L’enigma dei lettori

Nella tradizionale domanda se si è letto «almeno un libro» nell’ultimo anno è sempre meno chiaro cosa significa «leggere», che cos’è un «libro» e anche che cosa significhi «almeno uno», dato che cresce il fenomeno della lettura zapping. Ma tutto ciò non significa che non si possano trarre dalle indagini statistiche indicazioni preziose sul rapporto fra il consumo di libri e diversi fattori sociali e demografici.
 
Se nel 1984 l’indagine sulla lettura ISTAT stimava che il 46,4 % degli italiani avesse avuto questo sia pur minimo contatto con il libro, nella prima Multiscopo svolta nel 1987 tali lettori sembravano ridursi al 37,5%. Lo scorso anno un’inchiesta DoxaSole 24 Ore ci diceva invece che, nel 1995, i lettori italiani rappresentavano il 49,8% della popolazione. Questa nuova Multiscopo, condotta nel 1993 e 1994 (ma pubblicata con l’abituale stigmatizzabile ritardo) ci riprecipita nello sconforto: la percentuale stimata è infatti del 38,5. Significativamente, commentando questi dati, Giovanni Peresson sul «Giornale della Libreria» (n. 1/1997, pp. 19-22) intitola il suo articolo I lettori a fisarmonica, sottolineando quanto diverse siano le metodologie di rilevazione, le definizioni di libro e di lettura adottate, l’ampiezza dei campioni, gli universi di riferimento.
Di fronte al reiterarsi di dati così contraddittori, si impone una riflessione di fondo. Vien da pensare, infatti, che lo stesso fenomeno «lettura» sia sempre più indefinibile: in una società in cui la gamma di consumi culturali si allarga e diversifica, il rapporto con l’oggetto libro perde la sua sacralità e insieme la sua univocità. E forse bisognerà iniziare a riflettere sulla necessità di adeguare anche le indagini statistiche a questa più composita realtà. Nella tradizionale domanda se si è letto «almeno un libro» nell’ultimo anno (alcuni ricorderanno che Almeno un libro era anche il titolo di un volume del 1987 curato da Marino Livolsi) è sempre meno chiaro cosa significa «leggere», che cos’è un «libro», e anche cosa significhi «almeno uno», dal momento che cresce quel fenomeno che su Tirature ‘94 Umberto Eco ha definito «lettura zapping».
Tutto ciò non significa che non si possano trarre dalle indagini statistiche tradizionali delle indicazioni preziose sul rapporto tra il consumo di libri e diversi fattori sociali e demografici. Anche perché sotto questo profilo vi è una pressoché perfetta corrispondenza tra le diverse ricerche.
I fattori che influenzano il rapporto con i libri sono principalmente quattro: l’istruzione, l’età, il sesso e la zona di residenza. Tra tutti, tuttavia, è il titolo di studio l’elemento in grado di spiegare più di ogni altro il livello di familiarità con i libri degli italiani, confermando ciò che già lo scorso anno, su queste stesse pagine, sottolineavamo a commento di altre ricerche sulla lettura. L’Indagine Multiscopo consente di andare più a fondo nell’analisi, rendendo disponibili dati di maggior dettaglio.
Per valutare con maggiore esattezza l’effetto del titolo di studio sul consumo di libri abbiamo preso in considerazione la sola popolazione adulta (dai 25 anni in su): è infatti evidente che al di sotto dei 25 anni non possono esservi laureati (se non in ridottissima misura), al di sotto dei 20 vi sono pochi diplomati, ecc.
La relazione tra titolo di studio e familiarità con i libri è indubitabile: legge quasi 1’80% dei laureati, il 60% dei diplomati, il 3 6% di chi si è fermato alla terza media, e il 14% di chi non ha raggiunto nemmeno quel traguardo. Se la percentuale di «lettori» sul totale degli adulti è così bassa (35%) dipende dal fatto che il peso delle persone con livelli di scolarità superiori è molto ridotto (ultima colonna della tabella 1). Ed è qui il punto: capita spesso di ascoltare le lamentazioni di studiosi o editori sul fatto che gli italiani leggano meno dei tedeschi o dei francesi. Ma come potrebbe essere altrimenti, se in quei paesi la quasi totalità dei ragazzi consegue un diploma di scuola superiore, mentre in Italia a fatica ci avviciniamo alla metà? Verrebbe da dire, provocatoriamente, che i lettori in Italia sono davvero molti, se si tien conto della desolante realtà scolastica. Desolazione che è soprattutto «quantitativa»: è in primo luogo necessario che la scuola italiana aumenti la sua capacità di trattenere i giovani al suo interno. È condizione certo non sufficiente per creare nuovi lettori, ma è senza dubbio una condizione necessaria.
Un’efficace politica per la lettura non può dunque prescindere dalla scuola. Nessuno può credere seriamente di poter convincere a leggere con le «pubblicità progresso» (o altre iniziative più o meno estemporanee) quella metà dei giovani che abbandonano la scuola prima di raggiungere un diploma superiore.
Resta aperto, in seconda ma non secondaria battuta, il problema della qualità della scuola e della sua capacità di indurre abitudini di lettura e non soltanto rapporti saltuari con i libri. Anche su questo punto si possono trarre alcune indicazioni dall’Indagine Multiscopo dell’ISTAT. E non sono indicazioni confortanti.
Nella tabella 2 abbiamo riprodotto lo stesso genere di dati della tabella precedente, ma considerando solo coloro i quali dichiarano di leggere in modo più costante, ovvero oltre i 6 libri l’anno. La scelta del numero di libri oltre il quale definire la lettura come abituale è ovviamente arbitraria, ma abbiamo verificato che l’analisi non sortirebbe risultati differenti scegliendo un limite più alto.
La tabella 2 conferma che il titolo di studio è fortemente discriminante nelle abitudini di lettura, ma a livelli assoluti che vanno giudicati francamente troppo bassi. Che meno di un terzo dei laureati e meno di un quinto dei diplomati dichiarino di leggere almeno 7 libri l’anno suggerisce che la scuola italiana è sì un veicolo per avvicinarsi ai libri ma non un luogo dove si acquisisce stabilmente l’abitudine alla lettura.
li secondo fattore strettamente legato alla lettura è l’età. Infatti, poiché le generazioni più giovani sono più scolarizzate di quelle anziane, la lettura decresce al crescere dell’età. La colonna del totale dei lettori nella tabella l lo indica chiaramente. Il fenomeno è poi confermato dal fatto che la percentuale dei lettori nella classe di età 11-24 anni è la più alta di tutte (52,9% ).
Tuttavia, s e s i confrontano i dati a parità d i titolo di studio, le indicazioni appaiono meno chiare. Nella tabella l non sembrano esservi differenze significative tra le percentuali di persone che si avvicinano anche saltuariamente ai libri tra giovani e anziani con lo stesso livello di scolarizzazione. La tabella 2, dove sono riportati i dati dei lettori più abitudinari, fornisce un’indicazione diversa: a parità di titolo di studio gli anziani leggono più dei giovani. Resta tuttavia vero che si trovano percentualmente più lettori abituali tra i giovani che tra gli anziani. Questa apparente contraddizione (per cui le percentuali lungo le colonne della tabella 2 sono tutte tendenzialmente crescenti, tranne quella del totale, che è decrescente) dipende – ancora una volta – dal fatto che tra i giovani il numero assoluto delle persone con titolo di studio elevato è di gran lunga maggiore che tra gli anziani.
Come interpretare questi dati? Ci sembra di poter dire che l’allargamento della base scolastica avvenuto negli ultimi decenni ha comportato un ampliamento proporzionale dei lettori anche saltuari, ma meno che proporzionale di quelli abitudinari. Dunque, in prospettiva, un’ulteriore crescita della scolarizzazione potrà consentire a strati più ampi della popolazione di essere in grado di avvicinarsi ai libri, ma non darà garanzie sulla formazione di lettori abituali. Sulla lettura non occasionale incidono infatti altri fattori, tra i quali probabilmente la «qualità» della scuola, oltre che la sua «quantità», che non è irrilevante. (Va sottolineato che le maggiori percentuali registrate – tranne che per i diplomati – tra gli ultra sessantacinquenni, possono essere attribuite anche alla maggiore disponibilità di tempo libero di cui godono gli anziani).
Altri spunti interessanti vengono alla luce se si considera un ulteriore fattore: il sesso degli intervistati. Nella tabella 3 sono riportate le percentuali di lettori di almeno un libro per sesso, titolo di studio e classi di età (queste ultime sono più ampie delle precedenti, in quanto l’ISTAT non fornisce in questo caso dati più disaggregati). Se ne evince che l’uniformità della tabella l è in realtà prodotta dalla coesistenza di due situazioni opposte. Le donne giovani maggiormente scolarizzate leggono di più – a parità di titolo di studio – di quelle anziane, mentre tra i maschi avviene esattamente l’opposto.
Dunque il sesso è un fattore fortemente discriminante nel determinare il rapporto con i libri. La distanza tra la lettura femminile e quella maschile cresce man mano che si considerano le generazioni più giovani: se tra gli ultra sessantacinquenni i maschi leggono un po’ più delle donne (perché sono in media più scolarizzati), nella classe di età tra i 25 e i 44 anni la distanza è di 15 punti percentuali a favore delle donne, e tra i ragazzi da 11 a 24 anni arriva a sfiorare i 20 punti (62,5 contro 43,7).
Se negli ultimi anni c’è stato un allargamento – se pur lieve – del mercato librario, lo si deve alla crescita della lettura femminile, mentre quella maschile sembra stagnante. Considerato che tale fenomeno riguarda in misura ancor più accentuata i giovanissimi, si può ipotizzare che esso continuerà nel prossimo futuro. Certo è che nel giro di poche generazioni si è prodotto un mutamento che a noi sembra epocale e che forse merita un approfondimento sociologico che eccede i limiti di questo lavoro.
Ultima variabile demografica che sembra influenzare in modo significativo le abitudini di lettura è la zona di residenza. Anche in questo caso è interessante valutare l’effetto incrociando i dati con i titoli di studio, che sono la determinante principale della lettura. Si scopre allora un dato molto preoccupante per le regioni meridionali: a parità di titolo di studio al Sud si legge molto meno che al Nord. Addirittura le percentuali registrate nel Mezzogiorno per ogni titolo di studio sono confrontabili con quelle stimate al Nord per il titolo di studio inferiore. In altri termini, la percentuale di laureati meridionali che si dichiarano lettori è confrontabile con quella dei diplomati residenti al Nord, e così via.
Si tratta certamente di un sintomo di arretratezza culturale oltremodo allarmante, che la dice lunga su quanto il Sud debba ancora lavorare per recuperare uno svantaggio che va al di là delle pur gravi debolezze in termini economici.