I sudditi del best seller d’importazione

Il best seller non è solo il libro che ottiene successo e scala le classifiche di vendita: è soprattutto il libro che è già il meglio venduto prima di invadere il mercato editoriale. Fenomeno squisitamente americano, il best seller ha persino scalzato la nozione di genere e inglobato quella di novità. Comunque sia in Italia da circa vent’anni il best seller è sempre più legato al mercato delle traduzioni: ben pochi sono infatti gli autori nazionali che sono riusciti a tenere il passo difronte all’avanzata degli stranieri. E così anche il best seller finisce per contribuire alla globalizzazione del mondo.
 
Dei 50.000 volumi che l’editoria italiana produce annualmente (una cifra, sappiamo, spropositata rispetto alla percentuale dei lettori) 12.000 sono titoli tradotti da altre lingue, e di questi, più della metà sono tradotti dall’inglese. La colonizzazione editoriale rimanda a un processo che non si esaurisce in questa consistente sproporzione numerica (basti del resto ricordare che in Gran Bretagna la percentuale dei testi tradotti da altre lingue si aggira intorno al 2%), ma concerne piuttosto il valore di mercato di un segmento di titoli angloamericani che siamo soliti chiamare best seller. In verità, negli ultimi vent’anni, la nozione di best-seller – certamente non nuova e variamente studiata dai sociologi della letteratura – ha subito una progressiva rettifica mettendo a fuoco una più specifica identità del prodotto a cui rimanda. il best seller non è più soltanto il libro che ottiene successo, che scala le classifiche di vendita e che produce fatturato, quanto piuttosto il libro che è già il meglio venduto, prima della sua avventura commerciale. A ciò si aggiunga che la stessa fisionomia dell’ autore è venuta modificandosi di conseguenza, per cui non si parla tanto di autore di romanzi horror o di romanzi thriller (quando il thriller e l’horror sono i generi di riferimento) ma di «autore di best seller». Quantunque fra i best seller i generi siano ampiamenti rappresentati (ma anche qui siamo piuttosto di fronte a una filiazione dalla detective story e dall’orrore con soluzioni eclettiche che arrivano a comprendere anche il romanzo storico o specialistiche, come il legal thriller) la dizione best seller viene via via scalzando quella di genere, quantomeno invertendo l’ordine di priorità. Fenomeno squisitamente americano, il best seller come genere ha per altro determinato un ulteriore spostamento – più sottile forse ma ormai percepibilissimo – inglobando e dinamizzando anche la nozione di novità. Il libro destinato al mass-market è insomma nuovo in quanto non toccato dal tempo, in quanto affrancato dalla fatica – tutta storica, tutta temporale – della classicità, in quanto capace di stare tutto nel presente – magari un presente prolungabile senza la gravità del mutare del giudizio e dell’interpretazione. Un nuovo best seller è per definizione un capolavoro, e perciò acquistabile e leggibile. Questa novità ha ovviamente poco a che vedere con il valore intrinseco all’inedito, all’opera attesa, ma diventa in qualche modo un segnale di via libera rispetto alla minaccia del passato (che implica conoscenza, studio, caos). Il transgenere del best seller è duplicato dal transgenere novità che del resto vediamo agire anche come categoria merceologica. Non è un caso che le modalità di vendita nelle grandi catene librarie – non diversamente da quanto avviene con ancora più enfasi nelle catene di noleggio film – tendano a nominare con maggiore rilevanza la posizione dei libri freschi di stampa con indicatori che suonano per l’appunto «nuovi arrivi», «novità» polarizzando l’attenzione del cliente non solo sul prodotto ma anche sul concetto di novità, e creando una sorta di distanza istituzionale con le altre aree scandite geograficamente per genere.
In tutte le analisi che hanno come oggetto la nuova narrativa italiana, accade raramente che si tenga conto di questo aspetto, forse talmente evidente da essere ritenuto ininfluente. Eppure, al di là di influenze anglosassoni variamente notate (certo linguaggio squisitamente cinematografico, certe modalità mutuate dal mondo della musica pop-rock, certi modelli molto evidenziati ed esibiti) manca uno sguardo capace di cogliere la convivenza, non solo di mercato, dell’autore nazionale con autori e opere che occupano la prima linea dell’assalto al pubblico e sul pubblico esercitano inevitabilmente e oggettivamente un potere culturale. Ai Grisham, ai Turow, ai King, ai Crichton ma anche ai Wilbur Smith, ai Connelly, ai Ludlum, alle Cornwell siamo riusciti negli ultimi dieci anni a opporre chi? L’episodio isolato di Va’ dove ti porta il cuore, forse un’autrice come Sveva Casati-Modignani e quel singolare fenomeno che ha nome Camilleri. Per certi aspetti si può affermare che dopo lo straordinario successo de Il nome della rosa di Umberto Eco e i molti dibattiti sul best seller che sono fioriti su riviste e quotidiani sino al 1985 (la bibliografia culmina diciamo così nel volume di Gian Carlo Ferretti Il best seller all’italiana del 1983 ), gli interventi si placano, la sempre più debole società letteraria pare disinteressarsi al problema e quel che comincia a cambiare è il rapporto fra autore e editore. L’autore – nella fattispecie il giovane autore – si scrolla di dosso il peso morale e deontologico della tradizione umanistica – a cui i sociologi del mercato in realtà non hanno mai smesso di richiamarsi – e fa da sé. Per certi aspetti anche l’editore si muove solo e, anche laddove è già viva una forte tradizione imprenditoriale, si rinnovano gli organici e soprattutto la mentalità, decisamente più aggressiva, più cinica, in una parola più manageriale. Non è un caso che fra il 1980 e il 1990 i titoli tradotti raddoppiano e solo a vantaggio dei titoli di lingua inglese (da 4.411 a 8.224, gli inglesi da 2.027 a 4.673 ). I numeri testimoniano un più diffuso avvicinamento al modello vincente, a una letteratura (non solo narrativa) che, insieme ai contenuti, tende a vendere strategie o che comunque contiene una promessa di mercato già esperita e promossa. Non solo: l’editore sa di comprare un prodotto che, per quanto costoso, può, anzi deve garantire continuità anche attraverso media diversi (il cinema innanzitutto). A fronte del best seller casuale o episodico il mercato americano promette ancora di più, insomma il best seller sicuro, il genere best seller. Un genere che se nella fiction enfatizza la consumabilità delle storie raccontate, nella saggistica rivela una capacità cordiale, morbida, seduttiva di passare attraverso le discipline più diverse senza suscitare imbarazzo, noia e senso di inferiorità.
Proprio a partire dalla sua trasformazione in genere il best seller fa in modo che il cosiddetto orizzonte d’attesa sia compreso entro le categorie del consumo e non entro quelle della cultura letteraria. Lo si legge perché lo si compra volentieri e lo si compra volentieri perché vende la lettura come un entertainment non diverso da quello di altri prodotti entertaining. Attraverso questa supergenerizzazione (in cui, come si è detto prima, è incluso il fattore novità) la stessa fisionomia moderna di genere (thriller, noir, horror, spy story, ecc.) subisce una sorta di reductio che riconduce la fiction propriamente detta di genere nell’area senza ulteriori designazioni del romanzo tout court. Per certi versi il genere diventa un canale di trasmissione che porta all’autore e all’autore si ferma, creando una risonanza sostanzialmente diversa dal passato in fondo non troppo lontano di una Agatha Christie. Quelli della scrittrice inglese erano e restavano i gialli di Agatha Christie, i legai thriller di Grisham sono assorbiti dalla forza del nome dell’autore che di fatto è uno scrittore di best seller. Ciò detto si può ben affermare che l’editoria americana o quantomeno i grandi gruppi editoriali americani investono, con alterne fortune ma con determinazione, da almeno vent’anni in best seller, nel best seller come genere unico. Va da sé che la forza di attrazione e assorbimento del genere best seller è così forte e ramificata da metabolizzare anche autori arrivati al successo per strade diverse da quelle previste (così come autori di best seller entrano nei territori impervi della critica e si candidano all’investitura del canone, ma si tratta di un parallelismo che ci porta troppo lontano). A questa politica sono legati il fenomeno di ipermanageralizzazione dell’editoria che con pugnace risentimento ha descritto Albert Schiffrin nel suo Editoria senza editori, e nel nostro Paese (ma il discorso vale per tutta l’Europa) quello dell’acquisto indiscriminato di tutto ciò che il mercato americano candida come affare.
La traduzione del nuovo modello americano applicata al prodotto nazionale è cauta e guardinga (si corteggiano e si amministrano gli autori standing, vale a dire già dotati di un sicuro potenziale di vendita – i Bevilacqua, i De Carlo, i De Crescenze – e si continua a confidare sulla casualità o sulla sorpresa di fenomeni come Cardella, Tamaro, Camilleri) . Se, da un punto di vista dinamico dell’offerta e della contrattazione, una rivitalizzazione c’è stata, è stata tutta a carico degli autori. Di autori che hanno saputo interpretare l’assenza di una tradizione romanzesca nazionale e, più in particolare, di una solida pratica di genere, come una strada tutta da percorrere o addirittura da dribblare nella parodia, o che sono stati capaci di mettersi al servizio del proprio status di autori utilizzando altri media e soprattutto stabilendo un fertile rapporto tra questa frequentazione di linguaggi e la propria scrittura.
Il caso di Alessandro Baricco è, in tal senso, il più significativo, e anche il più complesso da interpretare. Abile veicolatore di cultura (attraverso tv, stampa, teatro, audiovisivi), Baricco è riuscito a innestare questa duttilità di linguaggio nella sua esperienza di narratore acuendo la percezione di sé e del proprio pubblico, in qualche modo rendendola evidente nella stessa pagina romanzesca e moltiplicando in una specie di infinito prospettico la propria presenza d’autore. Insomma Baricco ha saputo saldare in maniera originale e intelligente l’eredità nazionale dell’autore presenzialista (secondo un modello che da Foscolo va a D’Annunzio e Pasolini) con una ironica e postmoderna evaporazione di sé nel linguaggio, nel medium. I suoi best seller sono tali non solo in quanto libri di successo ma in quanto titoli di successo internazionale, in quanto storie non italiane. Ed ecco quindi un autore e un corpus di opere che si impongono grazie a un’interpretazione e un uso – sofisticato quanto si vuole – del mainstream culturale. Il carisma d’autore – intrinseco al successo di altri scrittori internazionali come Isabel Allende, Luis Sepulveda, Daniel Pennac – non si esaurisce nel movimento dal romanzo alla persona fisica, ma ha compiuto in Baricco un ulteriore passaggio dalla persona al libro, tanto da creare all’interno delle opere che si sono succedute nel tempo una sorta di seduttiva aura familiare, un impasto sintattico lessicale già visto, già sentito e al servizio di una sempre più smaliziata ed efficace affabilità.
Posto che per uno scrittore di successo l’editore svolge oggettivamente più un servizio che una funzione, essendo quest’ultima patrimonio pressoché esclusivo dell’autore (e del suo agente) il vero trauma indotto dal genere best seller nel nostro paese (ma non solo) ha a che fare con una minacciosa indifferenza culturale che di volta in volta passa per le tipologie di comunicazione editoriale, per le modalità di promozione e anche per l’implicita domanda che viene modificando l’offerta degli scrittori sul fronte di scenari, plot e linguaggi. Le copertine del genere best seller tendono a somigliarsi, vale a dire che l’editore non rivendica un’identità ma tende a scomparire a vantaggio di titolo, autore e immagine. Ne è conseguita, in Italia, una sorta di mondadorizzazione del libro (essendo Mondadori il gruppo che ha meglio interpretato la lezione americana) che ha coinvolto editori grandi e medi come Rizzoli, Sperling & Kupfer, Piemme o Marco Tropea Editore. L’imitazione del modello americano concerne anche le operazioni di lancio che però, essendo tutte di carattere pubblicitario, chiedono investimenti e quindi sono realizzabili solo dai grandi gruppi, Rcs e Mondadori. Interessanti sono comunque le strategie di marketing della Piemme (De Mello, Connelly) che significativamente hanno registrato un fallimento quando hanno cercato di bestsellizzare una scrittrice di spy stories russa (Marinina) con una miliardaria operazione di sfondamento. Al di là della cattiva riuscita dell’operazione il marketing della casa editrice Piemme ha messo in luce due aspetti fondamentali che negli Usa sono ben noti: che il genere tradizionale non è condizione sufficiente per accedere al genere best seller e soprattutto che il genere best seller non crea automaticamente fatturato, anzi può registrare dei flop clamorosi, ma al contempo non può fare a meno di continuare a produrre libri che si dichiarano – e non possono non dichiararsi – best seller. Ma allora che cos’è un best seller, dal punto di vista di genere? È un libro in cui è contesta una strategia di mercato potenzialmente universale e che obbedisce alla standardizzazione dell’immaginario, la stessa standardizzazione che fa dire a Serge Latouche: «Scienza, tecnica, economia veicolano un contenuto immaginario ricchissimo. li rapporto tra l’uomo e il mondo è in esso determinato. Si tratta della concezione del tempo e dello spazio, del rapporto con la natura, del rapporto con l’uomo stesso. L’umanità vive ormai tutta quanta nell’era cristiana e sulla base dell’ora GMT [… ]. Questa unificazione del mondo porta a compimento il trionfo dell’Occidente. Ci si rende ben conto che al termine di questa espansione dominatrice non c’è esattamente una fraternità universale. Non si tratta di un trionfo dell’umanità, ma di un trionfo sull’umanità e, come i colonizzati di un tempo, i fratelli sono anche e per prima cosa dei sudditi». Il best seller, in quanto genere assoluto, è quello che meglio rappresenta nella circolazione libraria mondiale questa promessa di pseudo-uguaglianza. Rispetta il tempo degli aeroporti, un tempo tanto universale quanto storicamente silenzioso, e veicola un modello di racconto (nonché un modello culturale) che pretende condivisibilità e uniformità. Possiede la stessa traducibilità che ha la rivoluzione informatica ma non ne è la parafrasi. È inequivocabilmente un libro ma lancia messaggi che lo affratellano alla telefonia privata, al turismo, al videogioco, al cinema. Quanto più fortemente il suo messaggio è il déjà vu di un’esperienza ripetibile tanto più il prodotto best seller si avvicina, in quanto vendibile e consumabile hic et nunc, al perfettibile responso promesso dalle tecnologie. Tanto più la lettura è una performance sostenibile. E infatti il lettore è contento, e la sua è una contentezza che non chiede esperienza, anzi è garanzia di non-esperienza. Le storie – spesso buonissime storie, narrate con eccellente mestiere e dominio – soddisfano l’attesa di entertainment ma il piacere del lettore si compie e si placa all’interno dello standard che la misura del più venduto ritaglia come area culturalmente analgesica. «La macchina ruota sur place» dicevano Horkheimer e Adorno siglando il movimento immobile della cultura di massa. Come genere il best seller rappresenta di questo «finto movimento» la codificazione culturale: è un romanzo efficiente, nel senso che questo aggettivo ha assunto nel mondo della techne, efficiente sia dal punto di vista emotivo sia da quello sociale.
Con il genere «best seller» siamo a pieno titolo nell’ambito della globalizzazione, dell’occidentalizzazione del mondo: questo è un dato di fatto di fronte al quale una mera resistenza etica o ideologica suona quantomeno patetica, così come, in ambito letterario, suona patetico l’isterismo che vorrebbe cancellare gli autori di best seller, fra i quali per altro si contano ottimi narratori. Una colonizzazione esiste e suona tale pure quando le grandi agenzie americane veicolano scrittori indiani, cinesi, latino-americani, quando cioè l’urgenza dell’espansione del mercato defolclorizza e immette nel mainstream culturale anche autori e opere che ne sono costituzionalmente fuori.
Questo movimento di scouting mondiale e l’inevitabile influenza esercitata sulla mentalità degli autori che passano la linea d’ombra (ma anche su quelli che non la passano) non sono certo destinati a restare senza conseguenze. In fondo anche in Italia l’esempio del successo planetario di un romanzo come Il nome della rosa ha lasciato tracce e ha aperto nuove contraddizioni. Lo scrittore nazionale si trova per lo più a desiderare un editore capace di imporlo, di promuoverlo, di sostenerlo nell’impari conflitto con gli autori di best seller (magari ben rappresentati dalla sua casa editrice), ma veicolando un obiettivo schizofrenico che è quello di posizionarlo fuori da quell’area e al contempo di procurargli i privilegi che essa garantisce. Il conflitto è insomma quello che oppone la lingua universale ma tutta sincronica del genere best seller a quella universale e diacronica del canone. Si tratta di un conflitto che affligge (ma anche motiva) gli editori: non altrimenti si potrebbe interpretare, in Italia, la nascita in Mondadori di una collana autorevole come la SIS e, per contro, la lungimirante “ tolleranza” di un marchio severo come quello di Adelphi che “autorizza” scrittori leggeri come Cathleen Schine e Anne Fine o ripescaggi irresistibilmente midcult come Marai.
Il best seller come genere dipende, è ovvio, da fattori extraletterari ma non potrebbe consistere senza una cultura del racconto che sente la macchina narrativa come tecnologia, come ripetizione e variazione di un modello. Da questo aspetto dipende una colonizzazione di secondo grado, più percepibile nella quantità dei titoli tradotti che nella qualità della selezione. Qui non agisce tanto la forma best seller quanto la speranza di imporre opere e autori che appartengono all’area linguistica del privilegio e che sono di volta in volta up-level o down-level ma comunque ben accolti dalle case editrici europee (e ben venduti dai loro agenti e subagenti).
Cercare di rinvenire in questo contesto così misto delle tendenze è difficile. Forse un poco più limpida· è la visione sul fronte più generale della letteratura di importazione ma nell’ambito nobile delle cosiddette opere di catalogo. Qui si è assistito a una performance molto interessante dell’area anglo-scotto-irlandese (Jonathan Coe, Julian Barnes, Patrick McGrath, Nick Hornby, Roddy Doyle e Irvine Welsh), al boom degli scrittori indiani (Arundatj Roy, Vikram Seth, Vikram Chandra e la punta di diamante Anita Desai), alla diseguale ma significativa tenuta degli ispanoamericani (Allende, Serrano, Mastretta, Skarmeta, Sepulveda), alla solida affermazione degli scrittori israeliani (Yehoshua, Oz, Shalev, Kaniuk) e alla canonizzazione di alcuni grandi scrittori americani (John Fante, Philip Roth, Cormac McCarthy, Richard Ford, Russell Banks ma soprattutto Don DeLillo e Thomas Pynchon). Francia e Germania registrano una sostanziale battuta d’arresto, fatta eccezione per Daniel Pennac e per la ripresa delle opere non seriali di Simenon (a più riprese e più editori hanno cercato di imporre il foltissimo noir francese ma senza risultati significativi, salvo l’Izzo di E/O).
Domina, a uno sguardo di insieme, una forte componente morale, a volte intrecciata a filtri storico-sociali, che spazia dalla percezione mimetica di certa rabbia giovanile – irlandesi e scozzesi sono maestri – alla più esplicita messa a nudo di compagini sociali allo sbando, dalla disamina critica di identità nazionali tanto salde di tradizioni quanto minacciate da processi disgregativi (e qui irlandesi, israeliani e indiani rivelano sorprendenti analogie) alla grande rivisitazione – questa tutta americana – di miti, collassi collettivi e paradossi sociali.
A questo quadro di autori di catalogo – schizzato a grandi linee – corrisponde una sterminata offerta dove si confondono opere di qualità e opere mediocri o addirittura di bassissimo profilo e dove il voluto effetto di polverizzazione crea le condizioni di un limbo editoriale dal quale – quando per circostanze fortunate non agisce la metabolizzazione del mercato – è quasi impossibile riemergere.
Tanto il best seller, come genere, coagula, assimila, uniforma, tanto il disordine delle strategie editoriali che lo imitano frammenta, confonde, spiazza. li best seller del romanzo “ di catalogo “ ha ben poco a che vedere con quello qui inteso come genere, e da questa ambiguità – che è di mercato e culturale allo stesso tempo – discende un’incertezza di intenti, una isterica politica di acquisti, una scena caotica e sovraccarica.