Orient Express»). In questo caso però il giallo assume sfumature d’umorismo intellettualistico, sia nella costituzione grafica, basata sul bozzettismo essenziale proprio della vignetta satirica, sia nell’orchestrazione delle vicende: la gabbia degli stereotipi polizieschi è portata a reagire con realtà culturali estranee al dominio del genere, assicurando reciproci spiazzamenti. Le indagini di Big Sleeping ruotano attorno alle icone politico-filosofiche del movimento studentesco come a quelle della tradizione letteraria o religiosa; gli consentono di interloquire con celebrati personaggi dell’editoria fumettistica come pure di soppesare alcuni temi del giornalismo di costume. Un sarcasmo di prammatica hard boiled drammatizza il confronto dialogico dell’investigatore con comprimari e comparse, mentre i contesti, stravaganti o domestici, inficiano puntualmente la sua retorica sublimante. A essa, nondimeno, Big Sleeping si attiene con fermezza, gettando un alone cavalleresco sulle piccolezze terra terra che gli tocca attraversare.
Intenti più corrosivi guidano Stefano Tamburini alla creazione di Snake Agent (edito su «Frigidaire» tra 1980 e 1983, e riproposto in volume da Coniglio Editore nel 2005). Qui le istanze autoriali fanno poche concessioni alla popolarità. Snake Agent è un fumetto sperimentale che estetizza le risorse della fotoriproduzione, secondo la logica del ready-made, consiste nel riassemblaggio straniante delle tavole di Secret Agent X-9, classico personaggio d’avventura poliziesca inventato nel 1934 niente meno che da Dashiell Hammett e Alex Raymond (il padre di Flash Gordon e Jungle Jim, per intendersi). Assumendo le virtù della riproducibilità tecnica non solo nella fase di pubblicazione ma nella stessa procedura di realizzazione delle tavole, Tamburini abolisce ipso facto la necessità del disegnatore. Il gesto della copiatura «mossa» diventa volontario travisamento fotostatico, genera figure stirate e sfocate: esalta la vocazione ipercinetica del fumetto di spionaggio sino all’eccesso ridicolizzante, e insieme traduce graficamente l’esperienza psichedelica degli stupefacenti, il disorientamento etico-cognitivo del tossicomane, quale si manifesta lo stesso protagonista. La sintassi della pagina riassemblata conserva peraltro una compiuta leggibilità, in cui si rileva ancor più l’inconseguenza delle trame fulminee e dei dialoghi deliranti scritti da Tamburini.
I registri alti, anziché quelli comici o beffardi, sono adottati da Gian Luigi Gonano e Gianni De Luca per Il commissario Spada (sul «Giornalino» dal 1970 al 1982; poi nei volumi Edizioni BD-Black Velvet, dal 2002). In contrasto con il superomismo del fumetto criminale, tuttavia, questo funzionario dell’interpol di Milano si presenta come un eroe borghese, soggetto al mutamento e all’errore, contraddistinto da una moralità specchiata e un carattere burbero. Pure, non mancano nelle sue avventure gli aspetti tetri e angosciosi, desunti talora dall’attualità più controversa. Gli autori optano per approfondire il versante umano e privato del protagonista, vedovo alle prese con il figlio adolescente; sono indotti con ciò a elaborare strutture narrative articolate, in cui la linea di racconto familiare sia motivatamente intrecciata con quella investigativa. Il segno nitido di De Luca, la sua attitudine alla composizione chiara e geometrica interpretano con finezza la spigolosa dirittura del commissario.
Una presenza editoriale discontinua ma vivace e duratura contraddistingue Lo Sconosciuto di Magnus (1975-1996), un’opera spionistico-avventurosa le cui tappe autoconcluse si snodano tra le Edizioni del Vascello, il supplemento «S&M – Strisce e Musica» del «Resto del Carlino», le riviste fumettistiche «Orient Express» e «Comix» (in volume poi presso Einaudi «Stile libero», 1998 e «la Repubblica», 2004). La varietà delle sedi di pubblicazione è indicativa della inquieta ricerca svolta dall’autore bolognese, che si scioglie dai vincoli della produzione seriale condotta assieme a Max Bunker e approda a narrazioni più complesse, senza rinunciare tuttavia a una larga fruibilità. Gli ambienti in cui si muove il mercenario Unknow (lo Sconosciuto) sono quelli del malaffare internazionale, popolati di spie, guerriglieri, trafficanti, faccendieri. Princìpi propulsori dei singoli e delle organizzazioni sono l’avidità e la prevaricazione: V understatement del vissuto protagonista funge da reagente a contrasto con l’ipocrisia e il doppiogiochismo di personaggi all’apparenza più rispettabili di lui. Unknow non è un mattatore, anzi occupa spesso una posizione defilata, lasciando che una ricca schiera di comprimari illustri ambienti e strati sociali diversificati. Nei sanguigni giochi chiaroscurali di Magnus il nero prevale estesamente sul bianco. Le fisionomie degli attori sono tratteggiate sempre sul filo della caricatura, sebbene il registro narrativo volga nettamente alla drammaticità e i linguaggi tecnico-specialistici apportino nel dialogato robusti effetti di realismo. La caratterizzazione grafica, prima ancora che l’oggettiva ironia del racconto, smentisce qualunque simulazione di coerenza o dignità su cui i personaggi fondino la propria azione. Difficilmente il lettore può schierarsi per qualcuno dei contendenti, equamente abietti: non gli resta che far propria la disillusione dello Sconosciuto, vagliando per suo tramite le forze sopraindividuali che orientano la condotta di ciascuno.
L’eroismo sottotono dello Sconosciuto diventa vero e proprio antieroismo con l’Alack Sinner di Carlos Sampayo e José Munoz, autori bonaerensi che dal 1975 trovano in Italia, presso l’«AlterLinus» di Oreste del Buono, la temperie editoriale più consona al loro lavoro. I connotati dell’hard boiled sono assunti inizialmente in maniera compiuta, dalle didascalie autodiegetiche alla scansione del racconto per «casi» investigativi, dai tratti biografici del detective ex poliziotto al suo ruvido idealismo, talmente sopra le righe da risultare cinico. Gli stereotipi di genere tuttavia diventano veicolo a una cruda perlustrazione della quotidianità contemporanea, a cominciare da quella del protagonista stesso, còlto nella sua umanità domestica, seguito sin sulla tazza del cesso.
Il tempo dell’avventura investigativa si frammischia al tempo dell’inerzia esistenziale, delle incoerenze emotive, così da garantire al personaggio una psicologia di inedito spessore. D’altra parte l’insegnamento della «scuola dei duri» viene oltrepassato allorché l’etica del disincanto propria di Alack Sinner lo induce a cercare un contatto solidale con coloro, tra i diseredati, che conservano un barlume di umanità. Predomina nondimeno un quadro desolante della vita metropolitana, da cui si riverbera nell’io un macerante male di vivere. Le istituzioni, la polizia soprattutto, sono piegate all’abuso e all’iniquità; la massa dei concittadini propende all’opportunismo e al pregiudizio rozzo; un tale senso di precarietà avvolge la stessa occupazione di detective, che Alack Sinner è addirittura costretto a cambiare mestiere, finendo a fare il taxista. A poco a poco le maglie del genere poliziesco si allentano per offrire una più variegata panoramica delle contraddizioni sociali. Munoz la traduce visivamente in una galleria espressionista di maschere deformi, dove i corpi e le fattezze tendono a sfaldarsi nel viscidume del nero di china.
Una soluzione grafica opposta, improntata alla linea chiara, al disegno morbidamente controllato, alla composizione linda e meticolosa, è quella messa a punto da Vittorio Giardino per il suo investigatore privato Sam Pezzo, le cui avventure sono pubblicate tra il 1979 e il 1983 su «Il Mago» e «Orient Express» (una soluzione analoga varrà poi per lo storico-spionistico Max Friedman, ancora su «Orient Express» e su «Corto Maltese», a partire dal 1982). L’eleganza del tratto di Giardino fa a pugni con le situazioni morali rappresentate, di una scabrosità nella quale resta invischiato lo stesso protagonista. Sam Pezzo, altro personaggio di tradizione chandleriana, può vantare, dalla sua, l’attitudine a prenderle più che a darle, l’ironia sbruffona che si ravviva nei frangenti pericolosi, la disinvoltura con cui si muove nel sottobosco dell’illegalità: tutte doti che non gli risparmiano di prendere sovente lucciole per lanterne, né per questo lo rendono più simpatico. Ciò nonostante, sono proprio la compostezza e la fluidità delle strisce di Giardino ad assicurargli il favore di un pubblico classicamente educato.
Le riuscite più originali degli anni settanta imprimono un segno durevole alla produzione fumettistica diffusa dei decenni successivi. Tant’è che i protagonisti degli albi seriali editi da Sergio Bonelli, dagli anni ottanta in poi, sono quasi tutti accomunati nel segno dell’archetipo investigativo, diversamente dai personaggi bonelliani nati in precedenza. Benché vi risaltino dominanti di genere diverse da quelle giallistiche, i nuovi eroi dell’editore milanese recano in sé importanti caratteri del protagonista poliziesco. Si attua una sorta di generale «ingiallimento» dei diversi filoni fumettistici: Martin Mystère (1982) è «il detective dell’impossibile»; Dylan Dog (1986) è «l’indagatore dell’incubo»; Nathan Never (1991) e Legs Weaver (1994) sono poliziotti di un futuro fantascientifico; Napoleone (1997) e Jonathan Steele (1999) investigano in contesti permeati di visionarietà psicanalitica e di fantasia mitologica. I crismi esteriori del detective sembrano assunti talora con implicazioni parodiche, soprattutto nel caso di Dylan Dog. Ma non tardano a venire eroi di più sostanziale impostazione poliziesca o noir: da Nick Raider (1988) a Demian (2006), sempre editi da Bonelli, sino al plumbeo Detective Dante (2005) dell’Eura Editoriale. La novità più significativa, tra gli albi seriali, è forse costituita dalla «criminologa» Julia (Bonelli, 1998), che conferma l’introduzione del protagonismo femminile in un campo, come il giallo d’azione, di preferenza occupato da bei tenebrosi o energumeni viriloidi. Con ciò, il fumetto poliziesco si apre finalmente alle nuove leve di lettrici.
Accanto alle opere di schietta invenzione narrativa, poi, anche nel mondo antirealistico dei fumetti trova spazio il gusto del cronachismo romanzato di derivazione televisiva: la storia che più vera non si può. E questa la pista seguita ultimamente dall’editore trevigiano BeccoGiallo con la collana «Cronaca Nera» (2005), entro la quale vengono rivisitati alcuni epocali omicidi dell’Italia contemporanea, da La saponificatrice al Delitto Pasolini a Unabomber. Proprio il fondamentale antirealismo del mezzo fumettistico consente di mitigare la morbosità che dilaga viceversa nello pseudorealismo dei teleschermi: dove non di rado la ricostruzione documentaria e il dovere d’informazione s’intorbidano nel compiacimento del fattaccio o nel patetismo scandalistico.
La ricognizione sin qui condotta consente di individuare nel romanzo hard boiled il paradigma variamente reinterpretato dal giallo fumettistico tra gli anni settanta e gli ottanta: per contro le opere più recenti, da metà anni novanta in poi, risentono pesantemente del modello cinematografico offerto da Quentin Tarantino. In questo senso, hanno il pregio di non nascondere la loro principale fonte d’ispirazione le Pulp Stories di Diego Cajelli e Luca Rossi (Scuola del Fumetto, 1996; Edizioni BD, 2005), L’ultimo della lista di Alberto Conte, Andrea Piccardo e dello stesso Rossi (Magic Press, 2006) e Holliwood Bau di Francesco Tacconi e Mauro Marchesi (sul trimestrale «Mamba», varato nel 2005). Riguardo alla componente iconica, per altro verso, Luca Rossi sembra muoversi tra il Frank Miller di Sin City e il Mike Mignola di Hellboy, nelle masse nere compatte che squadrano le figure confluiscono tanto le ombre plastiche del chiaroscuro quanto le ombre portate e il buiore notturno degli sfondi. Mauro Marchesi, invece, opta per un’iconografia prossima da un lato ai disegni animati Hanna&Barbera e dall’altro al manga più affabile, in contrasto con l’efferatezza delle trame.
Un equilibrio grafico-narrativo più personale è raggiunto da Igort con 5 è il numero perfetto (Coconino Press, 2002; Rizzoli, 2006): romanzo a fumetti d’ambientazione camorristica, che racconta la catarsi di un vecchio guappo a seguito della perdita del figlio, guappo quanto lui. Il riscatto morale dell’anziano protagonista, peraltro, avviene solo a seguito della carneficina da lui stesso innescata per vendetta, nella quale finiscono sterminati sia il suo ex clan d’appartenenza sia il clan rivale. Qui, secondo l’esempio del miglior poliziesco a fumetti, le scorciature drammatiche degli scontri a fuoco si alternano a distensioni retrospettive ed elegiache, a squarci familiari di bizzarra napoletanità. Il semplicismo sin troppo studiato del disegno, pur controbilanciato da una livida bicromia, non rischia certo di nobilitare personaggi che nel migliore dei casi appaiono ambigui.