Lo splendore cangiante del catalogo Ubulibri è il diverso splendore delle sue collane, assai varie per nascita e longevità, quantità e corpulenza dei volumi raccolti, materiali utilizzati, formato, impostazione grafica e tipografica. «Alcune sembrano severe, altre vivono più allegramente, altre ancora seducono per il taglio editoriale, la proposta che fanno alle mani, a un contatto che non è fatto solo per la lettura degli occhi o delle labbra, ma per un invasione più totalizzante del corpo. Un corpo a corpo, un cheek to cheek che invita all’abbandono, al moltiplicarsi sensitivo. A toccarli, a palparli, a sentirli con l’indice, con il medio, pagina per pagina, carta a volte più ruvida, promessa di un lavoro più meditativo, a volte patinata, proposta di un lusso come il raso che scorre tra le dita» (Jean-Paul Manganaro). Tutte (salvo i “Manuali Ubulibri” e i “Nuovi Cahiers di teatro”) progettate nell’eleganza raffinata della confezione dal disegno dell’«indefettibile AD» Pierluigi Cerri.
La prima collana dei “Libri neri” si impose con l’evidenza visiva del monochrome per l’esperienza einaudiana del Cerri. Il formato verticalmente allungato piacque molto a Quadri: e unitamente alla copertina nera suggeriva la natura di “taccuino” di questa “Collana di materiali di studio, testimonianza e ricerca sul teatro e sul cinema, scritti in prima persona da chi ha firmato queste esperienze di ricerca verso nuovi linguaggi”. Il lettering piccolo del titolo è stato un azzardo furbesco di Franco Quadri: laccio per l’occhio, che chiama ad avvicinarsi.
Il pattern dei libri neri, adattato nelle variabili del colore di fondo e del lettering (che rimaneva comunque piccolo) della copertina, diede un’immagine riconoscibile alla Ubulibri anche con le collane del “Nuovo cinema tedesco”, dei “Testi Ubulibri”, dei “Film Ubulibri”. E ancora simili “I libri bianchi”, pur con un solamente tendenziale monochrome candido e un formato più regolare.
Fu poi la scelta di spingersi al limite della raffinatezza con l’allineamento in collana – anzi, in “Collanina” – di perle che ammiccassero al collezionista di rarità: libretti dalla copertina monocromatica di un colore ogni volta diverso, velata in trasparenza da una sovracoperta in lucido di pergamena, impressa del titolo in Bodoni.
E l’eccesso “illustratissimo”, da libro d’arte, dei “Libri quadrati”: che nei primi anni parevano poter educarsi all’uniformità di copertine avorio con illustrazione in ampia finestra, ma che si viziarono invece presto dell’indisciplinatezza, ciascuno con una propria immagine di copertina spesso a tutto campo e un proprio lettering apposito.
Il primo stampo di tutte queste collane è disegno di Pierluigi Cerri. Ma è poi «il suo profeta» Andrea Lancellotti (come lo chiama Quadri) a interpretare la linea grafica originale, e a impostarla secondo stabilità e inventiva continuità – soprattutto per le copertine e per le pagine patinate dei Pataloghi.
E come i singoli Pataloghi, anche le collane sono allestite «come uno spettacolo» (Renata Molinari): ogni volume come un atto di una rappresentazione, inquadrato nella scena della copertina. E dietro questa, tra le pagine del testo, si rincorrono le azioni delle illustrazioni e delle immagini in movimento, disegni, elaborazioni di progetti, fotografie, per l’occhio del lettore che è anche spettatore. Certo, possono darsi recital di solo testo; ma è la frequentissima doppia scrittura (o narrazione), per parole e immagini, secondo l’impostazione patalogica, a far dei libri Ubu degli allestimenti di carta veramente spettacolari: libri «troppo belli» da sfogliare nelle tante facce di una teatralità editoriale pop-up.

I Libri neri

Le prime tre pubblicazioni nella collana dei “Libri neri” (Germania d’autunno. Repressione e dissenso nello spettacolo della R.F.T., a cura di Renate Klett, 1979 – il primo libro pubblicato da Ubulibri; Il teatro della morte, materiali raccolti e presentati da Denis Bablet, di Tadeusz Kantor, 1979; L’impero dei sensi, sceneggiatura originale trascritta da Jean-Paul Manganaro, di Nagisa Oshima, 1980) escono in coedizione con Il Formichiere di Jacini-Pariset. E dettano da subito con forza la personalità dell’impostazione grafica della nuova casa editrice.
La copertina completamente nera di Germania d’autunno è solcata in bianco dalla tensione sottilissima e lineare di un’opera di Gianni Colombo: un piccolo Spazio elastico che è innanzitutto una griglia.
Griglia che ritorna a disegnare lo spazio delle altre copertine “nere”. Incasella i volti rilevati in bianco degli attori del Cricot 2 nel Teatro della morte, come in neri imballaggi, inquadrando il profilo di Kantor in una compresenza dall’esterno – analoga al suo stare sulla scena come «un direttore d’orchestra» (Denis Babet, Lo spettacolo e i suoi complici), la mano a seguire i suoi attori nell’armadio.
Griglia che moltiplica lo stesso fotogramma dell’Impero dei sensi, riferito alla scena 1005 della sceneggiatura («Introduce una mano fra le cosce della vecchia geisha e poi se l’annusa dicendo come fra sé: “Che giovinezza! È fantastico!”»).
Che organizza il collage nel primo “libro nero” solo-Ubulibri, Il Brecht dell’Odin di Eugenio Barba (con le fotografie di di Jan Rüsz e i collage di Catherine Poher), del 1981: un libro che correda il testo delle Ceneri di Brecht di frammenti teorici o di riflessione diaristica in mosaico, e di papier collé fotografici realizzati con «tecnica di montaggio analoga a quella scelta dal testo», che «cogliessero in qualche modo le intenzioni e le ambiguità della rappresentazione» (Nota introduttiva a Jan Rüsz e Catherine Poher, 24 fotomontaggi, ovvero come muta lo spettacolo nella memoria).
E che torna tra i riquadri bluette degli schermi della Camera astratta. Tre spettacoli tra teatro e video di Studio Azzurro e Giorgio Barberio Corsetti (fotografia di Angelo Turetta) del 1988 – nell’ultimo dei “neri”: libro-laboratorio, quaderno di lavoro e centone di progettazioni, schizzi, schemi per gli allestimenti del teatro di Studio Azzurro, tra monitor e palcoscenico, corpo attoriale e sua riproduzione elettronica.


Guido Almansi, Enrico Baj. Amleto il lunatico

Particolare, tra i “Libri neri”, il volume su Amleto il lunatico (1987), di Guido Almansi e Enrico Baj.
La copertina è una finestra aperta sul testo: di cui le opere di Baj son parte integrante e nucleo originario. Amleto il lunatico è una prova di ironica e dissacrante parodia shakespeariana. Allo spettacolo hanno collaborato «Baj creando immagini, Almansi affastellando battute», Massimo J. Monaco (regista e protagonista) «componendo e ricomponendo l’azione delle pedine-personaggi sulla scacchiera della scena» (Massimo J. Monaco, Incontrare Amleto). E il libro è la ricreazione di queste «esplosioni di visioni simultanee» (quarta).
Dopo le presentazioni e il racconto del lavoro dei tre, apre il volume un dossier di disegni, dipinti e fotografie dei manichini bidimensionali di Enrico Baj (Studi di movimento, pp. 33-79): percorso e sviluppo della prima invenzione dello spettacolo come «inedito esperimento di teatro pittorico» (quarta), un Amleto tutto di superficie congegnato per «maritare sempre più teatro in pittura» (Enrico Baj, Amleto in pittura, p. 17). Segue il testo di Almansi. Che dalle sagome di Baj è stato dettato, e come tirannicamente imposto: «io mi sono aggiogato da parassita, seguendo i suggerimenti delle aggressive sagome inventate da Baj, e i consigli del paziente Massimo Monaco […]. Ho scritto il mio testo tenendo davanti agli occhi il testo dell’odiosamato Hamlet […] e accanto i photocolors dei mostri di Baj che gridavano a gran voce la loro volontà che mettessi loro in bocca un testo selvaggio e stralunato come le loro fattezze» (Guido Almansi, La pulce di Amleto). Il libro giunge così a realizzare in profondità l’intreccio in doppia narrazione di testo e illustrazione, parola e immagine.


Franco Quadri, Luca Ronconi, Gae Aulenti. Il Laboratorio di Prato

Nella rubrica di “Tendenze” del Patalogo uno era uscito uno speciale su Gae Aulenti, “personaggio dell’anno”. L’articolo-intervista, firmato da Franco Quadri, si addentrava in esplorazione Nello spazio dell’ambiguità (pp. 317-330) dell’allestimento scenografico dell’Aulenti per la Torre di Ronconi.
Questo libro sul Laboratorio di Prato, secondo volume della collana dei “Libri quadrati” (“Volumi-atlante di cinema, teatro e opera lirica: storia, cataloghi, libri di lavoro, testi critici. Eleganti, completi, illustratissimi”), è ampliamento e completamento di quel lavoro. Scritto da Franco Quadri con Luca Ronconi e Gae Aulenti – i protagonisti di quel Laboratorio «misterioso, chiacchierato, esclusivo, mitizzato, avversato, […] un cenacolo interdisciplinare che a qualcuno ha ricordato i tempi del Bauhaus, […] la base per la ricerca di un nuovo metodo, una scuola per attori diversi investiti di responsabilità creative all’interno di un teatro di regia, un saggio di lavoro sullo spazio; e, nonostante polemiche e conflitti, un punto inedito d’incontro tra una sperimentazione avanzata e un territorio» (quarta). Racconta l’operazione di messa in scena delle Baccanti, di Calderòn e della Torre, e il progetto per La vita è sogno, con precisione cronistica e scavo critico, e con la testimonianza di prima mano degli autori. E con un apparato di immagini e illustrazioni che è documentario e spettacolare: corredo di progetti, disegni, studi, al Diario ’76-’78 di Gae Aulenti (pp. 21-31); composizione di un quaderno di regia negli schemi dei movimenti attoriali (uno di questi in copertina) nell’Analisi figurativa dei primi 102 versi della Vita è sogno (pp. 150-159); e ricreazione degli spettacoli nelle fotografie in bianco e nero di Marcello Norberth, per un lettore che è anche spettatore.


Romeo Castellucci, Socìetas Raffaello Sanzio. Epitaph

Epitaph (2003), della Socìetas Raffaello Sanzio, e specialmente di Romeo Castellucci, è davvero «un libro d’arte da guardare come uno spettacolo» (quarta). Bilingue, italiano e francese, nei testi introduttivi (di Franco Quadri, Frie Leysen, Alan Read, Cristina Ventrucci) e nelle didascalie. Per il resto, quasi privo di parole – solo le titolazioni degli spettacoli, e poco più: qualche parola trasformata in segno dalla forte evidenza visiva, ebraismi cabalistici, sigle ambigue, insegne, emblemi. Parole, sulla scena della Raffaello Sanzio e sulla pagina, più impresse o dipinte che dette, e distorte nella pronuncia, vibrate artificialmente. Son parole in disfacimento. E aldilà della parola, tocca alle immagini mute, eppure urlanti, imporre la «continuità di una tensione pittorica» (Franco Quadei, Questo libro).
Epitaph è un libro fotografico. Curato da Romeo Castellucci nella progettazione grafica. È lui in prima persona a «montare questa collezione visiva del suo teatro che da tempo gli veniva sollecitata» da Franco Quadri «come un necessario deposito della sua memoria» (Quadri). Ne compone un libro di contrasti, di vuoti violenti e sovrapposizioni di immagini che «si scambiano la pagina in continui contrappunti» (son parole di Castellucci, riportate da Franco Quadri). Un’«escursione nel terribile» che non è soltanto la storia del gruppo per fotografie: è «a un tempo memoria, creazione e progresso» (quarta). Una ricerca condotta dall’autore all’interno della propria opera, una ricreazione interpretativa del già fatto in «oggetto autonomo, in un’altra opera d’arte assai diversa da una sintesi» (Quadri, ancora). Una consegna liquidatoria.
Anche la copertina è stata proposta e voluta da Romeo Castellucci. Con la perplessità iniziale della redazione Ubulibri. È la fotografia (di anonimo) della maschera funeraria dello scultore Christian Rauch, adottata dalla Socìetas per un programma di Genesi. Impone, nelle intenzioni di Castellucci, «un carattere più classico» al libro, «e anche i caratteri per il titolo seguono il riposo ordinato di questa immagine: mi piace l’ambiguità di questo volto dagli occhi chiusi; il suo carattere fragile, dormiente, che nega di colpo la solennità annunciata». E «come maschera accende una dialettica del teatro contenuta all’interno del libro». Impersonale e fredda, posta in copertina convince: funziona da «scrigno» (Quadri). Chiuso nella quarta più mossa: «Incendio. Fumo. Sangue nell’acqua. Simmetria cerebrale. Organo sezionato. Nappa. Fontana barocca. Figura muta e enigmatica come un test di Rorschach» (Romeo Castellucci).


Fanny & Alexander. Ada. Romanzo teatrale per enigmi in sette dimore

Con Ada, di Fanny & Alexander (compagnia di Chiara Lagani e Luigi de Angelis) si realizza il progetto originalissimo di un “romanzo teatrale”. Uscito nel 2006, è la ri-costruzione di uno spettacolo – anzi, di sei spettacoli tratti da Ada o ardore di Nabokov – “per enigmi”, con la partecipazione di Stefano Bartezzaghi. Un «libro-gioco» (Cristina Ventrucci, Appunti per un’introduzione. La fiaba di Fanny & Alexander) o un «gioco in forma di libro» (Fanny & Alexander, Istruzioni per l’uso), impaginato tra gli scorci dell’ambizioso progetto teatrale di Ada, cronaca familiare catturati dagli scatti scompositivi di Enrico Fedrigoli e dalla ricomposizione filmica degli Zapruder filmakersgroup.
Il libro-spettacolo-gioco si snoda «con andamento labirintico, attraverso smarrimenti linguistici e immaginifici […] con una gran quantità di potenti e misteriose immagini, mentre enigmi, rebus, sciarade e rimandi interni sono disseminati come indizi di un thriller decadente» (quarta). Le “sette dimore” sono le sezioni o tappe in cui si divide il libro, e la sua strana esperienza di lettura: la prima, Adescamenti, è la sequenza degli scritti critici o prefatori di Stefano Bartezaghi, Margherita Crepax, Antonella Sbrilli, Chiara Alessi, Rodolfo Sacchettini, Marina Grishakova, Maria Sebregondi, Marco Belpoliti («Ogni cosa da qui vi riporterà sulla soglia di una delle dimore successive. Sarete al centro di un misterioso universo di segni: gli ami, le esche, gli adescamenti di Ada… Alcuni piccoli rettangoli grigi a fianco del testo contengono il rimando alle altre dimore». Istruzioni per l’uso). Seguono poi le sei stanze-spettacolo di Aqua marina, Ardis I, Villa Venus, Ardis II, Lucinda Museum, Vaniada: la sequenza dei sei spettacoli di Ada, cronaca familiare da percorrere risolvendo indovinelli ed enigmi, scegliendo tra bivi interrogativi, sostando su un puzzle di didascalie o saltando intere pagine, o ancora fermandosi a un finale provvisorio, o che rimanga felice: «partecipando con stupore alla strategia enigmistica che costituisce la struttura degli spettacoli stessi» (Antonella Sbrilli, Gioco di ruolo in più livelli per Fanny & Alexander).
«Scopo del gioco è individuare il percorso più avvincente tra le stanze di questo immaginario palazzo, dimora di dimore, mitica magione romanzesca. […] Troverete molte chiavi – tra le immagini, i testi e i numeri – disseminate nel libro: usatele per stabilire quale sia il percorso ideale per voi. Alcuni indizi possono rimandare ad altri indizi, in un’altra dimora; la soluzione di qualche enigma vi procurerà un tassello aggiuntivo per decifrare la storia. Ogni cosa in questo libro può essere un indizio. Ma attenzione: non tutti gli indizi sono affidabili! Un romanzo per enigmi si avvale di giochi (rebus, sciarada, crittografia, anagramma) e li tratta come fossero metafore della lingua misteriosa in cui è scritto un certo racconto. Tali giochi si compongono di alcune stringhe alfavita (testi, parole, lettere) e delle loro rispettive figure. Pensare a una figura significa guardarla. Le figure sono oggetti apparentemente elementari ma dallo strano potere; semplicemente mostrano alcune cose, persone o situazioni, ma non dicono mai direttamente a cosa pensare. Al contrario, sarete voi a rappresentarvele, nel momento in cui comincerete a guardarle; ma per farlo dovrete esser disposti a diventare come quelle figure, mistero che non cessa di porsi come la questione in assoluto più spinosa per chi guarda. Una volta che le avrete pensate, sarete a pieno titolo autori di quelle immagini, di questa storia e delle emozioni che ne deriveranno. Siete pronti?» (Istruzioni per l’uso). Ecco che il libro diventa uno studio (sempre giocoso al massimo grado) sulla rappresentazione e la visione, sullo sguardo, sulla memoria dell’effimero, sulla spettatorialità e sull’irrappresentabilità dell’invisibile. Per enigmi, e immagini.