Tre storie di ordinaria schizofrenia

Perché il sindaco di Milano riesce ad appassionarsi al congresso mondiale dei bibliotecari ma poi ritira il sostegno al progetto della BEIC? Come è possibile che il ministro per la Cultura spinga per la realizzazione del Centro per il libro e la lettura e poi non batta ciglio se esso viene privato di risorse e autonomia? E che cosa pensare di un governo che stipula un accordo con Google per la digitalizzazione di libri antichi ma non garantisce il funzionamento ordinario delle Biblioteche nazionali centrali?

Questa cronaca ha un antefatto: a Milano nel 2009 si è tenuto il 75° congresso mondiale dell’Ifla, la federazione che riunisce oltre 150 associazioni nazionali di bibliotecari. Si è trattato, sui generis, di un evento storico perché il congresso non faceva tappa in Italia da 45 anni e perché il primo congresso dell’Ifla si era tenuto nel nostro paese ottant’anni prima, nel 1929. I motivi di interesse erano molti e gli esiti hanno confermato i buoni auspici e le previsioni più ottimistiche: l’edizione milanese del World Library and Information Congress è stata un successo organizzativo, professionale e di immagine senza precedenti per l’alta affluenza di delegati (oltre 4.000), l’interesse delle tematiche discusse, la qualità e l’ampiezza delle proposte culturali, il coinvolgimento e la partecipazione dei bibliotecari italiani. L’evento ha suscitato interesse istituzionale e mediatico e un indubbio rialzo delle azioni della biblioteconomia italiana nel contesto internazionale, generando attesa per le possibili ricadute su un comparto che da tempo aspira a maggior considerazione se non a un vero e proprio riconoscimento. Tutto lasciava presagire che Ifla 2009 potesse rappresentare l’avvio di un percorso virtuoso verso l’Expo del 2015. Vediamo se i primi passi compiuti sono andati nella giusta direzione.

La BEIC non si fa più
In occasione del congresso Ifla la stampa ha dato spazio alle dichiarazioni del prof. Antonio Padoa Schioppa sul futuro della Biblioteca Europea di Informazione e Cultura (BEIC), che dovrebbe sorgere sull’area dell’ex stazione di Porta Vittoria a Milano. Il fratello dell’ex ministro ne è promotore tenace da oltre un decennio: «la partenza del cantiere è prossima, questione di mesi» ha dichiarato al «Giorno» (25 agosto 2009). Epilogo felice per un progetto dalla gestazione ultradecennale che consegnerà all’Italia una struttura al passo con le tendenze e le realizzazioni più avanzate del mondo, risarcendo il nostro paese della recente perdita di un progetto analogo – quello per la nuova biblioteca civica di Torino – congelato per mancanza di fondi dopo gli entusiasmi olimpici. C’è però un dettaglio non trascurabile: malgrado l’appoggio dichiarato di due ministri – Bondi e Matteoli – manca ancora la certezza del finanziamento (servirebbero 260 milioni di euro). Ci sono tuttavia elementi che autorizzano un cauto ottimismo: la Legge-obiettivo per le grandi opere, i finanziamenti per l’Expo, il centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia. Dopo circa un decennio di discussioni, lavori preparatori e progetti sembra che l’avvio del cantiere sia davvero alle porte. Passano i mesi ma i soldi non arrivano; poi, in aprile, l’assessore all’urbanistica del Comune di Milano, Masseroli, annuncia il riassetto urbanistico dell’area destinata alla nuova biblioteca: «tre anni fa avevamo affidato l’area alla BEIC a condizione che entro 36 mesi si trovassero i fondi per realizzarla. E venuto il momento del redde rationenr. se entro un mese non avremo risposte dal governo, la BEIC non si farà». Tentativo di fare pressing sul governo o volontà di smarcarsi da un progetto che a Milano è considerato troppo ministeriale e a Roma troppo ambrosiano? La risposta la dà lo stesso Masseroli: «non possiamo più permetterci di lasciare inespresso un valore immobiliare così importante e mantenere nel cuore della città un cantiere incompiuto». Potere taumaturgico della crisi: il governo sta varando la manovra di riduzione del deficit pubblico, per gli enti locali si annunciano tempi duri e il Comune dovrà fare i conti con un taglio di diverse decine di milioni di euro: meglio essere previdenti (l’area ne vale circa 60) e non lanciarsi in imprese avventate, tanto più che sul progetto pesa anche l’incognita dei costi di gestione. All’inizio di luglio anche il sindaco Moratti scende in campo a fianco del suo assessore dichiarando che «in epoca digitale i libri si possono leggere anche su Internet, il progetto della BEIC può essere ridimensionato». Insomma, Milano può accontentarsi di quel che già c’è. Di lì a poco sarà sottoscritto l’accordo fra Comune e governo per la realizzazione della Grande Brera: un investimento pari a poco meno della metà di quanto richiesto per la BEIC, per ridare lustro a una gloriosa istituzione cittadina, a scapito – forse – della biblioteca del terzo millennio. Una coincidenza, certo, ma a pensar male non si sbaglia. Con raggravante che, almeno per ora, all’orizzonte non si vede alcun progetto alternativo per il rilancio del sistema bibliotecario cittadino.
Il dietrofront di Letizia Moratti (che nella campagna elettorale del 2006 si era presentata ai milanesi promettendo di sostenere il progetto) conferma l’esistenza di un gap culturale che impedisce a buona parte della nostra classe dirigente di cogliere e di valorizzare le potenzialità offerte da biblioteche pubbliche di moderna concezione, evidenti a chiunque varchi la soglia del Centre Pompidou di Parigi, della New York Public Library o della nuova Biblioteca di Seattle; ma anche, più in piccolo, della Biblioteca Sala Borsa di Bologna: non mausolei per la conservazione di vecchie carte ma palestre della cultura, laboratori per le intelligenze del futuro, strutture ibride dove la conoscenza digitale si alimenta di quella sedimentata nel patrimonio scritto. Una consapevolezza che sembra mancare a Milano ma non agli amministratori di Prato, che a febbraio 2010 hanno restituito all’uso pubblico un simbolo della storia industriale cittadina, l’opificio Campoimi, allestendovi la nuova sede della biblioteca comunale (oltre 5.000 mq di superficie coperta) e dimostrando – come ha detto il presidente della Camera che l’ha inaugurata – che è possibile proiettarsi verso il futuro tenendo i piedi ben piantati in un sapere dalle radici lontane.

Nel Centro la biblioteca non c’entra
Il 17 febbraio 2010, nell’austero salone monumentale della biblioteca Casanatense di Roma, tre ministri della Repubblica (Bondi, Gelmini, Meloni), due sottosegretari (Letta e Bonaiuti) e i presidenti delle associazioni nazionali di editori e librai hanno presentato alla stampa il programma di attività del neonato Centro per il libro e la lettura (www.cepell.it), istituito nel 2007 e finalmente dotato – come recita il comunicato stampa ufficiale – «di autonomia finanziaria, amministrativa e contabile».
I soldi, però, non ci sono. O meglio, li taglia subito Tremonti con la manovra finanziaria varata nell’estate del 2008. Il poco che resta è all’interno del bilancio del Ministero, in barba all’autonomia dichiarata.
L’organismo, frutto di una inedita partnership pubblico-privato fra editori e Stato, nasce per elaborare strategie finalizzate a consolidare e ampliare la platea dei lettori e per promuovere i prodotti editoriali, la cultura e gli autori italiani all’estero. Il modello dichiarato sono le principali iniziative europee (Livre 2010 del Centre National du Livre in Francia, Pian de fomento de la lectura del Ministero della Cultura spagnolo), a cui ci si vuole allineare. Alla guida dell’istituto viene chiamata una personalità di spicco del mondo editoriale, Gian Arturo Ferrari, già direttore generale della Mondadori Libri. Fra i compiti del Centro, sostenere gli operatori del settore, incrementare i rapporti istituzionali, nazionali e internazionali, promuovere progetti per il consolidamento della lettura in un paese notoriamente refrattario a considerare il libro un elemento della quotidianità.
L’intento di Ferrari è «allargare la base di lettura conferendo valore sociale al libro». Come? Aumentando in dieci anni del 2% il numero di lettori abituali adulti, vale a dire conquistando stabilmente alla causa della lettura un altro milione di italiani di età superiore ai 14 anni. Con quali strumenti? Sperimentando un modello di promozione della lettura su scala provinciale applicabile successivamente a tutto il territorio nazionale, attraverso un lavoro triennale condotto in aree diverse del paese (Nord, Centro, Sud). E le biblioteche? Nessuno le nomina ma il loro ruolo è tracciato nei programmi del Centro: per aumentare il valore sociale del libro Ferrari prevede di donare gratuitamente libri di buona qualità, che gli editori eliminano, alle situazioni più svantaggiate (ospedali, case per anziani, piccole scuole, biblioteche di piccoli centri, carceri…). Mentre in tutti i paesi dell’Occidente industrializzato le biblioteche sono un tassello fondamentale per qualsiasi politica di avviamento alla lettura, in Italia sono il luogo in cui editori di buona volontà possono dispiegare una vena di filantropismo. Con buona pace di ogni considerazione sul rapporto fra politiche documentarie e bisogni informativi dell’utenza che caratterizza il lavoro di qualsiasi biblioteca pubblica e che richiede risorse e professionalità specifiche: da noi basterà molto meno, una mano tesa e due dita incrociate dietro la schiena, nella speranza che il cestino degli editori contenga il libro desiderato dagli utenti. Eppure nel Manifesto per le politiche del libro nella XV legislatura, presentato dall’Associazione italiana editori nel 2006, si legge al primo punto che per far crescere la domanda di lettura bisogna sviluppare le biblioteche pubbliche, scolastiche e universitarie. Se i modelli sono all’estero, sarebbe bene studiarli: il rapporto di ricerca To Read or Not To Read. A Question of National Consequence realizzato dal National Endowement of Arts nel 2007, per esempio, analizza a fondo i comportamenti di lettura dei giovani statunitensi e il calo di competenze nella literacy (l’abilità di comprendere un testo scritto) per fornire una solida base analitica a supporto dell’azione. Il rapporto, si legge nella prefazione, «is not an elegy for thè bygone days of print culture, but instead is a cali to action». Sano pragmatismo anglosassone, dove il rigore analitico è di supporto al pensiero strategico. L’Italia, al contrario, predilige la retorica dei buoni sentimenti: ne è un esempio la campagna di comunicazione realizzata dal Centro per il libro in occasione della giornata del 23 maggio, dove tutti sono stati invitati a regalare un libro a coloro cui si vuol bene, o quella della Presidenza del Consiglio dei ministri, incomprensibilmente sovrapposta alla prima nel medesimo periodo. Qui il setting è bucolico (una leggiadra fanciulla di bianco vestita che procede serena in un campo verdeggiante) ma il messaggio stantio: la lettura è un privilegio per anime belle. Difficile da raccontare a un adolescente dell’hinterland romano o milanese o a un bambino che non ha mai visto i genitori con un libro in mano.
«Scarpe rotte eppur bisogna andar».

Le biblioteche nazionali al tempo di Google
Mese che passa, annuncio che viene: in marzo il ministro Bondi sottoscrive un accordo con Google per la digitalizzazione di un milione di libri antichi conservati nelle due Biblioteche nazionali centrali di Roma e Firenze. Le opere, di pubblico dominio, saranno consultabili su Google Books. Si tratta del primo accordo di collaborazione siglato fra il colosso di Mountain View e un governo, che negli auspici dei promotori offrirà un importante contributo alla conoscenza di una parte significativa del patrimonio culturale italiano.
Il ministro è entusiasta: «L’Italia si pone all’avanguardia in questo settore – dichiara – con la convinzione di arricchire enormemente il patrimonio culturale disponibile gratuitamente nella rete. Nel farlo si avvale di un partner tecnologico di primaria importanza. La speranza è che questo sia solo un punto di partenza e che presto molti altri volumi possano essere disponibili». Tutto il contrario di quanto succedeva nel paese di origine del rappresentante di Google alla conferenza stampa, l’indiano Nikesh Arora, dove per ottenere che un libro in prestito rientrasse in biblioteca bisognava attendere mesi: «Allora le alternative erano provare e riprovare ogni giorno, oppure emigrare in Gran Bretagna […]. Oggi, grazie a questo progetto, edizioni rare e testi preziosissimi saranno a disposizione di tutti con un semplice clic e a costo zero».
L’accordo – un buon accordo – prevede che Google fornisca alle due biblioteche nazionali le copie digitali di ciascun libro perché possano essere rese disponibili anche su piattaforme diverse da Google Books, come Europeana.
Ma chi paga? I costi della digitalizzazione sono a carico di Google, che si occuperà anche di allestire uno scanning center in Italia; al Ministero tocca la catalogazione dei volumi, perché per la ricerca on line sono necessari i metadati. E qui cominciano i problemi: il progetto richiederà un impegno eccezionale ma, dichiara il direttore della Biblioteca nazionale centrale di Roma Osvaldo Avallone, «la marcia in più sarà costituita dall’entusiasmo con cui, per la prima volta in Europa, si renderà disponibile un patrimonio di conoscenze così rilevante, grazie a due delle più grandi biblioteche di Stato».
L’entusiasmo come leva organizzativa. E le risorse? Un paio di mesi dopo, durante il Salone del Libro di Torino, la direttrice della Biblioteca nazionale centrale di Firenze, Antonia Ida Fontana, intervenendo sul tema dichiara senza mezzi termini che buona parte dei testi da digitalizzare non sono catalogati e che per questo intervento straordinario al momento non ci sono risorse, né si prevede di riceverne. Due mesi dopo, a luglio, intervistata da «Repubblica», sbotta amareggiata: «Avevamo cinquecento dipendenti negli anni novanta, oggi ne contiamo 195 di cui 45 part time, basta una malattia o un imprevisto per mandarci in affanno». E la catalogazione? «Qui ogni anno arrivano 70mila volumi prosegue la direttrice – e circa 3 Ornila restano depositati negli scatoloni perché non c’è personale sufficiente a catalogarli.» Non male per una struttura che dovrebbe garantire l’aggiornamento della Bibliografia nazionale italiana con i dati di tutte le opere pubblicate annualmente nel nostro paese.
Se la Nazionale di Firenze piange, le altre biblioteche statali non ridono: gli investimenti pubblici a favore delle 46 biblioteche di competenza ministeriale risultano dimezzati negli ultimi cinque anni, con un abbassamento del budget da 30 a 17 milioni di euro. I tagli più consistenti riguardano l’acquisto dei libri, sceso da oltre 8 milioni a circa 3 milioni. Gli stanziamenti per il Servizio bibliotecario nazionale (SBN), infrastruttura che rende consultabili i cataloghi di oltre 4.000 biblioteche statali, di enti locali, universitarie, di accademie e istituzioni pubbliche e private, sono stati ridotti di 11 volte e ammontano ora a circa 75mila euro, una mancetta. Sul versante della tutela e della conservazione si è passati da oltre 3 milioni e mezzo a 65Ornila euro annui.
Desolante anche il confronto con la situazione europea: mentre le due Biblioteche nazionali centrali vedono i loro bilanci ridursi ( 1,5 milioni quella di Roma e 2 milioni quella di Firenze), Parigi può contare su 254 milioni, Londra su 160 milioni, Madrid su 52 milioni. Anche in termini di unità di personale l’Italia non regge il confronto: circa 200 persone o poco più a Roma e Firenze, a fronte degli oltre 1.000 dipendenti della Biblioteca Nacional madrilena, dei 2.000 della British Library londinese e dei 2.600 della Bibliothèque Nationale parigina, che da sola ha un numero di dipendenti più elevato di tutte le biblioteche pubbliche statali messe insieme.
Il personale addetto alle biblioteche di competenza ministeriale era nel 1990 pari a 3.230 unità; nel 2008 era diminuito a 2.389. Numeri che non lasciano spazio aU’immaginazione ma che non assolvono completamente, perché oltre alle risorse è necessaria una riorganizzazione dei processi di lavoro che non sia finalizzata solo a ridisegnare i rapporti di potere interni al Ministero ma a un reale recupero di efficienza, di produttività, di capacità progettuale.
Altrimenti l’idea di espatriare in Gran Bretagna (o in Francia, Germania, Spagna…), come ricordava Nikesh Arora, potrebbe risultare il minore dei mali.

Appendice: il futuro in biblioteca, la biblioteca in futuro
Al termine del nostro taccuino, resta sospeso un interrogativo: davvero, come ha affermato il sindaco di Milano, la disponibilità di libri elettronici in Internet renderà irrilevanti le biblioteche? Il tema è complesso e nessuno può dire con sicurezza come si trasformeranno le abitudini di lettura fra qualche decennio, e se il libro di carta sarà soppiantato da un flusso di bit. Tuttavia, benché le azioni della biblioteca nel nostro paese non siano esattamente in rialzo, questo istituto rappresenta (e rappresenterà ancora per molto) un presidio fondamentale per la conservazione dell’eredità culturale registrata in forma scritta, attualmente in gran parte ancora non digitalizzata, e un punto d’accesso qualificato alla conoscenza grazie al lavoro di selezione e organizzazione del sapere effettuato dai bibliotecari, che nessun motore di ricerca è ancora riuscito a sostituire. Inoltre, le biblioteche offrono occasioni per addestrarsi a un uso competente dell’informazione e antidoti al digitai divide. Gli e-book, fenomeno editoriale del momento, sono per esempio già una realtà nella piccola biblioteca civica di Cologno Monzese, alle porte di Milano, dove è possibile prendere in prestito alcuni dispositivi per la lettura di una limitata biblioteca digitale, composta di classici e di libri fuori diritti. Sempre in Lombardia, 20 sistemi bibliotecari hanno dato vita al progetto MLOL (Media Library on Line) per offrire agli utenti delle biblioteche pubbliche, accanto ai libri cartacei, una piattaforma di distribuzione di contenuti digitali open acce ss e commerciali: grazie a MLOL gli utenti registrati del network possono accedere – da casa o in biblioteca, in base agli accordi con gli editori – a e-book, video, musica, banche dati, quotidiani, periodici e altri contenuti digitali. Per non parlare delle biblioteche d’ateneo, dove la transizione elettronica è in gran parte avvenuta.
Il futuro dunque è già in biblioteca, sotto forma di integrazione fra vecchi supporti e nuove tecnologie. E la biblioteca ha un futuro come integratore di saperi, come collettore di informazione e di contenuti qualificati da porgere a ciascuno secondo bisogni e capacità.