E se la soluzione fosse nel diritto d’autore?

Il dibattito sulle biblioteche digitali in Europa è a una svolta, dopo l’approvazione della normativa sulle “opere orfane”. Le risorse restano scarse ma alcune esperienze suggeriscono che il diritto d’autore, a lungo visto come un ostacolo alle digitalizzazioni, possa essere invece utilizzato come un fattore abilitante.
 
Che fine hanno fatto i programmi delle biblioteche europee di digitalizzazione di libri del Novecento? Se ne parla da un decennio ma gli esiti sembrano davvero scarsi. Se si fa un giro su Europeana a caccia di reperti del genere, se ne esce sconfortati. Difficile trovare esempi davvero significativi. Qualcosa sulla Prima guerra mondiale, grazie allo stimolo del centenario. Qualcos’altro del tutto occasionale. Più nulla.
Di chi è la colpa? Se ne discute da un decennio con scarso costrutto. Imputato principe è il diritto d’autore. E il principale ostacolo, si ripete. Costa troppo non tanto pagare i titolari dei diritti ma cercarli e, una volta trovati, raggiungere un accordo. Tipico problema di costi di transazione, ben noto nell’economia del diritto d’autore e che forse non valeva la pena di drammatizzare oltremisura.
La drammatizzazione fa perdere lucidità. In tema di gestione dei diritti d’autore nei programmi di digitalizzazione su larga scala si è finiti a parlare (quasi) solo di “opere orfane”, cioè di quelle opere che si sa essere ancora protette ma i cui titolari non si riescono a reperire. Per un’intera stagione, che fortunatamente volge al termine, è sembrato l’unico problema. Solo con una normativa che consentisse alle biblioteche di utilizzare in regime di eccezione le opere orfane, i programmi di digitalizzazione sarebbero partiti.
Si è arrivati così alla Direttiva europea e a una serie di conseguenti legislazioni nazionali. Anche in Italia, dove – al momento in cui scrivo (ottobre 2014) – l’iter legislativo sta compiendo gli ultimi passi. Il problema è che l’intera legislazione si è concentrata su un potenziale, del tutto irrealistico, utilizzo di opere orfane da parte delle biblioteche o altre istituzioni. Basta leggere i considerando, che precedono il testo normativo (genere letterario che, specie nella legislazione europea, va assumendo caratteristiche sempre più interessanti, mescolando lo stile del comunicato stampa con quello tipicamente giuridico). Si insiste sull’impatto del tema sulla creazione delle biblioteche digitali ricordando che «l’istituzione di un quadro giuridico che promuova la digitalizzazione e la diffusione [delle] opere orfane rientra nelle azioni fondamentali dell’agenda digitale europea». Il che è persino vero, giacché l’ipercitata comunicazione della Commissione che ha lanciato Un’agenda digitale per l’Europa si sofferma sul tema. Né la cosa è limitata entro i confini europei. Negli Stati Uniti – con tempi persino più lunghi dei nostri – il dibattito ricalca a pieno lo schema seguito in Europa.
Dal momento in cui si è rappresentato il problema come capitale «al fine di promuovere l’apprendimento e la diffusione della cultura» (cito ancora dai considerando), invece di derubricarlo a quel che in effetti è – un banale caso di eccesso di costi di transazione – si è costruita una macchina abnorme, probabilmente destinata a scarsissimi utilizzi. Chi davvero avrebbe avuto bisogno di una normativa ragionevole erano gli editori o altri produttori commerciali, specie digitali. Avete presente le note che ogni tanto si incontrano a fianco di una foto o di un brano per cui l’editore non è riuscito a trovare i titolari dei diritti ma si dice pronto a remunerarli laddove ricompaiano? Ecco, era quel che doveva essere regolato per fornire un po’ più di certezza del diritto: la prassi è oggi fondata solo su una reciproca fiducia e la buona fede delle parti. Non ha mai dato grandi problemi, ma una sua regolamentazione formale sarebbe utile. La Direttiva non prende in considerazione il problema, anche se lascia una certa discrezionalità agli Stati membri nell’istituire forme di licenze anche commerciali per le opere orfane. Al momento, però, solo il Regno Unito si è mosso in questa direzione. All’interno della recente riforma del diritto d’autore si è previsto uno schema di gestione delle opere orfane basato su licenze accessibili a tutti, a condizioni presumibilmente diverse a seconda delle circostanze.
D’altro canto, non si riesce a immaginare quale bibliotecario abbia voglia di mettersi a individuare orfani per adottarli in forma digitale. L’esigenza è digitalizzare più o meno ampie collezioni librarie, non accontentarsi del residuo risultante da ricerche fallite degli aventi diritto (con il rischio che ciò crei un incentivo a farlo through killing the parents, come è stato detto).
Le ragioni per cui la legislazione sulle opere orfane, che doveva essere la panacea, è invece inefficace sono evidenti se si ha la pazienza di far di conto. Abbiamo iniziato dicendo che il costo di transazione è (I) nella ricerca e (II) nella negoziazione e che si somma (III) alla remunerazione. La norma sulle opere orfane risolve solo il problema della ricerca (I), ponendo un tetto ragionevole oltre il quale non vai la pena continuarla, e riduce a zero (salvo la ricomparsa dell’avente diritto) la remunerazione (III). Ma il costo maggiore è più spesso nella negoziazione (II), che non è affrontato. Inoltre, poiché le biblioteche digitali hanno valore culturale ed economico in rapporto alla ricchezza della collezione, risolvere solo un pezzetto del problema non incoraggia certo nuove iniziative.
Da qui l’impasse. D’altro canto, la fine della discussione sulle opere orfane, ora che le normative sono emanate e da una parte e dall’altra se ne va constatando l’inutilità, può essere utile per spostare l’attenzione sui problemi reali. Che riguardano sì i costi dei diritti ma anche le fonti di finanziamento.
Restiamo ancora per un momento sul lato delle spese. Iniziano a esserci evidenze empiriche sul rapporto tra costi di ricerca e costi di negoziazione. Quando la British Library ha sperimentato l’uso del sistema Arrow per la ricerca diligente degli aventi diritto ha constatato una riduzione dei tempi necessari a titolo da due ore a cinque minuti, ma le fasi successive restano complesse, e i tempi a titolo (pur non direttamente stimati nel rapporto) sono molto più ampi. Ancor più illuminante è l’esperienza di biblioteca digitale di Wellcome Trust, concentrata su un singolo argomento (la genetica), e per questo non troppo ampia (alcune migliaia di libri) ma comprendente testi pubblicati in diversi Paesi. Sia pure in un ambiente circoscritto, la negoziazione individuale dei diritti è risultata molto più costosa della ricerca. Il costo medio della prima è stato stimato in 30 sterline circa a titolo, mentre la ricerca era pressoché irrilevante. Nello specifico caso, di letteratura scientifica, nella gran parte dei casi sui titoli fuori commercio gli aventi diritto erano disponibili a concedere gratuitamente l’autorizzazione a ripubblicare.
Ciò accade sui titoli fuori commercio perché il problema dei costi di transazione deve essere visto sotto due aspetti: il livello assoluto dei costi e il rapporto tra questi e il valore che ne deriva. Il costo di transazione nell’acquisto dei diritti di traduzione su un bestseller può essere molto alto (in contatti, consulenze, commissioni d’agenzia, incontri a Francoforte…), ma è irrilevante in confronto ai valori in gioco. Al contrario, se un libro è fuori commercio, il valore economico di uno sfruttamento ulteriore è basso, per cui anche un costo non troppo elevato è di fatto eccessivo.
Da qui l’idea di affidare a una gestione collettiva i diritti di riproduzione e messa a disposizione online dei libri fuori commercio, il che è lo strumento classico, da oltre un secolo, per ridurre i costi di transazione. Si è lavorato negli anni scorsi per stabilire i limiti di questo strumento (dalla rappresentatività effettiva delle società chiamate a gestire i diritti alla possibilità di uscire dall’accordo da parte dei singoli), ma che l’“adozione” dei fuori commercio, e non solo degli orfani, sia più efficace sembra un risultato acquisito.
Trovo tuttavia che la ragione del ritardo negli sviluppi dei programmi di digitalizzazione di opere del Novecento vada cercata soprattutto nell’aver concentrato l’attenzione solo sul “quanto costa” e mai sul “chi paga” e soprattutto sul “perché dovrebbe farlo”. Ci sono essenzialmente tre modelli possibili. Nel primo a pagare è il settore pubblico, all’interno delle tradizionali funzioni delle biblioteche. Nel secondo si instaura una partnership con il settore privato per programmi che comunque consentano l’accesso gratuito per i lettori. Nel terzo le opere fuori commercio sono rimesse in vendita, singolarmente o in aggregati, in forma digitale.
In Europa si guarda molto alla prima ipotesi, ma più a parole che nei fatti. Non passa convegno su questi temi senza proclami su come la digitalizzazione dell’eredità culturale europea sia “una priorità”. Che è tra le parole più abusate, così che a evitare equivoci è opportuna una definizione. “Priorità” è un concetto relativo e, parlando di politiche pubbliche, significa una “attività su cui investire risorse prima che su un’altra”. Perché dopo tutto, spiace dover ricordare la tristezza ricardiana della scienza economica, le risorse sono limitate.
Ora, è probabile che molti di noi siano d’accordo che avere a disposizione liberamente accessibili online molti libri non più in commercio sia una buona cosa, ma che un numero inferiore sia disposto a sostenere che sia prioritario rispetto a una serie di altre buone cause (dal dissesto idrogeologico all’edilizia scolastica ai fondi per la ricerca). Persino all’interno dei fondi destinati alle biblioteche e anche limitandoci alle biblioteche nazionali, personalmente penso che le priorità siano altre. Lo dico usando Tirature come un palchetto in un angolo di Hyde Park, per esprimere la mia indignazione per le condizioni finanziarie in cui sono lasciate oggi le biblioteche nazionali centrali, dopo stagioni di tagli e blocco di turnover e poi ancora tagli. Mi capita, occupandomi di queste vicende, di essere ospite di biblioteche nazionali in altre parti d’Europa e del mondo. E mi capita di vergognarmi per il confronto: la scarsa attenzione, tutta italiana, al patrimonio librario nazionale è davvero un unicum. Maggiori risorse sarebbero in primis necessarie per ridare fiato alle biblioteche nazionali.
Ma questo è un altro discorso, una parentesi sia pur necessaria. Qui importa piuttosto un semplice esercizio di realismo politico: risorse pubbliche per programmi ampi di digitalizzazione dei libri del Novecento non se ne vedono a medio termine né in Italia né nel resto d’Europa. Resta da capire quali meccanismi possono incentivare modelli economici che vedano il coinvolgimento di privati.
Le alternative che restano sono due: il modello secondo cui un partner di grandi dimensioni finanzia l’operazione rientrando nell’investimento grazie a entrate pubblicitarie o, in alternativa, forme più tradizionali di riedizione delle opere non più in commercio. Entrambi i casi richiedono l’acquisizione di esclusive nello sfruttamento delle opere digitalizzate. Sull’intero corpus, nel caso del modello generalista, se mi si passa la definizione presa dal medium che per eccellenza si fonda sulla pubblicità; sulle singole opere, nel caso del modello editoriale. Il primo modello, si è già capito, è quello proposto da Google alle biblioteche. Il secondo è più innovativo ed è prefigurato dalla legge che regola la gestione dei diritti sulle opere librarie fuori commercio in Francia.
Si tratta di una legge complessa, molto dirigista (forse troppo), che mette assieme un modello di gestione collettiva di diritti, un intervento pubblico di sostegno alle imprese attraverso mutui a tassi agevolati e un ruolo attivo nella selezione dei libri da parte della Biblioteca nazionale (Bnf). Il nocciolo dell’idea è identificabile nell’affidare a una società collettiva rappresentativa di autori e editori (individuata tramite un bando di gara in Sofia, la società che già gestiva il diritto di prestito) la gestione dei diritti sulle opere che la Biblioteca nazionale determina come fuori commercio. I libri non più in commercio sono offerti sul mercato per riedizioni digitali online; le licenze prevedono pagamenti solo in percentuale delle vendite, così da minimizzare i costi fissi iniziali. Ad accompagnare questo schema vi sono poi alcune norme volte a evitare la creazione di posizioni dominanti. Al di là delle specifiche tecniche, essenzialmente le licenze di Sofia possono concedere esclusive solo per modelli editoriali di sfruttamento, mentre per modelli generalisti basati sulla pubblicità sono ceduti solo diritti non esclusivi.
La legge risale al 2012 e l’avvio è stato più lento del previsto. Si cominciano però ora a vedere i risultati. La prima lista di 60.000 opere fuori commercio è stata pubblicata dalla Bnf nel marzo 2013. Prima che i titoli entrassero nella gestione di Sofia, per sei mesi i titolari dei diritti potevano opporsi. Al termine dei sei mesi, le opere offerte sul mercato erano diventate 55.000. Peraltro, è probabile che tra i 5000 opt out esercitati da autori e editori, ci fossero molti casi in cui questi hanno preferito una gestione individuale in vista comunque di una riedizione digitale. Dei 55.000 titoli residui, al settembre 2014 i diritti su 28.580 opere erano stati acquistati da 341 editori diversi. Numero significativo non solo in rapporto al totale dei titoli offerti, di cui rappresentano il 52%, ma anche perché si tratta di oltre un terzo della produzione annua di novità librarie in Francia. L’adesione di una tale molteplicità di editori che scelgono cosa pubblicare consente di dire che gli obiettivi di pluralismo e diversità culturale che erano nell’iniziativa legislativa sono a portata di mano.
Sembra dunque che il buon vecchio diritto d’autore – gestito in modo innovativo – possa funzionare come un fattore abilitante della digitalizzazione di opere fuori catalogo. L’esatto contrario di come è stato finora rappresentato. Certo, è sempre un costo: ma può diventare anche lo strumento per consentire di recuperare gli investimenti necessari perché si passi dagli annunci su quanto sarebbe desiderabile avere disponibili in elettronico vecchi libri introvabili a effettive nuove edizioni.
Il modello generalista ha altri vantaggi, non si può negare, a partire dalla gratuità dell’accesso garantita al lettore. Ma è un modello che concentra il controllo su uno o pochi soggetti, il che è sempre poco auspicabile nelle industrie culturali. Il modello economico è basato sugli effetti di rete, dove la dimensione della collezione finisce per creare posizioni di vantaggio competitivo difficilmente scalfibili e quindi stabili nel tempo. Il diritto d’autore è in questo caso un fastidio, perché è un diritto di esclusiva concorrente con quello cui aspira l’impresa partner. Dal punto di vista politico, l’alternativa non è tra presenza o assenza di esclusive sulle opere, ma tra concedere l’esclusiva a uno solo o a molti.
Ridare la parola agli autori può avere altri vantaggi non trascurabili. In primo luogo per una caratteristica chiave del diritto d’autore: la tutela del diritto morale, che comprende il diritto all’inedito e anche all’oblio, se decenni addietro si sono scritte sciocchezze, o peggio nefandezze perché magari si viveva in un regime non democratico (e andando indietro nei decenni quasi l’intera Europa ha vissuto queste fasi).
Se poi la gestione collettiva avviene in modo più articolato, e agli autori si lascia la possibilità di scegliere politiche diverse, il diritto d’autore può dar luogo a modelli economici nuovi, anche nei rapporti con le biblioteche o con iniziative non a scopo di lucro. Su molti libri fuori commercio, specie di saggistica, è verosimile che gli autori siano pronti a far pubblicare le proprie opere con una qualche forma di licenza creative commons, come il caso Wellcome Trust sopra citato conferma. O addirittura, in ambito scientifico, gli autori – o le istituzioni in cui lavorano – potrebbero avere interesse a finanziare le riedizioni, secondo modelli di gold open access, tanto più realistici al decrescere dei costi di digitalizzazione.
Usare le tecnologie per gestire meglio le informazioni sui diritti (chi sono i titolari e quali politiche di gestione preferiscono) è essenziale. E importante, sotto questo profilo, che la legge francese separi la gestione della determinazione dei fuori commercio dalla gestione successiva dei diritti, perché la prima informazione può in questo modo essere utilizzata anche per scopi diversi da quelli della licenza Sofia, per esempio da un autore che desideri affidare la digitalizzazione a una biblioteca pubblica.
Lungo questa linea si stanno affacciando esperienze che rovesciano il meccanismo da cui si è partiti: invece di immaginare la biblioteca che cerca i titolari e negozia con loro i diritti, si promuove presso questi ultimi, specie in nicchie specialistiche, la possibilità di dichiarare le proprie politiche. È il caso, per esempio, del servizio Declare your rights sviluppato all’interno del progetto Arrow dalla biblioteca universitaria di Innsbruck per le proprie tesi di dottorato. Queste sono già digitalizzate per garantirne la conservazione, e possono essere rese pubbliche chiedendo ai dottori di ricerca di essere attivi in tal senso.
In definitiva, sarebbe auspicabile guardare al problema con mente più aperta, puntando sull’innovazione tecnica nella gestione dei diritti, così da proporre modifiche normative che abilitino soluzioni diverse e non siano invece disegnate su un singolo modello economico. Per farlo, occorrerebbe sdrammatizzare il dibattito politico sul diritto d’autore. Non sembra che questo stia avvenendo in giro per l’Europa: i toni restano caldi e la qualità della discussione modesta. Il che non è una buona ragione per rinunciare a proporre qualche modesto approfondimento.