Messaggi rassicuranti e torbide peripezie

Il mercato dei bestseller non è ostile alle nuove proposte, quando corrispondono alle attese e ai bisogni ricreativi dei lettori. Entrano in classifica, e qualche volta «tengono» dalle stagioni precedenti, un buon numero di opere prime e seconde di narrativa, accomunate da un problematismo assorto e meditabondo sulle sorti dell’io negli ambiti metropolitani. La veemenza sulla pagina si addice più alla saggistica d’attualità a opera delle grandi firme del giornalismo, che stigmatizzano vizi e problemi del paese, senza però rinunciare a una prosa affabile ad alto indice di leggibilità.

Il motivo di maggiore interesse della rassegna dei libri più venduti nella stagione 2007/2008 lo fornisce certamente il nutrito drappello di opere prime e seconde di narrativa confortate da un ampio e a volte sensazionale favore di pubblico: cinque titoli nella top ten, una dozzina nelle altre posizioni. Tali riscontri tuttavia suggeriscono soltanto che il mercato dei bestseller non è ostile alle nuove proposte quando corrispondono alle attese e ai bisogni ricreativi dei lettori. Non giustificano invece alcuna enfasi generazionale. Se è vero infatti che spiccano i nomi di giovanissimi come Paolo Giordano o l’ormai arcinoto Roberto Saviano, non mancano d’altra parte i debutti tardivi, come quelli di Sam Savage (classe 1940), Stieg Larsson (1954) e Anne Holt (1958). Il ricambio divistico non passa cioè attraverso l’immedesimazione anagrafica o identitaria, e tanto meno è sollecitato da intenti di rottura, comuni ai movimenti artistici sorretti da un esplicito programma di ringiovanimento delle istituzioni culturali.
Precisato questo, la riflessione può muovere dalla straordinaria tenuta di una coppia di volumi d’esordio già apparsi nelle stagioni precedenti: Gomorra (2006), che si conferma al primo posto con 2.158 punti, e Il cacciatore di aquiloni (2004), terzo con 1.651 punti. Entrambi si sono giovati della forza di richiamo delle rispettive trasposizioni cinematografiche. In concomitanza con l’annunciata uscita del film, il romanzo/inchiesta di Saviano, dopo un’assenza di quattro settimane dalla top ten, inizia difatti la risalita in aprile, riconquistando il primo posto il 31 maggio e rimanendovi per cinque settimane consecutive. Analogamente, il romanzo di Khaled Hosseini, rimasto fuori dalla top ten per due volte nel mese di marzo, balza al secondo posto il 5 aprile, mantenendosi in posizioni di testa fino al 17 maggio.
Il ritorno di fortuna dei due libri, assistito da una rinvigorita campagna promozionale, non dovrebbe stupire: pagina scritta e grande schermo hanno stretto rapporti di special relationship fin dalle origini della modernità culturale, avvalendosi dei metodi di pianificazione delle sinergie propri della matura industria dell’intrattenimento. Vero è che, dal Nome della rosa in poi, il numero dei romanzi che dimostrano una vitalità di gran lunga superiore al normale ciclo stagionale dei bestseller ha subito un grande incremento, quasi a compensare il declino del catalogo, sacrificato alla logica della razionalizzazione commerciale e del contenimento dei costi di magazzino. Limitandoci ai titoli più longevi dell’ultimo decennio, basterebbe ricordare L’ombra del vento (2001) di Carlos Ruiz Zafón (che nella stagione appena trascorsa si insedia al dodicesimo posto con 682 punti), Io non ho paura di Niccolò Ammaniti (2001), Non ti muovere di Margaret Mazzantini (2001), La ragazza con l’orecchino di perla di Tracy Chevalier (2001), Io uccido di Giorgio Faletti (2002), 100 colpi di spazzola prima di andare a dormire di Melissa P. (2003), Il Codice da Vinci di Dan Brown (2003) e Tre metri sopra il cielo di Federico Moccia (2004).
Ma c’è un’altra linea di tendenza degna di nota: le opere prime e seconde accolte con maggiore benevolenza dal pubblico sono in massima parte italiane o europee: Ineleganza del riccio della francese Muriel Barbery (seconda con 1.792 punti), La solitudine dei numeri primi di Paolo Giordano (ottavo con 1.002 punti), Mal di pietre di Milena Agus (280 punti), Mille anni che sto qui di Mariolina Venezia (158 punti), Quello che ti meriti della norvegese Anne Holt (125 punti), Uomini che odiano le donne dello svedese Stieg Larsson (124 punti).
Questi risultati vanno però interpretati sullo sfondo di un duplice fenomeno: da una parte, la formazione anche nel nostro paese di una schiera crescente di narratori disponibili a tenere aperto senza pregiudizi il dialogo con i lettori di massa; ma dall’altra, la disponibilità del mercato a perlustrare territori inediti o poco esplorati, secondo il fruttuoso esempio offerto dalla distribuzione cinematografica, ormai da tempo propensa a sfruttare le potenzialità commerciali delle produzioni emergenti. Quello a cui assistiamo insomma è un prudente ma significativo ampliamento degli orizzonti geografici del bestseller, tanto per quel che riguarda i mondi immaginativi rappresentati quanto per i mercati nazionali di acquisizione dei titoli. Oltre ai successi scandinavi sopra menzionati, ne rendono conto il buon esito di Mille splendidi soli (terzo con 1.651 punti), seconda prova narrativa dell’afghano-americano Khaled Hosseini, e quello di un altro romanzo d’esordio: Le ragazze di Riad della ventottenne saudita Rajaa Alsanea (121 punti).
Certo, in tutti questi casi il fascino dell’esotico, ammantato di vaghe simpatie terzomondiste e di radicati timori no global, gioca un ruolo di primo piano, non sempre edificante. Ma quello che preme sottolineare in queste note è un aspetto di carattere generale. E cioè che, al contrario di quanto è stato spesso paventato, la mondializzazione dei mercati non deprime affatto le periferie dell’impero editoriale, bensì le esorta a forme di emulazione competitiva, in cui fattori di uniformità di gusto e di differenziazione culturale si integrano programmaticamente.
D’altronde, è significativo che anche i due esordi statunitensi che hanno incontrato il gradimento dei lettori – Firmino di Sam Savage (399 punti) e Le benevole del quarantenne Jonathan Littell (168 punti) – si distinguano in modo inequivocabile dagli schemi ipercollaudati del romanzo d’azione d’Oltreoceano, proteso a tradurre i timori e gli affanni della coscienza contemporanea nell’alacrità parossistica di un ritmo narrativo fitto di eventi. Il nuovo clima sembra piuttosto favorire il ritorno a un problematismo più assorto e meditabondo, che trova espressione in forme narrative che lasciano maggiore spazio alla rappresentazione degli stati d’animo e dei processi mentali attraverso i quali vengono filtrate le esperienze raccontate.
La controprova la offrono i risultati relativamente modesti delle grandi firme della suspense e del brivido: Il professionista di John Grisham (258 punti), Il libro dei morti di Patricia Cornwell (139), Lduma Key di Stephen King (42 punti). Le preferenze del pubblico più sensibile ai motivi di fascinazione dei misteri investigativi vanno piuttosto ai testi italiani che, pur senza porre in sottordine gli elementi fattuali dell’intreccio, danno risalto ai processi cognitivi della detection rispetto a quelli emotivi del thriller: Il campo del vasaio (686 punti) di Andrea Camilleri (presente in classifica anche con altri tre testi di diversa indole) e Pochi inutili nascondigli di Giorgio Faletti (348 punti).
Un caso a sé stante è rappresentato dall’ambizioso Mondo senza fine, sesto con 1.133 punti, con cui il britannico Ken Follett, accantonati i modi della spy story e del techno-thriller, ritorna all’avventura storica già sperimentata in I pilastri della terra. Ambientato in un’immaginaria località dell’Inghilterra del Trecento, Mondo senza fine è un polpettone in costume, modellato sugli schemi della fiction televisiva. Ma la narrazione non è priva di una certa efficacia, soprattutto quando mette in scena le resistenze con cui ha dovuto misurarsi la modernità incipiente su uno dei terreni che le è più peculiare, quello della ricerca medico-scientifica.
Dal punto di vista dei contenuti, tuttavia, a risultare predominanti sono soprattutto quei romanzi che sceneggiano le perenni difficoltà che nella sua aspirazione a un’esistenza pienamente realizzata l’io incontra nei contemporanei ambiti metropolitani. È questo il tema di un terzetto di testi che presentano una singolare affinità tematico-strutturale: sia L’eleganza del riccio sia Mille splendidi soli e La solitudine dei numeri primi sono costruiti infatti attorno al confronto di una coppia di personaggi, dissimili eppur eguali.
Custode in un ultrasignorile condominio parigino, la cinquantaquattrenne Renée, protagonista del romanzo della Barbery, si conforma agli standard di comportamento che ci si attende da una donna della sua professione. Ma in segreto coltiva un amore per le buone letture, la filosofia e la musica classica, che la eleva al di sopra dei ricchi inquilini di rue de Grenelle. A lei fa pendant la dodicenne Paloma Josse, figlia di un ex ministro, che ostenta atteggiamenti ispirati alla più fatua sottocultura adolescenziale ma nel suo diario dimostra una precoce capacità di giudizio critico, insospettabile agli occhi di chi la osserva superficialmente. Il ritratto di queste due figure offre all’autrice l’occasione per satireggiare l’aristocratico mondo altoborghese del condominio. Ma le ragioni del successo vanno ricercate anzitutto nella celebrazione di una verità interiore inaccessibile agli altri, che reclama una complice adesione da parte del lettore. Il messaggio non potrebbe essere in effetti più rassicurante: ciascuno di noi, indipendentemente dalla classe di appartenenza, nel profondo di sé conserva qualcosa di speciale.
Anche Hosseini colloca al centro di Mille splendidi soli due donne di diversa generazione ed estrazione sociale. Ma qui l’attenzione si appunta sull’istituto familiare. Nata nel 1959 in un piccolo villaggio, Miriam è una barami, una bastarda, che dopo il suicidio della madre viene costretta dal padre a sposare un anziano calzolaio di Kabul, che la sottoporrà alle peggiori angherie perché incapace di dargli il figlio desiderato. Laila è invece una ragazza di buona famiglia, nata la notte della rivoluzione nazionale nell’aprile del 1978, la quale dopo essere rimasta incinta del giovane che ama e che crede morto in guerra sposa il medesimo calzolaio. L’interesse principale del romanzo risiede nei rapporti di solidarietà che si stabiliscono fra queste due donne, molto migliori degli uomini. Ma va anche detto che, rispetto alla prima prova narrativa, Hosseini puntualizza più accuratamente la vicenda attraverso una serie continua di rimandi alla storia dell’Afghanistan. Il conflitto tra le aspirazioni all’autodeterminazione individuale e le strutture etico-istituzionali di una società arcaica e soffocante risulta pertanto molto più pregnante e convincente.
A un criticismo ancora più radicale nei confronti dell’istituto familiare, visto come luogo che non preserva l’io in formazione bensì lo espone a eventi traumatici, è improntato La solitudine dei numeri primi di Giordano. Il narratore segue dall’infanzia all’età adulta le vicende di due personaggi, Alice e Mattia, che si portano dentro i segni di un antico trauma che impedisce loro di dare espressione ai propri sentimenti e di avere relazioni serene con i coetanei. Ma la ricostruzione dei dati di realtà passa qui in secondo piano rispetto al giganteggiare delle ossessioni dei protagonisti. La conseguenza è deleteria. Di fatto, le qualità del romanzo si disperdono nella rappresentazione di un duplice caso di devianza psichica, scrutato con indulgenza per le ferite di cui i protagonisti sono vittime loro malgrado e insieme con un atteggiamento di perentorio fatalismo, che trova giustificazione nella metafora matematica del titolo.
Tuttavia bisogna pure osservare che, nel suo pessimismo senza risarcimenti, La solitudine dei numeri primi va in controtendenza rispetto agli altri bestseller italiani che si preoccupano di indagare la dimensione psicologico-affettiva. Certo, a venire drammatizzate sono sempre le torbide peripezie di un animo tormentato che nelle sue scelte di vita e d’amore non ha alcun punto di riferimento stabile cui aggrapparsi. Ma nella maggior parte dei titoli in questione lo scetticismo spesso ironico con cui il narratore osserva le vicissitudini delle sue creature non giunge mai al punto di mettere in dubbio la positività dei sentimenti come tramite di partecipazione dell’io alla vita altrui. Anzi, semmai ne afferma con maggiore forza l’urgenza. E questa fiducia nelle risorse umane elementari ad accomunare testi per altri versi diversissimi fra loro come II giorno in più di Fabio Volo (1.056 punti), Non avevo capito niente di Diego De Silva (264 punti), Caos calmo di Sandro Veronesi (242 punti), Singolare femminile di Sveva Casati Modignani (237 punti) o Mal di pietre della già citata Milena Agus.
Rispetto a quello della narrativa, il panorama della saggistica appare allo stesso tempo più variegato e meno dinamico. Se è vero infatti che i titoli in graduatoria sono numerosi (ben 86, contro i 79 della narrativa straniera e i 66 di quella italiana), in compenso i nomi nuovi scarseggiano. A prevalere sono decisamente le personalità più accreditate dello star System intellettuale. Naturalmente, premessa indispensabile delle loro fortune è l’adozione di una prosa affabile, ad alto livello di leggibilità, che esibisce tuttavia una congerie di dati, cifre e documenti, a garanzia di una riflessione documentata. Ma questi autori devono il loro successo anzitutto all’assenza di remore con cui corrispondono alle esigenze di orientamento dei lettori, certo confusi dall’indifferentismo morale che ha fatto seguito al crepuscolo degli dèi, ma proprio per questo avidi di interpretazioni autoriali. L’afflato polemico che in genere vivifica l’argomentazione non fa che conferirle un ulteriore motivo di autorevolezza, in quanto dimostrazione di indipendenza di giudizio e di spregiudicatezza esente da preclusioni ideologiche.
Come è prevedibile, la parte del leone la fanno le grandi firme del giornalismo televisivo e della carta stampata: Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo (La casta, 1.149 punti, e La deriva, 307 punti), Bruno Vespa (L’amore e il potere, 449 punti), Alberto Angela (Una giornata nell’antica Roma. Vita quotidiana, segreti e curiosità, 415 punti), Federico Rampini (La speranza indiana, 344 punti), Marco Travaglio e Peter Gomez (Se li conosci li eviti, 304 punti, e in tandem con Gianni Barbacetto Mani sporche, 216 punti), Corrado Augias (Leggere. Perché i libri ci rendono migliori, più allegri e più liberi, 206 punti), Giampaolo Pansa (I gendarmi della memoria, 148 punti) e Curzio Maltese (La questua. Quanto costa la Chiesa agli italiani, 105 punti). Nelle altre posizioni incontriamo poi Tiziano Terzani (Fantasmi. Dispacci dalla Cambogia), Magdi Allam (Gesù. La mia conversione dall’islam al cattolicesimo), Antonio Socci (Il segreto di Padre Pio), Marcello Veneziani (Rovesciare il ’68. Pensieri contromano su quarant’anni di conformismo di massa), Giulietto Chiesa (Zero. Perché la versione ufficiale sull’ 11/9 è un falso).
Fra le new entry, solo Mario Calabresi, giornalista di «la Repubblica» e figlio del commissario ucciso a Milano nel maggio 1972, riesce a insinuarsi nelle top ten settimanali con Spingendo la notte più in là (524 punti), in cui racconta il destino dei familiari delle vittime del terrorismo. Stefano Livadiotti dell’«Espresso» (L’altra casta. Privilegi. Carriere. Misfatti e fatturati da multinazionale. L’inchiesta sul sindacato) e Ferruccio Pinotti dell’«Arena» (Fratelli d’Italia) si devono accontentare di posizioni di media e bassa classifica, rispettivamente con 138 e 36 punti. Unica giornalista straniera, anche la canadese Naomi Klein rimane al palo con Shock Economy. L’ascesa del capitalismo dei disastri (68 punti), consacrato a una tematica probabilmente troppo ostica per replicare i fasti di No Logo, a cui deve la notorietà.
Nondimeno, in classifica entrano anche due saggi di maggiore complessità argomentativa, entrambi consacrati a un tema di forte attualità. In L’ospite inquietante (747 punti) Umberto Galimberti, filosofo e pubblicista non insolito alle alte tirature, muove dai fenomeni di devianza giovanile di cui sono affollate le pagine di cronaca per indagare le cause che deprimono gli impulsi vitali degli adolescenti e ostacolano un sano processo di integrazione. Imputato principale di tale stato di cose è una figura ben nota alla saggistica di ogni genere e grado: il nichilismo. Suo esecutore, il mercato. Ma l’autore ha il merito di inquadrare il problema, troppo spesso accostato nei modi di un sociologismo impressionistico, all’interno di un più ampio e coerente sistema esplicativo che fa perno anzitutto sulle peculiarità di funzionamento della civiltà della tecnica, di cui il nichilismo è genitore e figlio al tempo stesso.
La paura e la speranza di Giulio Tremonti (395 punti) invece è debitore dell’ampio consenso, registrato non senza equivoci anche a sinistra, alla spregiudicatezza con cui l’autore rimette in discussione i princìpi finora egemoni del neoliberismo e denuncia i gravosi costi della globalizzazione. Ma tale ripensamento critico non sfocia in nessuna apertura progressista. Al contrario, i rimedi ai problemi enunciati sono rintracciati, oltre che nel federalismo, nei tradizionali capisaldi del pensiero conservatore: rafforzamento dell’esecutivo, ritorno al valore della famiglia, difesa dell’identità nazionale, adozione di misure protezionistiche atte ad arginare la minaccia dei prodotti cinesi. Il pathos al contempo allarmato e visionario che s’inframmezza alle disquisizioni tecniche contribuisce certamente ad assicurare al testo una comunicabilità suggestiva che ne facilita l’accoglienza presso i lettori meno specialistici. Ma soprattutto traduce espressivamente il reale intento del volume, scritto (è utile ricordarlo) prima delle elezioni: offrire alla nuova destra che si candida a governare le contraddizioni del presente un manifesto programmatico, che tracci le linee di intervento a medio e lungo termine.