Notizie dalla Cina

La presenza della letteratura cinese sugli scaffali delle librerie italiane è aumentata esponenzialmente: un paese fino a poco tempo fa confinato in miti e stereotipi dell’immaginario, si offre oggi in narrazioni diverse e che, ognuna a suo modo, esplorano le affascinanti contraddizioni di una realtà in costante trasformazione. Colpiscono, in un simile panorama, le nuove realtà editoriali specializzate e la presenza massiccia del graphic novel.

Nel 2000 Gao Xingjian, autore di Il libro di un uomo solo ([1998] Rizzoli 2003, tr. it. di Alessandra Lavagnino), vince il premio Nobel. E la prima volta che il riconoscimento viene assegnato a uno scrittore cinese (sebbene naturalizzato francese); e oggi quel premio, assegnato in una data così simbolica, sembra aver in un certo modo inaugurato il “secolo cinese”.
Dieci anni dopo, nel 2010, il paese si presenta al mondo con l’Expo di Shanghai, e nel 2012 l’Accademia di Stoccolma assegna un secondo premio Nobel a uno scrittore cinese. Anzi, a uno degli scrittori cinesi forse più noti in Occidente: Mo Yan, autore del celebre Sorgo rosso (Theoria 1994, poi Einaudi 1997, tr. it. di Rosa Lombardi). Il Nobel a Mo Yan ha sicuramente sancito un dato di fatto tangibile anche da chi non abbia particolari conoscenze della lingua e della cultura cinese. La Cina non è più la grande sconosciuta di un tempo; o meglio, da qualche anno i romanzi sugli scaffali delle librerie italiane ci restituiscono un quadro variegato, complesso, di un paese che nel giro di settant’anni – lo ricorda Yu Hua nel divertente “vademecum” La Cina in dieci parole (Feltrinelli 2012, tr. it. di Silvia Pozzi) – ha conosciuto una trasformazione socioculturale senza precedenti: «un occidentale avrebbe dovuto vivere quattrocento anni per assistere agli stravolgimenti che i cinesi hanno visto in appena quarant’anni».
Già negli anni sessanta si era assistito a un rinnovato interesse nei confronti della letteratura cinese. Come osserva Norman Gobetti, sono quelli gli anni in cui iniziano la propria attività traduttori e mediatori che conoscono bene la lingua e il paese, gli anni in cui si abbandona la prassi della traduzione da “lingue ponte”, francese, inglese o tedesco (Da lingue ignotissime, https://rivista- tradurre.it/2017/ll/da-lingue-ignotissime/). Ma è alla fine degli anni ottanta (si veda sempre Gobetti) che si registra un sensibile aumento della presenza della letteratura cinese contemporanea sugli scaffali delle librerie italiane. Ecco allora arrivare autori come Mo Yan, Su Tong, Yu Hua, accolti dapprima nel catalogo dalla pioniera Theoria (Napoli) e poi confluiti velocemente in quelli di Einaudi, Feltrinelli e Neri Pozza.
Ad accomunare scrittori pur diversissimi sono tre aspetti. Il primo è il dato generazionale: si tratta per lo più di autori nati negli anni cinquanta o al massimo nei primi anni sessanta, testimoni della Rivoluzione culturale e già maturi all’epoca di Piazza Tien An Men. Sono scrittori tuttora prolifici, che continuano a pubblicare con regolarità (di Mo Yan e Yu Hua sono usciti, nel 2017, rispettivamente I quarantuno colpi, Einaudi, tr. it. di Patrizia Liberati, e Il settimo giorno, Feltrinelli, tr. it. di Silvia Pozzi). Il secondo è la scelta del genere: i loro romanzi di maggiore successo sono incentrati su una vicenda familiare narrata sull’arco temporale del Novecento, dai primi anni del secolo, immortalati da Su Tong (La casa dell’oppio, Theoria 1995, tr. it. di Rosa Lombardi) fino agli anni più recenti, di cui parla, per esempio, Yu Hua nel dittico di Brothers (Feltrinelli 2008, tr. it. di Silvia Pozzi), e Arricchirsi è glorioso (Feltrinelli 2009, tr. it. di Silvia Pozzi). Terzo aspetto rilevante sono le trasposizioni cinematografiche delle opere dei tre scrittori da parte di Zhang Yimou con grande successo di pubblico globale, che per anni hanno segnato l’immaginario occidentale della Cina. A questa narrativa mainstream di qualità, di autori ben insediati nel campo letterario cinese (è il caso anche di Jia Pingwa, autore celebrato in patria e appena giunto, per effetto “traino”, sugli scaffali italiani con Lanterna e il distretto dei ciliegi, Elliot 2017, tr. it. di Barbara Leonesi e Caterina Viglione), si affianca, con non meno successo, quella di chi scrive dall’esilio, come il Nobel Gao Xingjian, o il giallista di successo Qiu Xialong, autore di una fortunata serie di romanzi ambientati a Shanghai e tradotti in Italia da Marsilio.
Il dato generazionale si rivela particolarmente utile per esplorare le realtà editoriali che in tempi più recenti hanno contribuito ad allargare sensibilmente i confini dell’immaginario cinese in traduzione. Tra queste particolarmente attiva è Metropoli d’Asia, diretta da Andrea Berrini. Già evidente dalla vocazione urbana nel nome, l’intenzione di esplorare la contemporaneità dell’immenso continente asiatico si è concretata, nel caso della Cina, nella scelta di autori non per forza appartenenti alla generazione che ha vissuto in prima persona la Rivoluzione culturale o a quella dei giovanissimi, ormai cittadini a pieno titolo di un mondo globale.
La scelta dei titoli si rivolge piuttosto a scrittori – o scrittrici, perché va detto che quella di Xiaolu Guo è una delle pochissime voci femminili nell’offerta in traduzione italiana – attivi anche nell’industria cinematografica o in altri campi artistici contemporanei. E il caso della stessa Xiaolu Guo, ben nota anche sul mercato anglofono, ma anche di Zhu Wen, autore dei racconti raccolti in Dollari, la mia passione (2009, tr. it. di Maria Gottardo e Monica Morzenti), o del più giovane Han Han (classe 1982), blogger che sceglie due generi meno praticati, ossia il romanzo di formazione (in Le tre porte, 2011, tr. it. di Silvia Pozzi) o quello “sulla strada” ( Verso nord unonoveottootto, 2012, tr. it. di Silvia Pozzi), ben lontani dagli affreschi storico-familiari della generazione precedente.
Un’altra realtà editoriale che di recente ha dedicato all’Asia, e alla Cina, grande attenzione è l’editore con la collana «Asia», inaugurata a fine 2015, curata da Ilaria Benini che, come Berrini, frequenta in prima persona la scena letteraria asiatica. All’interno della collana, la Cina occupa la metà dell’intero catalogo. Ed è proprio all’interno di «Asia» che è uscita, tra il 2016 e il novembre del 2017, la trilogia del graphic novel Dna vita cinese, firmata da Li Kunwu e Philippe Otié, introdotta da un mediatore di spicco come Pierre Haski. Come osserva Ilaria Benini, «per accorciare le distanze e raccontare mondi diversi dal nostro è fondamentale, oltre che divertente, solleticare e abituare l’occhio», e forse il racconto per parole e immagini ha anche un’immediatezza di fruizione che la letteratura tradotta da una lingua così lontana non sempre riesce ad avere.
Nel 2017 il nesso tra graphic novel e Cina è risaltato in tre occasioni: la mostra Chinamen, tenutasi presso il Mudec – Museo delle Culture di Milano e dedicata alla storia dell’immigrazione cinese in Italia, ha dato vita al graphic novel, che si propone come “catalogo narrativo” della mostra stessa e rappresenta un interessante caso di un genere ancora poco praticato in Italia, quello del romanzo dell’immigrazione.
In estate, poi, Bao Publishing ha inaugurato una collana dedicata esclusivamente a graphic novels di autori cinesi, di cui sono usciti i due primi titoli. Infine, nel mese di novembre, si è conclusa la pubblicazione, iniziata l’anno precedente, della trilogia Una vita cinese.
Uscita in Francia tra il 2009 e il 2011 per i tipi di Kana, Una vita cinese è stata, a detta di Benini, una «riscoperta», caratteristica che accomuna diversi titoli di «Asia». Come se il momento giusto per pubblicare l’opera, già proposta ad altri editori che l’avevano scartata, sia giunto solo ora che l’attenzione nei confronti della Cina è molto maggiore e permette incursioni fuori dai tracciati consueti. Il fumetto, pluripremiato in Francia, è frutto di una singolare collaborazione: quella tra Li Kunwu e Philippe Otié, francese, da anni attivo in Estremo Oriente nel settore economico.
Una vita cinese copre il periodo dal 1955, anno di nascita del protagonista che narra in prima persona gli avvenimenti, fino a oggi, ed è suddiviso in tre volumi. Il primo, Il tempo del padre, va dal 1955 alla morte di Mao nel 1976, che corrisponde anche al raggiungimento della maggiore età da parte del protagonista Li e il suo arruolamento nell’esercito; il secondo, Il tempo del Partito, copre gli anni segnati dalla teoria di Deng Xiaoping, che coincidono con l’ingresso nell’età adulta del protagonista, il quale si sposa e inizia a lavorare come vignettista prima a Pechino (per sostenere la campagna di Deng) e poi, tornato a Kunming, per il quotidiano «Yunnan Ribao»; mentre il terzo, Il tempo del denaro, copre gli anni del pieno ingresso nel libero mercato, fino ai giorni nostri. Se nel primo e nel secondo volume, usciti nel 2009, l’io narrato è quasi sempre collocato nel passato, nel terzo, uscito nel 2011, Li e Otié compaiono come personaggi, e la narrazione è scandita da flashback sempre più frequenti.
Il tratto saliente di Una vita cinese, quello che la rende un’opera genuinamente transnazionale che forse, più di altre, getta luce sulla difficoltà di raccontare una realtà in evoluzione come quella cinese, è una sorta di doppio “patto narrativo”, che riflette la presenza di due autori. Alla fine del terzo volume, nel capitolo conclusivo intitolato significativamente Tempi moderni, il protagonista Li aspetta lo scoccare del nuovo anno, il 2010, davanti alla televisione. Il presentatore passa in rassegna gli eventi più importanti degli anni precedenti, tra cui le Olimpiadi del 2008 e il sessantesimo anniversario della Repubblica Popolare Cinese nel 2009, e annuncia il grande traguardo del 2010: l’Expo di Shanghai. E in quel momento che Li mette a fuoco la propria nostalgia per il tempo andato e osserva: «Anche se rappresentavamo un quarto della popolazione mondiale, allora non aveva alcuna importanza: eravamo come trasparenti. Tutto, sulla terra, avveniva senza di noi. Senza nessun cinese, mai, da nessuna parte», e rivendica l’appartenenza alla Cina di allora e non a quella «del Made in China, dei grattacieli, dell’Expo» (Una vita cinese. Il tempo del denaro, p. 267).
Eppure Una vita cinese non cede mai a una rievocazione nostalgica unilaterale: la collaborazione stretta, vera e propria co-autorialità dell’opera, fa sì che Una vita cinese, se da un lato restituisce un affresco di una Cina ormai passata, dall’altro non manca mai di interrogare criticamente la contemporaneità, riuscendo a far convivere i due orientamenti prospettici. Sempre il terzo volume si apre con una prefazione di Otié, il quale affida all’apparato paratestuale le riflessioni sulla genesi dell’opera: «Io non sono Lao Li (che vuol dire “Vecchio Li”, il soprannome […] con cui mi rivolgo a Li Kunwu). Non ho la sua età. Né le sue convinzioni. Né il suo talento. Né il suo passato. Né il Partito. Né il suo posto nella società. […] Non sono Lao Li ma devo pensare come lui. […] Devo essere […] un Lao Li che riassume in sé tutti i Li, gli Zhang e i Chen della Cina. […] Agli occhi di Lao Li, non sono solo l’amico […] sono Dupont, Durand, Schmidt, Popov, Martin e Smith insieme. Sono lo Straniero» (Una vita cinese. Il tempo del denaro, p. 7). Questa “doppia prospettiva” esclude di per sé la scelta iniziale, quella del genere autobiografico, cadenzato sui toni della rammemorazione pura e semplice, della riflessione del singolo.
Le considerazioni della prefazione trovano applicazione nelle scelte compositive e stilistiche. L’aspetto forse più interessante è osservare come l’ex vignettista di propaganda si serva delle potenzialità formali del graphic novel nel momento in cui torna – soprattutto nei primi due volumi – su immagini dall’alta carica simbolica. E il caso dei dazebao, del ritratto dell’eroe-soldato Lei Feng. O, naturalmente, di Mao – immortalato nello storico attraversamento a nuoto del Fiume Azzurro o nella tavola a piena pagina che simbolicamente chiude il primo volume sulla morte del Grande Timoniere.
A conferire coesione narrativa e una cifra stilistica riconoscibile lungo l’intero arco della trilogia sono invece alcune ricorrenze: per esempio la vista della città di Kunming dall’alto, che ben registra, di volta in volta, i cambiamenti nel tessuto urbano. Ma soprattutto tavole a tutta pagina che, in ogni volume, presentano un Li che parla al presente, seduto su una collinetta da cui scorge in lontananza la città. Si tratta di tavole con lunghe porzioni di testo, quelle in cui vengono affrontati i temi più scomodi (per l’autore stesso, che, malgrado la sua appartenenza alla “vecchia Cina”, ne ha subito anche in prima persona le violenze), o forse di più difficile comprensione, come gli estremi della Rivoluzione culturale (durante la quale il padre di Li, quadro di partito, viene mandato in un campo di rieducazione), la denuncia di un proprio commilitone da parte di Li o, sopra ogni cosa, i fatti di Piazza Tien An Men (vero spartiacque per molti scrittori, come ben ha osservato Berrini nei suoi contributi usciti su «Doppiozero»). In questo ultimo caso, nel terzo volume, la tavola “della collina” è anticipata da pagine in cui compaiono Otié e Li (Una vita cinese. Il tempo del denaro, pp. 62 e ssg.). All’insistenza del francese, il quale vorrebbe sottolineare la posizione di “semplice testimone” di Li, quest’ultimo risponde che «in via eccezionale» vorrebbe semplicemente esprimere la propria opinione, sebbene ciò significhi, come osserva con Otié, «tirare una riga sulla neutralità» mantenuta fin dall’inizio.
La struttura dialogica dell’opera permette di entrare in maniera personalissima e sentita in questioni delicatissime. Insomma, per quanto, a prima vista, possa sembrare che si inserisca nel solco di una letteratura tutto sommato ancora rivolta ai miti (o contromiti) cinesi del Novecento, grazie alle possibilità espressive del graphic novel e a una proficua collaborazione transnazionale, Una vita cinese riesce a illuminare le questioni ancora aperte, le contraddizioni che, specie agli occhi del lettore occidentale, rendono ancora difficile – e, per questo, affascinante – il viaggio all’interno di un universo sempre più presente ma ancora, irrimediabilmente, lontano.