Web, fiction & videogame

Al crocevia tra narrativa e tecnologia troviamo due concorrenti tra i più vivaci e seducenti che il romanzo abbia mai avuto: i videogiochi e le serie tv. Non sappiamo cosa ha in serbo il futuro, ma sul terreno delle storie stanno decollando mercati che coinvolgono centinaia di milioni di persone di ogni età. Ai lettori si affiancano i giocatori e gli spettatori, e con questi si modificano i consumi culturali, mentre la tecnologia è sempre più legata ai prodotti di entertainment, condiziona e promuove i canali informativi e distributivi, assegna a Internet un nuovo ruolo.

Armi, favori, strategie e segreti. L’avventura più straordinaria dell’ultimo decennio, al crocevia tra fantasy, horror e fantascienza con elfi e alieni, robot e vampiri che si muovono lungo infinite linee narrative grazie a viaggi nel tempo e dirigibili, navi spaziali e magie, non potrà mai essere scritta. Ma solo giocata. Messo in scena da una mente collettiva, con milioni di autori sparsi in ogni angolo del pianeta, World of Warcraft è già entrato nel Guinness dei primati: è il videogioco on line più complesso e famoso di tutti i tempi; il più partecipato, con 12 milioni di sottoscrizioni attive a pagamento (Blizzard, 2010); il più citato negli studi su videogiochi e dinamiche narrative; non ultimo, il più diffuso in Europa, Nord America e Giappone, ovvero nei principali mercati del libro.
Possiamo considerarlo un parente prossimo della letteratura di intrattenimento ?
Sì, se siamo disposti a considerare come si stanno trasformando il bisogno di storie e le modalità di creazione, fruizione e consumo di contenuti narrativi nel contesto di un’epoca all’insegna della tecnologia digitale.
Sì, se siamo disposti a considerare che nel consumo di narrativa hanno fatto irruzione – con ritmi e volumi che non potevamo immaginare solo vent’anni fa – le immagini in movimento, sotto forma di trailer e pubblicità, di film e soprattutto di serie tv.
Per finire, dobbiamo considerare che il lettore o, meglio, ciò che ne sta prendendo il posto, vuole produrre storie in prima persona, e il web, la telefonia e la tecnologia digitale gliene offrono la possibilità: dalle keitai novel giapponesi (le storie scritte e lette attraverso i telefoni cellulari, dove l’autore è spesso un personaggio), ai social network di fotografia come Flickr, dove gli iscritti raccontano e si raccontano pubblicando una sorta di autobiografia per immagini tra fiction e poesia, fino ai social network generalisti, Facebook per primo con i suoi 500 milioni di utenti. Siamo senza dubbio in un’epoca nella quale i prodotti culturali sono intrinsecamente legati alle tecnologie che li producono, li veicolano e ne sostengono i mercati.
Proprio sull’onda dei social network torniamo ai videogame on line, dove migliaia di partecipanti condividono la stessa sessione di gioco e sono protagonisti della stessa storia. World of Warcraft e i suoi spin off chiedono al giocatore di essere un personaggio, anzi, più di uno, e di partecipare a complesse alleanze e strategie condivise con gli altri giocatori, sia sul terreno di gioco sia attraverso social network dedicati. Per dare un’idea delle dimensioni del fenomeno, il wiki di World of Warcraft (le enciclopediche «istruzioni per l’uso» redatte collettivamente tramite un social network) è, dopo Wikipedia, il secondo del mondo per traffico e volume delle informazioni. I social network veicolano anche l’economia dei giochi di ruolo, poiché armi, privilegi e poteri acquisiti si vendono e si comprano con un’apposita moneta, e le transazioni seguono le dinamiche economiche della vita reale.
Là dove la narrativa chiede un patto con il lettore per farlo entrare in un’altra vita e in un’altra storia alternativa alla quotidianità, là nascono i migliori videogiochi on line, capaci di soddisfare questi bisogni forse più efficacemente di quanto possa fare un buon romanzo.
Perché e in che modo? Per Jane McGonigal, ricercatrice, autrice di videogame e direttore del Centro di ricerca sui videogiochi all’In – stitute for thè Future di Palo Alto, i videogiochi on line sono il luogo ideale dove concentrarsi e risolvere problemi collaborando con altri; l’obiettivo è una «vittoria epica», cosa molto difficile da realizzare nella realtà. I videogame forniscono inoltre un feedback costante: a ogni passo avanti fatto nel gioco, si conquistano nuovi livelli di «forza» e di «intelligenza», un riconoscimento di cui la quotidianità è avara. «Negli ambienti collaborativi on line come quello di World of Warcraft» ha detto Jane McGonigal «essere a un passo da una “vittoria epica” dà una tale soddisfazione che è facile decidere di passare tutto il tempo in questi ambienti di gioco perché sono semplicemente meglio della realtà».
Quanto tempo? Un giocatore esperto trascorre circa 10mila ore sui videogiochi prima di arrivare ai 21 anni; 10mila ore sono anche l’intervallo di tempo statisticamente necessario per diventare un esperto in una qualsiasi attività e sono anche la quantità di ore di istruzione fra la quinta elementare e l’università nel sistema scolastico degli Stati Uniti. Lo spaccato demografico ci dà altre informazioni importanti. L’età media dei giocatori occidentali si è alzata: oggi negli Stati Uniti, il primo mercato mondiale, è intorno ai 40 anni. I giocatori sono spalmati su tutte le fasce di età, da quella prescolare agli over settanta, ma la percentuale degli over 50 negli Stati Uniti è del 26%, superiore a quella degli under 18, pari al 25 %. A dispetto del fatto che il mondo dei videogame sia presidiato dai giochi di guerra e di combattimento, il pubblico femminile è del 40% (42% per i giochi on line collaborativi) e il segmento in crescita più rapida è quello delle giovani donne over 18 (ESA, Entertainment Software Association, 2010). Stiamo quindi parlando dell’equivalente dei lettori forti.
Non abbiamo dati sul tempo di lettura, lo abbiamo però sui videogiochi. Una parte rilevante dei giocatori ha già passato 10mila ore sui videogiochi; l’insieme dei giocatori on line ci passa 3 miliardi di ore alla settimana, in media un’ora e un quarto al giorno; i giocatori avanzati di videogiochi complessi come World of Warcraft spendono fino a 22 ore alla settimana: praticamente un lavoro part-time. Più in generale, sono 500 milioni i giocatori on line (dei quali 174 in Nord America, 80 in Giappone, 66 in Europa, 55 in Cina, 17 in Corea del Sud), che diventeranno un miliardo e mezzo nei prossimi dieci anni (Institute for thè Future, 2010). A questi dobbiamo aggiungere altre centinaia di milioni di giocatori non on line, quelli per intenderci che giocano su console personali come la Sony PS3 o la Xbox di Microsoft.
Passiamo a un confronto tra le dimensioni economiche e commerciali dei mercati: il mercato dei videogame valeva 20 miliardi di dollari nel 2000, ha raggiunto i 40-45 miliardi nel 2010, e sarà di oltre 80 miliardi nel 2014 (ESA e Chatfield, 2010). Il mercato mondiale del libro vale dai 70 ai 90 miliardi di dollari; di questi il 50-55% è scolastica e professionale (elaborazione su dati Wischenbart Content, associazioni nazionali di categoria, IPA, stampa professionale; R. Cardone, «GdL», 2009). Fiction, letteratura per ragazzi, saggistica e manualistica valgono oggi, nell’ipotesi più ottimistica, 45 miliardi di dollari, ovvero quanto il mercato dei videogame. Nel 2014, i videogame rappresenteranno un giro d’affari pari a tre volte quello che sarà il mercato musicale in quella data.
Dunque, sembra lecito chiedersi se i videogame non siano diretti concorrenti della lettura di fiction e non fiction; concorrenti sul suo territorio così come nell’articolato e cruciale campo dell’educational, dei libri scolastici e professionali.
Secondo J.P. Gee, classe 1948, studioso dell’istruzione e della lettura, «La vita reale funziona in modo molto simile ai giochi on line partecipativi, a giochi come World of Warcraft. I partecipanti mettono in gioco identità multiple che richiedono la capacità di interpretare personaggi e identità – in un flusso che scorre dall’esperienza della vita reale a quella virtuale – ed essere in grado di interagire con altre persone che interpretano vari personaggi. Da quando mi sono messo a giocare e a pensare ai valori dei videogame, sono giunto alla conclusione che questi hanno molto da dire sui processi di apprendimento, con dinamiche molto vicine a quelle della lettura e dell’elaborazione del pensiero. Come l’atto di leggere e il pensare, l’apprendimento e l’educazione non sono generalisti ma specifici; come l’atto di leggere e il pensare, l’apprendimento non è un atto individuale, ma un atto sociale» (What Video Games Have to Teach Us about Learning and Literacy, 2003; n.e. 2007). Per imparare a giocare ci vuole pazienza, determinazione, motivazione e capacità in parte simili a quelle della lettura – sostenere testi lunghi, saper «andare oltre il testo» –, e in parte diverse: acquisire regole complesse, risolvere problemi, relazionarsi con gli altri, attivare le abilità spaziali e temporali e farle confluire nella capacità di immaginare.
Dalla prospettiva delle funzioni cognitive, una caratteristica specifica della lettura è l’atto di «andare oltre il testo», ovvero saldare sentimentalmente il contenuto delle storie con la propria interiorità e le proprie emozioni. Si può saldare la propria interiorità a mondi fantasy come quello di World of Warcraft. Basta pensare ai megaseller dell’ultimo decennio: ambientazione fantasy, combattimenti e intrighi, storie epiche per Il signore degli anelli, Harry Potter, Twilight-, passando a territori contigui troviamo i romanzi di Dan Brown e Ken Follett, sempre che non si voglia scomodare il Mahabharata o la Bibbia. Se pensiamo che la componente fantastica, il realismo magico e tutto ciò che di non realistico è stato pubblicato sono patrimonio della nostra immaginazione e quindi letteratura, non possiamo non accettare che i videogiochi, per quanto di ambientazione fantastica, non abbiano una forte componente narrativa che si salda alla interiorità emozionale e affettiva con modalità del tutto simili alla letteratura romanzesca. Il problema, semmai, è una saldatura troppo tenace, un incontro ravvicinato del terzo tipo, perché il digitale è pervasivo e seducente e al tempo stesso alienante; perché il digitale non è «organico», i rapporti virtuali con gli altri giocatori non sono rapporti umani faccia a faccia, anche se proprio qui sta la carambola sentimentale. Nei videogiochi on line, infatti, il giocatore armato fino ai denti non rischia di cadere in un’imboscata organizzata da un algoritmo, ma di essere sgozzato all’improvviso da un altro giocatore, nascosto nell’ombra: un giocatore più bravo. Ed è questa variabile, procedere nel gioco o rimanere al livello di partenza, vivere o morire, che dà la possibilità di una gratificazione immediata: +1 in intelligenza, +1 in strategia, raggiungere un nuovo e più complesso livello di gioco, conquistare armi più sofisticate, informazioni cruciali, mappe e competenze. Il gioco evolve e il giocatore con lui e con i suoi compagni di avventura, dei quali inizia a comprendere carattere e abilità.
Questa rappresentazione dinamica ripropone il teatro della vita, dove a differenza di quella reale posso impunemente uccidere ed essere ucciso, allearmi con chi voglio e svincolarmi da gruppi e istituzioni, lanciarmi in avventure dove rischio la pelle senza dovermi preoccupare di coniugi, figli e parenti, essere cinico o pietoso senza temere il giudizio dei colleghi, del parroco o del condominio. In questo mondo divento «bravo», miglioro, non ho dubbi sulle mie capacità se riesco ad accedere a un livello di gioco superiore. E di livello in livello arriverò alla mia personale «vittoria epica», la fine di un percorso durato mesi o anni, che mi ha fatto vivere un’avventura in prima persona, una narrazione che non potrò mai trovare o vivere come esperienza diretta anche nel migliore dei romanzi. Allo stesso tempo la vita reale non mi ricompensa economicamente per le mie capacità o per una buona intuizione sul lavoro, mentre il videogioco sì, perché il suo mondo è etico e giusto. E i rischi che devo correre sono sempre coerenti con le capacità che ho sviluppato fino a quel momento, in una marcia personale verso la «vittoria epica»; una vittoria raggiunta anche grazie a una moneta virtuale che mi permette di agire (a che altro serve il denaro dal punto di vista psicologico?) nel mondo che mi sono scelto e per un fine che ho scelto.
I videogiochi on line esprimono quindi, e al meglio, il concetto di narrazione come interazione, un’interazione che ha bisogno del narratore quanto del destinatario, nell’equivalente virtuale di quella comunità «lasca» di narratori e ricettori descritta da Paolo Jedlowski (Il racconto come dimora, 2009).
Al tavolo della convergenza tra narrativa, tecnologia digitale e Internet è seduto anche un altro ospite ingombrante: le serie televisive.
Con un impianto narrativo decisamente sofisticato, la capacità di spaziare dal paranormale al romanzo storico, dalla commedia al poliziesco, dalle indagini mediche all’horror-per-tutti, con cast, set e sceneggiature degne del miglior cinema, le serie tv sono le protagoniste indiscusse del mercato televisivo, e l’avanguardia consolidata di quella che sarà l’iPTV, la televisione via Internet. Aldo Grasso, cinefilo da sempre, gli ha dedicato un saggio: Buona maestra. Perché i telefilm sono diventati più importanti del cinema e dei libri (2007). Per coloro che giudicano la tesi troppo estrema può essere già convincente uno sguardo ai consumi e al mercato.
Tolte le trasmissioni di sport e fatto cento tutte le altre tipologie nell’universo televisivo mondiale, la fiction rappresenta il 42% del trasmesso; l’entertainment (reality, talk show, giochi) il 38%; telegiornali, magazine e documentari il 20%. All’interno della macrocategoria della fiction, le serie tv, con il 62%, staccano di diverse lunghezze i film (12%), le soap opera (12%) e le telenovela (9%) dalle quali hanno ereditato i meccanismi seriali (Eurodata tv Worlwide, 2010).
Le serie tv rappresentano quindi la prima voce in assoluto del trasmesso televisivo mondiale, sport escluso, e soddisfano un pubblico segmentato e trasversale, come quello dei lettori; un pubblico onnivoro, che passa con disinvoltura da un poliziesco «sporco» e iperrealistico come Thè Wire (che vede la collaborazione di alcuni tra i migliori scrittori di genere come George Pelecanos e Laura Lippman), al paranormalepop-filosofico di Lost (pensato dal geniale J.J. Abrams, uno sceneggiatore che sa giocare con il mistero meglio di tanti scrittori blasonati); da una grande saga familiare come la pluripremiata I Sopranos a Mad Men, ormai un cult per palati fini, premiato dalla critica («historical authenticity and visual style»), dal pubblico e quindi dall’industria televisiva con 13 Emmy Award e 4 Golden Globe. Mad Men è la prima serie pensata per la televisione via cavo a vincere per tre anni consecutivi l’Emmy Award for Outstanding Drama Series. Anche in questi due casi la fiction di qualità viene da una stessa penna, quella di Matthew Weiner, sceneggiatore e, non a caso, anche produttore. Anche J.J. Abrams, oltre a essere una delle menti creative di Lost, è produttore, regista (Mission Impossible III, Star Trek) e creatore di altre serie tv (Fringe, Alias, Undercovers). Le capacità autoriali e artistiche si integrano quindi con il ruolo di produttore: un occhio ai costi e un altro più attento alla risposta del pubblico, per poter gestire al meglio la trama, ricreandola, se necessario, di puntata in puntata.
Quanto pubblico? Le prime quattro stagioni di Mad Men hanno raccolto un’audience «première» (ovvero la prima visione, cumulativa, di ogni serie, e solo relativa al mercato americano) di quasi 10 milioni di persone; Dr. House, «medical drama» raffinato e politicamente scorretto, creato da David Shore, ha raccolto nelle prime sei stagioni (2004-2009) un’audience di oltre 91 milioni di persone. Per avere un termine di confronto, le sette stagioni (1999-2007) di una serie conosciuta da tutti come I Sopranos hanno raccolto un’audience di 68 milioni.
Per quanto ne sappiamo, non è ancora stata condotta un’indagine qualitativa/quantitativa che metta a confronto lettura di libri e graphic novel, serie tv, film, manga, animazioni e videogame, ovvero quei consumi culturali di massa che richiedono attenzione specifica, al contrario di altre attività che ci permettono di fare altro, come ascoltare la radio, vedere un telegiornale o navigare sul web. Eppure, nella loro breve vita, le serie tv e i videogiochi si sono già radicati nelle abitudini quotidiane: i dati di diffusione tracciano infatti i contorni di un macrofenomeno in rapido sviluppo. Non sappiamo se e quanto possano sottrarre tempo alla lettura di libri e se la abbiano già in parte sostituita; di sicuro chiedono e ottengono tempo e attenzione nei territori prediletti dalla lettura, là dove abita il racconto e si esprime l’immaginazione. La tecnologia applicata a Internet, come la IPTV, i social network di fotografia e filmati, film e serie tv in streaming, ha permesso alle immagini di irrompere con un ritmo e un’intensità imprevedibili, e di creare inediti e interessanti travasi tra fiction, videogiochi e realtà, in un circolo virtuoso che ne rafforza fruizione e consumi.
Un esempio per tutti. Salvate il soldato Ryan di Steven Spielberg esce nel 1998; il contesto è quello dello sbarco in Normandia e i protagonisti sono alcuni paracadutisti americani della 101a divisione aviotrasportata. Il successo del film offre a Spielberg un ottimo terreno per sviluppare una delle prime miniserie tv, Band of Brothers (2001), un film a puntate, trasmesso solo per televisione, che estende la storia di Salvate il soldato Ryan. Stessa ambientazione, stessi protagonisti, successo mondiale.
Cali of Duty nasce nel 2003 e diventa subito il più gettonato dei videogiochi di guerra; alla fine del 2009 aveva venduto oltre 55 milioni di copie. Oggi è possibile giocare in prima e in terza persona, o nella modalità multiplayer on line (oltre 60 persone contemporaneamente) nei differenti scenari in cui è stato serializzato il gioco originario. L’ambientazione principale è la stessa del film e della miniserie di Spielberg: l’offensiva delle forze alleate in Europa nella Seconda guerra mondiale. Tra i protagonisti-interpreti principali c’è ancora la 101a divisione aviotrasportata, che nel gioco come nella fiction – e ancor prima nelle cronache di guerra – deve espugnare Carentan, un paesino della Normandia di grande valore strategico. Per ricreare la battaglia di Carentan, Call of Duty usa set, scene, movimenti dei personaggi, dislocazione degli avversari, prospettiva delle soggettive identici a quelli di Band of Brothers (www.youtube.com/watch?v=uuyXT-FCqlk). La rappresentazione è così fedele che è stato realizzato un cortometraggio a montaggio alternato nel quale le scene della fiction tv fluiscono in quelle del videogioco e viceversa (www.youtube.com/watch?v=QSOAFuiOBQE): una battaglia che è stata e sarà per sempre epica.
Oltre che dalla fiction, Call of Duty mette in circuito anche la realtà contemporanea: l’agghiacciante filmato «tecnico» di una strage di civili e di reporter della Reuters in Iraq a opera di un elicottero da combattimento americano (diffuso lo scorso aprile di Wikileaks: www.collateralmurder.org; www.youtube.com/watch?v=ZnlczFssoQE) e altre registrazioni di filmati militari di attacchi aerei sono indistinguibili, negli aspetti visivi così come nelle registrazioni audio, dalle simulazioni proposte nelle serializzazioni più recenti di Cali of Duty (www.youtube.com/ watch?v=5HeAe0lTuós), ambientate nelle guerre dei giorni nostri.
In questo sorridersi di eventi, la tecnologia non è solo collante e veicolo, ma ne è parte integrante. Il riverbero continuo tra social network, videogiochi, film, serie tv e l’universo dei contenuti visivi sarà presto animato dalle immagini e dai filmati in alta risoluzione o tridimensionali: un altro passo nel futuro tecnologico e in quello della storia della percezione, un altro asso che la cultura visuale sta calando sul terreno di gioco della narrativa.
Così come un altro asso sono i nuovi tablet, che sembrano fatti ad hoc per accogliere le nuove convergenze tra contenuti e tecnologia digitale. In un anno scarso di vita l’iPad ha venduto oltre 10 milioni di pezzi e ha 40 milioni di users; il device di Apple ha fatto scuola e ha aperto la strada a robusti concorrenti, grazie alle sue caratteristiche innovative pensate esclusivamente per l’entertainment: videogiochi, film, serie tv (tagli di 45 minuti, ottimali per i viaggi quotidiani in metrò) e anche libri. Secondo tre indagini recenti (Ball State University; Cooper Murphy Webb; YouGov, tutte del 2010) il primo uso dell’iPad sono i videogiochi (62%), seguiti dalla lettura di libri e giornali, e dalla fruizione di contenuti video. I contenuti video sono oggi pari al 51 % del traffico mondiale su Internet (Cisco e «Wired», settembre 2010).
Se guardiamo al mondo del libro attraverso questa prospettiva, le questioni aperte che ruotano intorno al libro elettronico – i formati, i modelli di business, il diritto d’autore – assumono un’altra dimensione; il forte sviluppo degli e-book potrebbe essere solo il segmento più luminoso nella traiettoria di una meteora, e i reader portatili in bianco e nero una tecnologia funzionale, ma capace di una sola funzione e già obsoleta.
E quindi sulla complessa convergenza fra percorsi narrativi, format e tecnologia che l’editoria, l’industria culturale e – non certo ultima – la scuola si devono ancora misurare, con lo spirito collaborativo di chi non si sorprende di fronte a novità e fatti non previsti; con lo stesso spirito di chi è alla ricerca di una «vittoria epica».