Trame al Sud

Tra i narratori dell’immaginario criminale, i casi più macroscopici per seguito e per qualità provengono dal Mezzogiorno. La testimonianza diretta e documentata degli scempi mafiosi si appaia in loro alla capacità di rinnovare o miscelare consolidate opzioni di genere: poliziesco, noir, racconto giudiziario, reportage. I lettori, a milioni, vi ritrovano le suggestioni della fantasia romanzesca insieme con l’attendibilità della ricostruzione d’ambiente. IL investigazione sconsolante di un tessuto sociale disgregato alimenta l’anelito a un’utopia legalitaria, o almeno la consolazione di una perseveranza umanistica.
 
Nelle recenti fortune della narrativa a sfondo criminale, una parte di rilievo preponderante in termini quantitativi e qualitativi è svolta da romanzieri meridionali e opere d’ambientazione meridionale. Su tutti quanti si staglia l’empedoclino Andrea Camilleri, dal sommo degli oltre dodici milioni di copie vendute con più di quaranta titoli, di cui oltre la metà incentrati sul personaggio del commissario Montalbano, che nasce alle stampe nel 1994. A diverse centinaia di migliaia di copie ammonta il successo del tarantino Giancarlo De Cataldo, soprattutto grazie a Romanzo criminale (2002), che rimane sinora la sua opera più importante. Quindi si distingue il barese Gianrico Carofiglio, con dieci titoli, di cui otto romanzi, diffusi in due milioni di copie a far data dal 2002, quando compare il personaggio dell’avvocato Guido Guerrieri. Il casalese Roberto Saviano con il solo Gomorra, dal 2006, ha raggiunto i tre milioni di copie. La meridionalità di simili colossi si rivela in parte anche nell’appartenenza editoriale, visto che Camilleri e Carofiglio hanno sviluppato un rapporto solido e continuativo con Sellerio, determinandone in buona misura i trionfi industriali.
La questione meridionale resta una questione nazionale della massima urgenza, sebbene abbia assunto forme via via inedite lungo il percorso di un ammodernamento tumultuoso e contraddittorio: e fa tutt’uno con la questione criminale, nelle forme paradossali di espansione economica con cui le organizzazioni malavitose scimmiottano e permeano il sistema produttivo legalmente riconosciuto. I narratori del Sud che raccontano la realtà criminale, muovendo dai territori più insanguinati e martoriati, sanno rivolgersi alla coscienza intera del paese nella maniera più incisiva. Nelle loro opere l’investigatore può assumere parvenze diverse: si presenta nei panni del poliziotto sornione e buongustaio, dell’avvocato sciupafemmine e pugilatore, oppure diventa personaggio autobiografico di ultraprecario cronista in motorino. In vario modo, ognuno appare paladino di un umanesimo che si rinsalda nella diffusione di massa, se tanto Montalbano quanto Guerrieri dispensano titoli di letture sopraffine, mentre i reportage di Saviano esibiscono una caratura stilistica letteraria che li solleva da ogni sospetta ancillarità di genere.
La minacciosa incombenza del crimine organizzato costituisce lo sfondo da cui i moduli dell’inchiesta narrativa, sapientemente aggiornati o miscelati, traggono efficacia di rappresentazione realistica: il romanzo poliziesco, il noir, il giudiziario, l’indagine documentata assecondano preoccupazioni ben avvertite dalla sensibilità collettiva, dosando in varia misura esigenze conviventi e complementari di riconoscimento, informazione, denuncia, compensazione, intrattenimento e riscatto. Quanto più il tessuto sociale, quello del Sud in primis, ha risentito di una macroscopica degenerazione criminale, tanto più dal Sud provengono narrazioni capaci di intercettare il bisogno generale di una rappresentazione attendibile e insieme avvincente del fenomeno, che sia in sé strumento di elaborazione culturale e rinascita civile.
Il paradigma di eccellenza del giallo italiano è offerto da Andrea Camilleri: la recente affermazione della Caccia al tesoro (2010) comprova quanto il caso Montalbano goda di pieno vigore a distanza di un quindicennio dal suo sorgere. In un tempo che si vuole votato all’effimero, una simile durata non può dipendere soltanto dall’applicazione laboriosa dell’autore. Il personaggio del poliziotto vigatese, che ha corrisposto e incentivato la parabola ascendente della narrazione d’inchiesta, arriva da ultimo a forme di ibridazione intertestuale e transmediale quali si verificavano, tipicamente, nelle zone meno accreditate della paraletteratura novecentesca. Montalbano non solo è diventato protagonista di a udiolibri e telefilm, ma dalla tv torna sulla pagina scritta riportandone le fattezze del suo interprete filmico Luca Zingaretti. Il romanzo a quattro mani di Camilleri e Lucarelli Acqua in bocca (2010), dove Salvo Montalbano incrocia per via epistolare Grazia Negro, già protagonista di Almost Blue, richiama procedimenti d’impronta appendicistica: non troppo diversi, per esempio, da quelli messi in atto già da Maurice Leblanc in Arsène Lupin contre Herlock Sholmes (1908), e poi saliti in auge nel cinema e nel fumetto più disponibili al culto dei personaggi seriali. La novità, rispetto ai bassifondi letterari del Novecento, sarà per Montalbano una più agile prontezza a saltare il varco verso l’iconico e l’audiovisivo, senza incorrere nel deperimento delle proprie origini letterarie. Conferme in tal senso vengono da un altro successo del Sud come Pericle il Nero di Ferrandino (1993; 1998), il cui adattamento cinematografico è attualmente preso in carico da Abel Ferrara; mentre un importante comprimario dell’avvocato Guido Guerrieri, Carmelo Tancredi, poliziotto siciliano dall’aspetto dimesso ma dal pugno di ferro, specializzato in stupratori e pedofili, è diventato protagonista di un graphic novel scritto dallo stesso Gianrico Carofiglio e disegnato da suo fratello Francesco: Cacciatori nelle tenebre (2007).
Montalbano resta, sulla piazza, il più importante drizzatorti arruolato nella Polizia della Repubblica, malgrado i dubbi deontologici e l’avanzare degli anni. Qualche infedeltà all’amor de lonh per Livia, la fidanzata genovese, finisce sotto sotto per rincuorarlo di fronte al timore della vecchiaia. Depositario di una funzione etico-euristica fondamentale, come nel giallo più classico, provvede a ristabilire la verità, se non sempre ad assicurare il reo alla giustizia; ma coglie anche quanto di umano può manifestare la miseria del colpevole. La caratterizzazione del commissario nel suo quotidiano piccoloborghese, il morigerato edonismo mediterraneo, le inclinazioni contemplativo-sentimentali, i sarcasmi amareggiati e i guizzi salaci, sono l’antitesi confortevole a intrighi criminali che travalicano spesso la portata del folclore mafioso per assumere tinte antropologiche. L’eroe qualunque Montalbano, secondo la cui ottica viene regolarmente illustrato e ricostruito il delitto, conta essenzialmente sulla fedeltà testarda al proprio intuito: senza particolari ausili scientifici o ritrovati tecnici, senza rigori di raziocinio induttivo. Certo sa menare qualche cazzotto, quando ci vuole. Tuttavia la quiete della sua villetta in riva al mare, dove coltivare il riposo del giusto e il gusto dell’autarchia culinaria, non viene intaccata né dalle più improvvide telefonate d’ufficio né dai sogni comicamente tormentati. La perfidia grottesca cristallizzata da Camilleri sulle scene del delitto, d’altronde, trova alleggerimento ridevole nelle scaramucce dialogiche tra il commissario e la bamboccesca squadra dei suoi assistenti, Ad aurea mediocritas di Montalbano si manifesta in un estro semiologico che gli consente di orientarsi tra detto e non detto, di smontare la narrazione vulgata del crimine, mentre ne intesse una narrazione più veritiera a partire da una crassa pluridiscorsività, giostrando tra dichiarazioni, insinuazioni, minacce, depistaggi, pizzini e messaggi screziati della più svelta ibridazione italo-sicula.
Viceversa, su un piano di enunciazione standardizzato, scevro di coloriture locali come di ornamenti letterari, si muove il Guido Guerrieri di Carofiglio. Con la comparsa di un avvocato-investigatore tra i beniamini del pubblico, ci si aspetterebbe che finalmente possa ottenere apprezzamento la dimensione garantista della cultura legalitaria. E così, in effetti, solo nel primo romanzo di Carofiglio, testimone inconsapevole (2002), quello dove più la narrazione e il suo protagonista-conduttore rispecchiano la dialettica del dibattito processuale, con largo spazio per le impostatissime schermaglie dialettiche. Il senegalese Abdou Thiam, imputato di rapimento e omicidio di un bambino italiano, viene scagionato da una accusa indiziaria basata esclusivamente sul pregiudizio xenofobo dei testimoni. Il finale resta aperto: giustizia è fatta ma solo nel senso che l’innocente viene liberato, mentre del colpevole non emerge neppure un vago profilo. Negli ulteriori romanzi della serie, l’avvocato Guerrieri assume piuttosto connotazione di castigamatti: le sue prestazioni oratorie risultano sempre superlative, mentre acquistano rilievo le sue abilità di investigazione. Si misura con trafficanti mafiosi, stalker altolocati, giovani cocainomani; ma soprattutto si abbandona a una certa sua vena di gallismo latino, mal dissimulato dall’intima autoironia. Non fa in tempo a risollevarsi dalla crisi matrimoniale del primo libro, risoltasi in divorzio e depressione, che già si è trovato una nuova fidanzata nella vicina di casa Margherita; in Ad occhi chiusi (2003) si invaghisce pericolosamente di una presunta suora-karateka, mentre Margherita sfila in ultimo piano; nelle Perfezioni provvisorie (2010) è diviso tra l’amicizia con una ex cliente, distinta meretrice e mezzana, e le attenzioni di una cinica ventenne, che castigherà severamente; in Ragionevoli dubbi (2006), prima ancora, finisce a letto con la bellissima moglie giapponese del proprio cliente. Qui interverrebbe il pieno deragliamento deontologico, se Guerrieri non fosse così brillante da far assolvere l’imputato cornificato: forse oggi innocente ma con un passato di picchiatore neofascista e avversario adolescente del suo stesso futuro difensore. Quale miglior vendetta nei confronti del rivale di gioventù che fottergli la moglie e intanto scagionarlo? Ciò conforta il narcisismo virile di Guerrieri e insieme la sua immagine di cavaliere errante della giustizia. Come avviene anche negli altri episodi della serie, attraverso l’applicazione al dovere odierno Guerrieri ha modo di misurarsi con i suoi fantasmi profondi, riemergendone ogni volta vieppiù tonificato. Campione di boxe, cuoco provetto, ciclista urbano, lettore accanito e aspirante scrittore, appassionato di cinema ed esperto di musica: in effetti, un vero superuomo di massa della coscienza progressista, al quale capita però anche di voler discolpare il favoreggiamento della prostituzione, oltre ai picchiatori neofascisti.
Colpisce che, tra gli autori beneficiari del massimo consenso, Carofiglio e De Cataldo siano accomunati dalla professione di magistrato. Beninteso, partecipano del medesimo retroterra giudiziario con altri autori che hanno adibito a fini letterari il loro sapere tecnico-linguistico: criminologi, avvocati, medici legali, scienziati di polizia e affini. Si tratta di professionisti della detection o del diritto che hanno riversato nell’affabulazione una competenza maturata sul campo. Senza pervenire all’autofinzione cronachistica di Saviano, tali scrittori sembrano guadagnare alle loro opere una miglior credibilità in virtù del rispettivo vissuto autoriale. Il punto è che Carofiglio e De Cataldo non collocano affatto al centro dei loro romanzi magistrati o professionisti dell’indagine giudiziaria: i loro protagonisti sono anzi reclutati nell’ambito dell’avvocatura. È questa la norma per i romanzi di Carofiglio in cui agisce e racconta il penalista Guido Guerrieri; ma un’identità psicosociale e narrativa analoga si rilevava già nella voce protagonistica del primo romanzo di De Cataldo, Nero come il cuore (1989; 2001; 2006), quell’avvocato Valentino Bruio, idealista sovrappeso, che accoglie l’ingaggio della comunità nera di Roma per far luce sull’omicidio di un immigrato africano e finisce per imbattersi in un caso internazionale di traffico d’organi, divaricato tra la più boriosa aristocrazia capitalista e la subalternità di diseredati migranti. Insomma, è come se De Cataldo e Carofiglio, magari per riverenza verso il proprio mestiere di magistrati, avessero puntato tutto sull’autonomia di liberi battitori quali sono gli avvocati Bruio e Guerrieri, e qual è dopotutto il commissario Scialo)a di Romanzo criminale’, che consegue il proprio intento investigativo solo nella misura in cui stabilisce una torbida intesa con la delinquente puttana Patrizia. Come se soltanto fuori dall’ordinaria amministrazione della legge si potesse ambire a restaurare una verità vera.
L’individualismo esasperato che anima le più proterve iniziative criminali troverebbe così specchio e sanzione nell’individualismo cocciuto di inquirenti piccoloborghesi, estranei alle ingessature burocratiche, alle pressioni interessate, ma spesso anche al mero riconoscimento di vincoli legalitari. Certo non sarà indifferente se la trasgressione dell’investigatore, com’è nel caso di un Montalbano, sia legata a esiti che permettono di distinguere sempre tra buoni e cattivi, ovvero se finisca per offuscare ogni delimitazione di campo morale, com’è nel caso di Scialoja. Fa specie tuttavia che sia proprio la professione liberale di avvocato a incupirsi di venature quasi giustizieresche, come si evince dall’operato di Guido Guerrieri e Valentino Bruio. A un individualismo residuale non possono sottrarsi neppure gli scrittori-giornalisti anticamorra, che hanno acquisito maggiore visibilità per riflesso del caso Saviano. E la loro stessa precarietà contrattuale di reporter a renderli partecipi in prima persona del processo di disgregazione socioeconomica che viene accentuato dalla criminalità organizzata: e rende tanto più veridica la loro voce dal fondo dell’abisso. Lo attesta bene Sergio Nazzaro in Io, per fortuna c’ho la camorra (2007), con il suo catalogo di negozianti, studenti, metronotte, sindacalisti, bagnini, muratori, barboni: tutti vittime rimosse, caduti sotto i colpi dell’ordinaria brutalità malavitosa. A loro si affratella la voce solitaria dell’io narrante, nel tentativo di riconnettere almeno in coro mortuario gli sparsi brandelli di una cittadinanza dilapidata.
L’isolamento testimoniale dell’indagatore, la sua testarda insubordinazione a fin di bene, ovvero il suo mimetismo inteso a comprendere il mondo criminale col rischio di esserne risucchiato, rispecchiano l’isolamento del singolo nel mezzo della grande depressione neoliberista: ma insieme attestano la possibilità di abbarbicarsi a elementari valori di eticità. Che questi valori possano non essere sempre del tutto coerenti, emerge soprattutto dalla vicenda del commissario Scialoja in Romanzo criminale’, lontano da qualunque protagonismo risolutivo, egli funge da antagonista collaterale rispetto al dilagare dei delinquenti, in conformità alle modulazioni topiche del noir. Il suo slancio donchisciottesco, ostacolato dalle machiavellerie dell’antiStato, ripiega nell’avvilimento e nell’alcolismo, sino al punto di essere risuscitato a un ruolo pubblico da quello stesso apparato antidemocratico che aveva decretato la sua emarginazione. Vero è d’altra parte che l’impegno onesto di Scialoja viene da principio compromesso per causa del legame erotico con Patrizia: suo tramite privilegiato con il mondo criminale del Libanese e del Dandi, ma anche controverso oggetto di desiderio, che parifica il commissario ai suoi contendenti malavitosi. Le uniche operazioni investigative efficaci vengono condotte da Scialoja grazie alle confidenze di Patrizia: impossibilitato ad attuare un’istanza di svelamento davvero autonoma e fattiva, il commissario si approssima al suo obiettivo poliziesco solo perché attratto e compromesso dalla corruzione criminale, nella persona stessa della meretrice di lusso. Da ciò, tra l’altro, proviene l’inconsistenza dei risultati investigativi momentaneamente ottenuti. Al confronto, un’efficacia prodigiosa manifestano gli sforzi d’indagine dispiegati dalla criminalità organizzata per individuare e sbarazzarsi dei propri avversari interni o esterni, sulla Strada o nel Palazzo. Analoga efficienza dell’investigazione criminale si riscontra nella Città perfetta di Angelo Petrella (2008), dove si intersecano le voci di tre narratori-protagonisti animati da uguale impulso alla violenza, salvo militare in schiere fatalmente contrapposte: polizia, camorra, brigatismo rosso. Gli estremi si toccano e si confondono, entro un meccanismo ossessivamente reiterato di attesa e sorpresa. Dalla putrescenza di Napoli, illustrata alla vigilia di «Mani pulite», finiscono per salvarsi solo coloro che coltivano il cameratismo e la vendetta privata, a dispetto di qualunque motivazione ideologica o coazione pseudovitalistica. Qui finisce per tramontare anche quell’utopia legalitaria che nelle narrazioni d’inchiesta più significative consente di allargare l’orizzonte di consapevolezza sullo stato attuale delle cose.