Non leggete, vi prego, Raffaello Baldini!

La poesia dialettale è stata ormai da tempo sdoganata. Ma scontato il vecchio pregiudizio di popolarità subletteraria, il dialetto si è trasformato in veicolo di una poesia iperletteraria, perché per chi non ha competenze altamente specialistiche, leggere poesie in dialetto (almeno, in un dialetto che non conosce) è un’esperienza irrimediabilmente frustrante. E allora, meglio non leggerla proprio. Meglio provare (se si può) ad ascoltarla.
 
Ho comprato un bellissimo libro di poesie di Raffaello Baldini. È una smilza antologia, per la verità, uscita qualche anno fa per il piccolo «stampatore editore» romagnolo Pazzini (collana «La voce dei poeti»), con una intelligente prefazione di Franco Brevini, uno dei massimi esperti italiani di poesia dialettale. I testi sono tutti tratti da Intercity, l’ultima raccolta pubblicata in vita da quello che, per unanime riconoscimento della critica, si può ritenere non uno dei più bravi e importanti esponenti dell’odierna poesia «neodialettale», ma uno dei maggiori poeti italiani del secondo Novecento tout court.
E infatti io Intercity ce l’avevo già. L’avevo letto e, sia pure con il consueto senso di disagio che (lo confesso) finisco sempre per provare di fronte alla poesia in dialetto, l’avevo convintamente apprezzato, ammirato. Ma allora perché sto a parlare di questa piccola antologia, e non di Intercity? Perché se dovessi consigliare a qualcuno un libro di Baldini, sarei davvero tentato di consigliare proprio questo libro?
Il fatto è che in realtà questo non è solo un libro, anzi forse non è un libro per niente. L’unico appunto che si può muovere all’editore Pazzini, o a chi ha curato questa meritoria pubblicazione, è di non averne voluto esibire in modo più netto l’originale carattere non libresco. A dispetto del packaging e delle scelte di presentazione tradizionalissime, piuttosto che un libro questo è infatti un «libretto»: che in quanto tale non è accompagnato, ma propriamente accompagna il vero oggetto della pubblicazione, un cd, con la voce di Baldini che legge, o meglio esegue, interpreta, recita tredici poesie della sua raccolta del 2003. Fosse un disco si direbbe che è un «live»: la registrazione di un reading svoltosi, credo, in un teatro (il paratesto non precisa quando né dove), tant’è che spesso si sentono anche, in sottofondo, le risate del pubblico, gli applausi. In fondo il volumetto allegato, proprio come nei cd musicali, non contiene altro che «i testi», le lyrics di quelle performance.
Ora, personalmente non mi ritengo affatto un appassionato né un esperto di poesia in dialetto. Ripeto, un po’ ne leggo, cerco di tenermi informato, ma sono esperienze di lettura che compio sempre con un certo imbarazzo, persino (a volte) con un po’ di disappunto. Non voglio dire che, almeno in qualche caso, all’acrobatico esercizio di lettura che queste scritture richiedono non corrisponda una adeguata gratificazione estetica: non è in discussione che alcuni di questi poeti (oggi, oltre appunto al compianto Baldini, e a un altro grande vecchio come Franco Loi, penso per esempio al più giovane Edoardo Zuccato) siano davvero eccellenti, tanto più che i loro versi hanno spesso una decisa carica antilirica, teatrale o narrativa, sono pieni di voci personaggi storie (roba a tutt’oggi abbastanza rara, nella poesia italiana in lingua). Però, a essere proprio onesto, penso che se facessi un altro mestiere, difficilmente mi sottoporrei a questo tour de force. Anzi, darei per certo che non è roba per me.
In effetti, per chi sono i libri di Baldini? Per chi sono scritti, per chi sono pubblicati i libri di poesia dialettale contemporanea? Chi è in grado di leggerli?
I dialettofoni, certo, anche se essere dialettofoni non basta: e diciamo allora i dialettofoni di buona cultura letteraria. Ma con tutta evidenza Baldini non scrive per i santarcangiolesi di buona cultura (di Santarcangelo di Romagna sono il suo dialetto e i suoi personaggi e insomma il suo mondo rappresentato). Né certo Loi scrive per i milanesi, o Sovente per i residenti di Cappella (nei Campi Flegrei). Chi scrive in dialetto pensando di rivolgersi ai propri «compaesani» oggi è quasi sempre, e quasi per definizione, un poeta dilettante, che si muove nel dominio del folclore municipale o regionale (magari con il sostegno economico generoso, anche troppo, di assessorati «alla cultura e al territorio» e simili).
Non è questo il caso, naturalmente, dei «veri» poeti in dialetto. La stessa diffusa propensione a privilegiare parlate periferiche, appartate, pochissimo diffuse, la dice lunga sulle loro intenzioni: non è una lingua comunitaria quella che cercano, non è un codice per un pubblico che vi si riconosca. E allora per chi scrivono, per chi pubblicano le loro poesie? Chi è in grado di leggere Baldini pur non essendo santarcangiolese (o romagnolo)?
L’identikit non è difficile, visto che per leggere un dialetto che non si conosce servono competenze specialistiche di profilo piuttosto alto, di tipo non solo letterario ma anche e proprio strettamente linguistico. Non che ciò comporti una restrizione davvero significativa rispetto al pubblico già piuttosto selezionato della poesia italiana contemporanea. Sul piano della pregiudiziale di specialismo richiesto al lettore, comunque, lo scarto d’intensità è abbastanza netto.
E vero che le edizioni dei poeti dialettali contemporanei sono di norma accompagnate dalle traduzioni in italiano. Ed è vero che, se leggere un poeta dialettale soltanto in traduzione è un controsenso, con un po’ di buona volontà, confrontando testo in dialetto e traduzione, ci si può arrangiare a capire Baldini anche senza essere professori di linguistica. Però non si tratta solo di capire il significato, di superare la più o meno disorientante alterità di lessico e morfosintassi. Il punto è: come si pronunciano le poesie di Baldini? Che suono corrisponde alle mute catene di grafemi che leggo sulla pagina? Come andranno letti – non dico per forza ad alta voce, ma anche solo mentalmente – versi come questi, che aprono La diferenza: «Aqué u n s capéss piò gnént, i zòvan mai / ch’u i è te campsènt, / e u i è zenta ’d stènt’an, ènch’ d’utènt’an / ch’i va, eh’ i còrr, e’ géva ir Demo in piaza: / quèst u s’è ’rdott un mònd eh’ l’è mèi ès véce» (Qui non si capisce più niente, quanti mai giovani / ci sono al cimitero, / e c’è gente di settant’ anni, anche di ottanta / che va, che corre, diceva Demo ieri in piazza: / questo s’è ridotto un mondo che è meglio essere vecchi). Che poi non è nemmeno solo questione di competenze. Anche Brevini, nella sua introduzione, alla fine lo ammette: «Seguendo sulla pagina i versi letti dall’autore, ci si rende conto che il testo non dispone di tutte le informazioni indispensabili per la sua esecuzione». E dice bene, indispensabili. Il dialetto scritto, in versi o no, è sempre incompleto, specialmente in queste «iperrealistiche trascrizioni del parlato» (è di nuovo Brevini) «che chiedono di essere integrate dal dicitore in quanto è unicamente nella oggi screditata dimensione dell’oralità che vivono». Ma pubblicarle in un libro, allora, è un sopruso: è come se cantanti e musicisti non pubblicassero dischi, ma solo libretti e spartiti.
Basta fare la prova con il cd di Baldini. Recitate da lui, con la sua pronuncia autentica, con l’elegante equilibrio fra lettura e performance teatrale che riesce a mantenere, quelle poesie che sulla carta restavano straniere, rattrappite in segni di inchiostro un po’ esanimi (esanimi perché spetterebbe a te lettore rianimarli – e tu però, in fondo, senti di non esserne davvero all’altezza), improvvisamente riprendono vita. Quei versi che non si poteva che leggere a singulti, inciampando su ogni parola, un occhio al testo uno alla traduzione, indugiando su ogni sillaba con la lingua che si arrota, silenziosa, nella bocca, a ipotizzare pronunce, fantasticare suoni – quei versi ora riprendono il loro ritmo accelerato, sgangherato e suadente di monologhi-chiacchiera comicamente insensati e tragicamente attestanti un vuoto di senso che ci riguarda tutti, che è la trama della nostra più banale quotidianità: e sono trascinanti.
Seguendo il testo scritto durante l’esecuzione, anche non essendo dialettofono, anche perdendo il significato di qualche parola (ma come nelle canzoni, poi si può riascoltare, rileggere e riascoltare), in questo modo tu fai davvero esperienza della poesia di Baldini. L’accorata «smègna» (smania) di riacciuffare un invito alla comunicazione rimasto disatteso del Davide protagonista di Pronto! Pronto!, che ha ricevuto una telefonata ma non ha fatto a tempo a rispondere; la disarmata lamentazione del personaggio affetto da improvvisi accessi di pianto immotivato di I dutéur («ir matéina, par dèi, disdài aquè, / pròpria aqué, ò tach a pianz ch’a séra dri / ch’a lizéva agli estraziòun de lòt»); o ancora il domestico assillo metafisico della voce monologante di Un susòrr, secondo cui sperare nel paradiso «l’è una pretàisa», già il purgatorio «mè la m’andrébb da sgnòur», ma in fondo anche l’inferno sarebbe qualcosa, «ch’e’ fa paèura, mo l’è una paèura, / cma s pòi dèi? Ècco, sé, ch’la à un fundamént»: non come quando sei lì nel letto, e «t vèn in mént eia vòlta, quant t’è vést / l’usèri, te campsént / un camaròun pin d’òsi, / òsi purséa, una muntagna d’òsi», e «quèll l’è un mumént, ta schèur, ta i si sno tè, / e u t pèr d’ sintéi ’na vòusa, èun ch’u t dèi / pièn, t’un susòrr: /un gn’è gnénca l’inféran, u n gn’è gnént».
Io in Intercity queste poesie le avevo già lette: ma se ora le ascolto, capisco che quelle che io avevo letto, che io ero stato in grado di leggere, non erano le poesie di Baldini: queste, che ora ascolto nella pienezza della loro realizzazione testuale, sono le poesie di Baldini. Difficile o no, il testo di una poesia di Valerio Magrelli, per dire, è tutto sulla pagina. Quello delle poesie di Baldini no: nel libro ce n’è una traccia, uno scheletro (una spoglia), ma il vero testo è altrove, aspetta di essere materializzato in una voce. Del resto, lo diceva Meneghello: il dialetto non si scrive, non si legge. La sua forza, la sua bellezza – se c’è, se ci si crede – sta proprio nella sua alterità radicale rispetto all’italiano: che è anche una alterità mediale. La celebre renitenza di Giacomo Noventa a stampare i suoi versi aveva una sua indiscutibile coerenza.
Ecco perché il formato «cd + libretto» (ma un dvd sarebbe pure meglio: si avrebbero anche la faccia, i gesti, le smorfie, l’inarcarsi delle sopracciglia, l’aggrottarsi della fronte… tutte componenti costitutive, per dir così, del dialetto) è l’unico mezzo davvero adeguato per pubblicare una poesia come quella di Baldini: o quantomeno per sottrarla alla fatale episodicità (e non riproducibilità) di reading e spettacoli teatrali. Il libro no, il libro – da solo – non basta: o perlomeno non basta a chi non è in grado, per conto proprio, di compiere il miracolo, mettere le orecchie agli occhi, leggere quelle poesie come il musicista professionista legge mentalmente uno spartito: di risuscitare quei versi-zombie.
Si può discutere di molte cose: se oggi l’opzione per il dialetto sia o non sia per sua natura regressiva, se sia o no una «scorciatoia» facile per guadagnarsi una lingua vergine, altra, una lingua dell’io (o del sé) sottratta al logoramento cui sarebbe esposto l’italiano della comunicazione (la pensava così Sereni, per esempio). Quel che mi pare però francamente difficile capire è perché – nell’era elettronica e digitale, degli smartphone e di YouTube – ci si ostini ad affidare alla carta e all’inchiostro una poesia che, per sua natura ma in genere anche per esplicita aspirazione, è fatta di voce, suoni, cadenze, inflessioni, non meno che di parole. Un potenziale di antiletterarietà si trasforma così nell’ennesimo, e allora sì un po’ stucchevole, fattore di iperletterarietà.
Raffaello Baldini è stato uno dei più importanti poeti italiani contemporanei. Ma se non siete santarcangiolesi – e se non avete neppure una cattedra in un dipartimento di italianistica – il modo migliore per apprezzarlo non è leggere le sue poesie. Provate ad ascoltarle.