Veronesi e la via italiana al tragico

La forza del passato di Sandra Veronesi: uno dei romanzi più interessanti di quest’ultima stagione. Un romanzo che non risente affatto dei modelli importati d’oltreoceano ma che, al contrario, si inserisce a pieno titolo in quella tradizione “tragica” italiana che da Pirandello scende giù giù sino a Gadda passando attraverso Svevo. Ed è proprio con il personaggio di Zeno Cosini che Gianni, il protagonista del nostro romanzo, sembra avere percepibili rapporti di parentela e affinità elettiva.
 
«Questo sollievo antico, popolare, profondamente italiano…». Così commenta le sue corse cittadine in vespa, con il venticello a quaranta all’ora, il protagonista del romanzo italiano più interessante di questa stagione, La forza del passato di Sandro Veronesi. Ma anche questo stesso romanzo è, a suo modo, “profondamente italiano”, ben collocato dentro una tradizione letteraria nazionale, anche alta. Non si rifà a gelidi minimalismi d’oltreoceano, non copia improbabili barocchismi esotici, non si avventura in una letteratura “di genere” per noi ancora molto estranea. Si potrebbe perfino parlare di una “via italiana al tragico”, di una modalità cioè impervia, paradossale, che tenta faticosamente di scavarsi una propria via dentro la cultura del Bel Paese, dove appunto il tragico è quasi sempre stato rimosso, eluso, in nome del canto e della messinscena divertita dell’esistenza, attraverso l’ assunzione di maschere assai duttili. Si tratta ovviamente di un tentativo che accomuna alcuni dei grandi libri del Novecento italiano, anche molto diversi tra loro: per citare due nomi sommi, Pirandello e Gadda hanno a che fare entrambi con un qualche imbrigliamento del tragico, attraverso l’umorismo o attraverso la destrutturazione Iudica-aggressiva della lingua. Ma, se dobbiamo individuare una tradizione, il romanzo di Veronesi può essere assodato, naturalmente con molta prudenza e infinito senso delle proporzioni, alla Coscienza di Zeno (entrambi raccontati in prima persona, come una sorta di diario), a partire soprattutto dalla analogia tematica, assai vistosa e probabilmente non casuale, tra i due diversi tentativi (vani) da parte dell’io narrante di smettere di fumare (benché Zeno non si sia iscritto mai a una associazione di alcolisti anonimi… ); e anche considerando la tonalità, comune a entrambi, di commedia esistenziale. In particolare due sono gli aspetti di questi romanzi, su cui vorrei soffermarmi in riferimento alla questione del tragico.
Ha osservato Pampaloni che i personaggi di Svevo duellano con la propria maschera. Così nella citata Forza del passato, dove Gianni, l’io narrante, appunto duella con la propria maschera sociale, fatta di finzioni e menzogne e autoinganni che tutto a un tratto esplodono: suo padre non è quello che sembrava essere (ovvero un militare democristiano, ma una spia russa del KGB); sua moglie non è quella donna fedele che lui aveva immaginato (costringendolo a rinunciare a ogni tentazione); i suoi migliori amici parlano male di lui alle sue spalle (come risulta dalla grande trovata narrativa dell’ascolto dei commenti al citofono dopo la cena) … Egli stesso, almeno con il padre, non era quello che appariva soltanto per contrapporglisi (e cioè un estremista di sinistra). Una commedia degli equivoci, un universo della recita che non risparmia nessuno. E si tratta di un duello che non prevede vincitori e vinti, poiché non sappiamo bene dove comincia e dove finisce la maschera. Anche se, nell’immediato, può avere conseguenze dolorose (qui l’incidente in Vespa, non casuale ma dovuto a una sensazione di improvviso smarrimento interiore). Potrebbe anche essere che ci sia soltanto la maschera e dietro il nulla. Gianni, ben consapevole che è probabilmente impossibile «essere se stessi», non rinuncia però a cercare con testardaggine la verità, a capire la realtà e gli altri. E così Zeno, nell’altro romanzo, non potrà mai sapere se lo schiaffo che gli ha dato il padre prima di morire sia stato un rimprovero o un gesto di affetto. Forse entrambe le cose. E nessuna analisi terapeutica o minuziosa autoindagine potrà aiutarlo a saperlo. La sua logica non è binaria, non ammette esclusioni, aut aut perentori, ma anzi assume la contraddizione (e la casualità) come principio costitutivo del reale. L’apparente messaggio consolatorio – e cioè: la vita continua – dei due romanzi, in realtà nasconde una percezione fortissima del vuoto che sottende l’intera trama dei rapporti e ruoli sociali. Da una parte cioè la vita continua nel senso che, comunque, nessuno può fermarla, darle veramente un senso conclusivo, una forma, una direzione. E anzi per Svevo il male è legato alla pretesa di “guarire” l’esistenza o la stessa Storia umana, con ogni mezzo e a tutti i costi: dunque qualsiasi illusione pedagogica, qualsiasi volontà luciferina di dominare le cose, che sono invece fuggevoli, transeunti (attrazione per il potere, autoillusione dell’uomo moderno e tecnologico che crede di poter manipolare ogni senso naturale … ). Dall’altra però Gianni, accettando il fluire inarrestabile dell’esistenza, e ancora a letto in clinica per l’intervento chirurgico alla spalla dopo l’incidente, si riconcilia con la moglie e poi spinge il pulsante della morfina (la sua è, a ben vedere, una felicità smemorata, un po’ reale e un po’ artificiale, dai tratti quasi sinistri). Mentre Zeno immagina, anzi prevede, la futura bomba atomica e la possibile autodistruzione della specie umana (considerata in blocco come parassitaria) : una apocalisse finale vista però, contraddittoriamente, anche come liberazione, come quiete eterna.
In entrambi il tragico c’è, ma non si vede, dissimulato sotto il tono della commedia (nella Forza del passato c’è anche un omaggio a Gassman che «succhia» il crème caramel, e il romanzo d’esordio di Veronesi era quasi un calco del Sorpasso), impastata di umorismo agrodolce e miracolosa leggerezza, rallegrata dal venticello a quaranta all’ora. O anche un tragico nascosto in un appartamento della casa di fronte, nelle bestemmie urlate da un povero ragazzo sofferente (e ogni tanto nel romanzo si urla, si ulula, come pure fa quella donna nella «Sala risvegli» della clinica). Tutto sembra chiudersi e invece non si chiude. Ed è un tragico che si esprime non tanto come colpa originaria, misteriosa, da espiare all’infinito (un peccato di hybris, di offesa alle leggi divine, legato al fatto stesso di esistere), ma come scarto inevitabile, nient’affatto consolatorio, tra essere e apparire, tra autentico e inautentico, tra finzione e realtà, tra propositi e risultati (l’unica certezza è che finiremo tutti con il culo per terra; come il personaggio della storiella che viene raccontata nella pagina conclusiva). Né questa consapevolezza, per quanto scettico-ironica, deve esimerci da una ostinata ricerca su noi stessi e sulle possibilità che sempre «libera» il nostro fallimento; dallo sforzo inesausto di «continuare» (come suggerisce la frase di Beckett in epigrafe), di capire almeno i segni che ci invia il destino, di saperli interpretare, con tutta l’intelligenza critica e l’immaginazione di cui, tra l’altro, la migliore letteratura è piena.