Il successo targato Adelphi

Schine, McCourt, Marai, McGrath, Ferrandino, Fine, MacDonald: autori sconosciuti che hanno sedotto nugoli di lettori, complici il passaparola e il prestigio nobilitante del marchio editoriale. La casa editrice apre, soprattutto nella collana «Fabula», a titoli un po’ meno classicamente adelphiani, cercando il dialogo con un pubblico più vasto, soprattutto femminile: grazie a romanzi che presentano tutte le caratteristiche (intrighi, passioni, misteri) della migliore tradizione del best seller all’americana.
 
Mai come in questi ultimi anni una casa editrice di cultura come Adelphi, considerata estranea a qualsiasi tentazione di consumismo letterario e di compromessi commerciali, ha operato scelte editoriali vincenti sul piano del successo di pubblico. E non parlo del successo circoscrivibile al “pubblico Adelphi” consolidato, cioè quell’insieme di lettori forti, colti, esigenti, sofisticati, maniaci frequentatori di librerie anche più di una volta alla settimana. Penso piuttosto al successo decretato dal convergere di molteplici fasce di pubblico, da un’utenza larga e diversificata che trova un minimo comun denominatore nel gradimento accordato a un romanzo in particolare, che scala le classifiche di vendita senza abbandonarle magari per più stagioni consecutive, diventando bestseller e vero e proprio caso editoriale, nonostante il suo autore sia un esordiente o comunque sconosciuto in Italia. È ciò che accadde in sorte alla Variante di Luneburg di Maurensig, che dal 1993 a oggi ha totalizzato diciotto edizioni (nove nei primi otto mesi dall’uscita). Ed è ciò che succede, anno dopo anno, inesorabilmente, ad alcuni altri romanzi adelphiani di tempi più recenti. 11 1996 è la volta dell’americana Cathleen Schine, che con la sua Lettera d’amore è arrivata alla diciannovesima ristampa. Il 1997 è segnato dalle Ceneri di Angela, di Frank McCourt: sedici edizioni in tre anni. Il 1998 poi è un anno cruciale: a febbraio esce Follia di Patrick McGrath ( diciannove edizioni fino a oggi); in aprile tocca a Le braci di Sandor Marai (ora alla ventunesima edizione); maggio è il mese di Pericle il Nero di Giuseppe Ferrandina, che con le sue cinque edizioni in due anni è un caso meno clamoroso, ma altrettanto significativo. Il 1999 inizia a gennaio con il romanzo di Anne Fine, Lo diciamo a Liddy? (sei edizioni in un anno), e finisce in ottobre con Chiedi perdono di Ann-Marie MacDonald: già alla quinta edizione, in meno di otto mesi.
n catalogo prospettato incuriosisce: c’è qualcosa che accomuna questi romanzi? a cosa devono il loro successo? sono tutti immediatamente riconoscibili come rappresentanti di collane adelphiane? il loro successo di pubblico e di vendita va sempre di pari passo con il successo di critica, o è comunque commisurato alla loro effettiva qualità letteraria? a quali tipi di pubblico si rivolgono? è possibile ricondurli a coordinate di generi specifici? Rispondere a questi interrogativi consente di illuminare alcuni aspetti della sensibilità letteraria contemporanea, di verificare l’efficacia funzionale di alcuni generi narrativi, e di formulare, in particolare, qualche ipotesi interpretativa su alcune recenti tendenze della politica culturale della casa editrice.
Incominciamo da Sandor Marai, il più rigorosamente adelphiano degli autori in questione. Il merito, impagabile, della casa milanese è quello di aver fatto scoprire al pubblico italiano non solo Le braci (pubblicato per la prima volta a Budapest nel 1942), ma, un aprile dopo l’altro con puntualità cronometrica, anche le altre due variazioni romanzesche sulla passione amorosa dello scrittore ungherese: L’eredità di Eszter (del 1939) nel 1999 e La recita di Bolzano (del 1940) nel 2000. Il trittico romanzesco esibisce caratteristiche tematiche, compositive, strutturali e stilistiche comuni. La voce narrante organizza in ogni romanzo una cornice preparatoria funzionale a costruire i personaggi protagonisti (un generale, Eszter, e nientedimeno che Giacomo Casanova), per poi cedere direttamente a loro la parola nel momento in cui, alla fine della loro vita, incontrano a distanza di decenni le persone legate al loro destino esistenziale dalla necessità del fato, perché «Tutto ritorna, le cose e le parole girano in cerchio, talvolta fanno il giro del mondo, poi un bel giorno si incontrano, si riuniscono e il cerchio si chiude» (Le braci) . Il cuore di ogni romanzo, l’acme narrativo preparato da una scrittura nitida e tesa, consiste nel duello verbale tra i personaggi sferrato a colpi di lunghissimi e affilati monologhi vendicativi, in cui ogni attore, fermo nella propria fissità tragica, recita la sua parte, racconta la propria verità addentrandosi nei meandri coscienziali, riannodando i fili del proprio destino, governato dalla legge di un amore tanto impossibile, quanto assoluto e fatale. Per quanto ottimamente riusciti siano I:eredità di Eszter (ristampato otto volte a un anno dall’uscita adelphiana) e La recita di Bolzano (e senz’altro questo più dell’altro), essi non possono che apparirci come le prove generali per il vero capolavoro che è Le braci, in cui tutti gli elementi presenti nei due precedenti trovano un più compiuto sviluppo in una compagine narrativa più tesa e compatta. Inoltre, a differenza che negli altri due libri, nelle Braci l’incontro-scontro non avviene tra il protagonista e la persona oggetto della sua passione fatale, bensì tra i due amici avvinti dall’amore per la stessa donna. E il fantasma di Krisztina, splendido personaggio in absentia, è il vero protagonista del romanzo: la sua verità è destinata a sfuggire per sempre, consegnata al suo diario che viene gettato tra le braci.
La passione d’amore, l’amour fou, è il tema strutturante anche di Follia, il romanzo dell’inglese Patrick McGrath, autore di una raccolta di racconti e di altri tre romanzi, ma inedito da noi prima del lancio adelphiano. Si è parlato, non a torto, di romanzo “neogotico” (tra l’altro McGrath ha steso, insieme a Bradford Morrow, l’introduzione al volume mondadoriano New Gothic – 21 storie d’ombra): per la sostanza inquietante della vicenda (un amore assurdamente incomprensibile che condurrà la protagonista al suicidio), e per la cupa malia sprigionata dalla narrazione. La storia inizia e finisce, con perfetta circolarità, in un tetro manicomio criminale vittoriano, dove Stella, la moglie del vicedirettore, si innamora di Edgar Stark, lo scultore detenuto per aver ucciso la moglie in modo particolarmente efferato. La passione spinge Stella ad abbandonare marito e figlio per seguire l’uomo quando evade. Ritroviamo alla fine, dopo ima serie di peripezie, i due amanti nello stesso ospedale psichiatrico, ognuno ignaro della presenza dell’altro, ma curati dallo stesso psicanalista: Peter Cleave, ossia il narratore in prima persona dell’intero romanzo, a sua volta innamorato della protagonista. Ed è proprio alla configurazione dell’io narrante che il romanzo deve il suo fascino. Infatti il progressivo coinvolgimento personale del narratore, attonito di fronte alla potenza ineluttabile delle pulsioni inconsce, impedisce alla ricostruzione narrativa di rendere ragione dell’accaduto, di portare ordine e di chiarire, lasciando invece tutto inspiegato. Il narratore è implicato nella vicenda e la sua ottica, che si sforza di essere professionalmente oggettiva, è in realtà quella di chi non capisce, di chi non può capire e forse neanche lo vuole sino in fondo. Tutto ciò produce nel lettore un confuso effetto di straniamento, che lo tiene avvinto al libro per l’intera durata della lettura. Va detto comunque, al di là di ogni possibile considerazione sull’effettiva abilità inventiva, compositiva e stilistica dell’autore, che il romanzo esibisce alcune caratteristiche tipiche del best seller di consumo a tinte forti, e si presterebbe efficacemente a un trattamento cinematografico (anche per la visività della scrittura di McGrath) con Edgar Stark nella parte del nuovo avatara di Hannibal Lecter…
Sull’onda lunga del successo di Follia, approfittando dell’effetto marchio d’autore, Adelphi ha proposto nel 1999 anche un precedente romanzo di McGrath intitolato Il morbo di Haggard, decisamente inferiore all’altro. Tuttavia l’operazione ha funzionato, a giudicare dalle sei ristampe in un anno e dal fatto che il libro compaia tuttora tra i primi cinque più venduti nelle librerie Feltrinelli. Un altro amore fatale condiziona l’intreccio: quello del dottor Haggard nei confronti dell’ormai defunta Fanny, che si riversa sul figlio di lei, nel momento in cui si presenta dal protagonista a distanza di anni, e per ragioni piuttosto incomprensibili. Il ragazzo, a causa di una grave disfunzione ormonale, ma soprattutto a causa dell’ottica di Haggard, stravolta da un feticismo amoroso claustrofobico e dalla morfina, acquisisce tratti progressivamente più femminei, fino a trasformarsi in modo inquietante nella controfigura materna. Il racconto soffre di un eccessivo effettismo, culminante nell’epilogo macabramente necrofiliaco, che vede Haggard assistere il ragazzo negli ultimi attimi di vita, dopo l’esplosione dell’aereo che stava pilotando (siamo durante la seconda guerra mondiale e il “ morbo” del titolo vale anche come metafora dell’evento bellico): «Le tue labbra annerite si schiudono: un rantolo, un sospiro, una parola. Avvicino il volto, cosa mi stai dicendo? Premo delicatamente la bocca sulla tua e cerco la tua lingua con la mia, la cerco con piccoli guizzi veloci finché nel tuo viso orrendamente bruciato sento l’umore dolce e fresco, la lingua ancora viva . . . ». L’analisi dei fatti e dei sentimenti che Haggard dipana sotto forma di lettera o diario rivolto al ragazzo (interessante la costruzione di una narrazione in seconda persona, che chiama costantemente in causa un “tu” assente-presente) risulta inoltre ossessivamente ridondante: niente è lasciato implicito e al lettore viene a mancare uno spazio in cui poter progettare ipotesi, previsioni, interpretazioni.
Altre scelte adelphiane appaiono imprevedibilmente orientate verso opere narrative, come quelle di Cathleen Schine, di Anne Fine e di Ann-Marie MacDonald, mirate a instaurare un dialogo
con un pubblico essenzialmente, se non esclusivamente, femminile. Scritti da donne e destinati a donne, i romanzi inscenano vicende che hanno per protagonisti e comprimari personaggi per lo più femminili. Questo è evidente nei rosa della Schine (La lettera d’amore e Le disavventure di Margaret), ma finisce per assumere una rilevanza prepotente nelle storie di famiglia di Fine (Lo diciamo a Liddy? e Villa Ventosa), in cui mariti, padri, fratelli e figli maschi si defilano discretamente per lasciare che sorelle, figlie, mogli e madri si scontrino tra loro. Anche l’albero genealogico di Chiedi perdono, immagine strutturante della tetra saga familiare, è significativamente dominato da numerose quanto inquietanti presenze femminili. Detto questo, le autrici in questione andrebbero considerate ognuna singolarmente. La Lettera d’amore racconta la relazione passionale che nasce tra la quarantaduenne Helen, libraia colta e affascinante di una cittadina del New England, divorziata e madre di una ragazzina di dieci anni, e Johnny, lo studente di diciannove anni che durante le vacanze estive lavora come commesso nella libreria di Helen. La trama, esilissima, scorre sui binari di una prevedibilità monotona e senza suspense: soltanto, alla fine, la sorprendente quanto divertente rivelazione dell’amore omosessuale tra la madre di Helen e l’altrettanto anziana Miss Skattergoods, autrice di romanzi gialli di successo sotto pseudonimo. Difficile indicare con sicurezza le ragioni del successo impressionante riscosso dal romanzo qui da noi: un successo per niente scontato, visto che negli Stati Uniti non aveva mai conquistato le best list, e che in Italia, prima di finire sotto gli occhi di Calasso, era stato rifiutato da ben quindici editori. Con ogni probabilità le lettrici hanno apprezzato la scrittura brillante e urbanamente umoristica di Schine, il cui merito autentico consiste nell’aver fatto reagire romanticismo e ironia all’insegna di un’elegante leggerezza. È la stessa lievità che ritroviamo nelle Disavventure di Margaret, il romanzo della scrittrice americana uscito in patria nel 1993 e proposto all’ attenzione del pubblico italiano sempre da Adelphi nel 1998, contando sul possibile riverbero dell’effetto best seller. Effetto, questo del brand name dell’autore, che deve aver agito al momento dell’uscita, quando il libro guadagnò le vette delle classifiche di vendita, ma che tuttavia non riuscì a garantirgli una solida capacità di tenuta.
Un’affabilità simpatica, gradevole e ironica connota anche la scrittura dell’inglese Anne Fine, autrice di Mrs Doubtfire (da cui fu tratto l’omonimo film) e di numerosi altri romanzi per bambini. Lo diciamo a Liddy? è davvero, come dice il sottotitolo, «una commedia agra» sulla crisi dei rapporti tra quattro sorelle legatissime, e sulla crisi matrimoniale a cui approda alla fine del racconto una di loro, Bridie: il personaggio su cui la voce narrante mantiene per lo più la focalizzazione. L’unità della famiglia, che per Bridie era una verità indiscutibile e un valore assoluto, tradisce progressivamente, lungo il procedere della narrazione, tutta la sua illusorietà, e il racconto finisce per essere un amaro documento sulla crisi che l’istituzione familiare attraversa nella società contemporanea. Il breve romanzo è costruito sulla giustapposizione ironica della serie di dialoghi tra le protagoniste, che mette in evidenza lo scontro dei punti di vista: è questa strutturazione a rendere il romanzo una divertente «commedia» a più voci, che sollecita il lettore a riempire i vuoti della narrazione e a sciogliere ciò che la scrittura lascia implicito. A un anno dalla pubblicazione di Lo diciamo a Liddy?, Adelphi propone un precedente romanzo della Fine, dal titolo Villa Ventosa: un’altra storia di equivoci, ricatti, doppi giochi, smascheramenti tra l’eccentrica Lilith Collett, le sue tre figlie, il figlio maschio e il di lui compagno Caspar. Il consueto tono ironicamente leggero, per una storia che si chiude questa volta con un happy end catartico. Rispetto a Lo diciamo a Liddy?, Villa Ventosa è più comico, e infinitamente meno corrosivo, anche perché i personaggi assomigliano troppo alle caricature di se stessi.
Chiedi perdono è il romanzo d’esordio (1996) dell’attrice e drammaturga canadese Ann-Marie MacDonald: vincitore di numerosi premi tra cui il Commonwealth Writers Prize (1997 ), sta affascinando migliaia di lettrici italiane. Si tratta di una cupissima saga familiare ambientata nell’isola di Cape Breton, nella Nuova Caledonia, anche se poi la voce narrante è costretta a seguire alcuni personaggi fino in Europa, e a New York. Le colpe del giovane accordatore di pianoforti James Piper e della tredicenne libanese Materia Mahmoud, unitisi in matrimonio sul finire dell’Ottocento sfidando le regole della comunità, ricadranno inesorabilmente sulle figlie, condannate a un destino fosco e tragicamente crudele. Passioni cieche, incesti, santità, fobie e attrazioni razziali, delitti, prostituzione, amori trasgressivi, apparizioni sovrannaturali, arcane corrispondenze: sono gli ingredienti di questo feuilleton postmoderno, recante in epigrafe una citazione da Cime tempestose, e narrato con una scrittura livida, onirica e ipnotica. Il romanzo-fiume, a partire dalla sua stessa estensione – quasi seicento pagine scritte fitte – esibisce le caratteristiche del best seller di consumo orchestrato con innegabile sapienza narrativa. Interessanti espedienti strutturali e stilistici dinamizzano il racconto, impedendo al lettore di distogliere l’attenzione dalla pagina: l’introduzione del diario di Kathleen, che ci consente di apprendere delle sue esperienze newyorkesi direttamente dalla sua voce, e poi le variazioni del regime di focalizzazione, gli inserti analettici, le allusioni prolettiche, le ellissi strategiche, le manipolazioni dell’ordine del racconto rispetto alla linearità della storia…
Benché esemplare tecnicamente, e originale sotto molti punti di vista, Chiedi perdono rimane un prodotto testuale difficilmente apprezzabile se non da un certo tipo di pubblico, e quasi esclusivamente femminile. Diverso il caso del successo adelphiano del 1997 : Le ceneri di Angela (1996), romanzo d’esordio del sessantenne Frank McCourt, vincitore del Premio Pulitzer e del National Critics Award, è sicuramente riconducibile alla categoria critico-descrittiva del best seller di qualità. L’etichetta si addice a quelle opere in grado di intrattenere un dialogo con una larga utenza, e di unificare diverse fasce di pubblico, senza per questo rinunciare ai crismi della letterarietà ufficiale, rintracciabile prima di tutto nelle scelte di linguaggio. La storia raccontata è quella di una famiglia (proprio quella dell’autore) sempre sul punto di soccombere in una situazione di miseria irredimibile, e di un’infanzia infelice irlandese. Ma, come il narratore spiega ad apertura di libro, «un’infanzia infelice irlandese è peggio di un’infanzia infelice qualunque, e un’infanzia infelice irlandese e cattolica è peggio ancora». Negli anni tra le due guerre la miseria attanaglia i McCourt: il padre, indipendentista fanatico, è alcolizzato e perennemente disoccupato, mentre la madre – l’Angela del titolo – cerca di resistere al dolore della perdita di alcuni figli, e di sopravvivere come meglio può con il resto della famiglia. Ciò che rende il romanzo indimenticabile è la configurazione del narratore: Frank McCourt rievoca in prima persona le proprie gesta, e quelle dei suoi familiari, adottando senza défaillances l’ottica del se stesso di una volta. Punto di vista e voce dell’io narrante coincidono con quelli dell’io narrato mentre vive le sue avventure: prima bambino, poi adolescente, fino a quando, diciannovenne, parte per l’America (Le ceneri di Angela è anche un bellissimo romanzo di formazione) . li piccolo Frank è un osservatore sfrontato, implacabile, refrattario a ogni sentimentalismo, e la sua capacità di comprensione del mondo non può che essere ingenua, infantile appunto. Ne risulta una narrazione aliena da ogni traccia di patetismo, dal ritmo spericolato, di una vitalità e comicità (anche perché le parole e i discorsi degli adulti vengono recepiti e riportati dal narratore senza che egli ne intenda la reale portata) che però nulla tolgono all’asprezza delle atrocità descritte e raccontate.
Storie d’amore e di passione, di relazioni parentali e di famiglie, romanzi di formazione, di costume e di affresco sociale (specialmente Le ceneri di Angela e Chiedi perdono): questi i paradigmi di genere, anche se sfumati, a cui sono riconducibili gli Adelphi di successo di questi ultimi anni. E poi c’è il noir partenopeo di Giuseppe Ferrandina, l’unico autore italiano di questo catalogo fortunato. Pericle il Nero era già uscito da Granata Press nel 1993 : passato del tutto inosservato da noi, sedusse invece i francesi, che nel 1995 lo pubblicarono nella celebre «Série noire» di Gallimard. Il rilancio adelphiano nella prestigiosa collana «Fabula» ha fatto del breve romanzo un altro importante caso letterario del 1998. Pericle Scalzone, detto il Nero, uno degli uomini del camorrista don Luigino «Pizza», racconta in prima persona la sua storia: da killer si trasforma in bersaglio, braccato anche dai sicari del suo stesso padrone. La fuga avventurosa e disperata che lo porta da Napoli a Battipaglia, a Pescara e di nuovo a Napoli, è raccontata con ritmo asciutto, serrato e cinematografico in un italiano disarticolato e dialettale, che è il vero punto di forza del libro, insieme alla caratterizzazione di alcuni personaggi femminili, come Signorinella (la potente sorella del defunto boss Ermenegildo Coppola) e Nastasia (l’operaia polacca che ospita Pericle a Pescara). Grazie a lei e attraverso il rifiuto delle regole del suo mondo, il protagonista acquisisce consapevolezza di sé e diventa uomo, da «uomo cane» che era. Nel 1999 Adelphi ha pubblicato il nuovo romanzo di Ferrandina: Il rispetto (ovvero Pino Pentecoste contro i guappi) è ancora un noir, narrato questa volta, ma sempre in prima persona, dall’investigatore privato Pino Pentecoste. Simile all’altro per genere, ambientazione, brevità, asciuttezza, ritmo incalzante, icasticità dei personaggi e linguaggio modellato sul registro di un parlato realisticamente colorito, sia nei monologhi diegetici sia nei dialoghi, Il rispetto si propone primo di una serie (i due romanzi già scritti dovrebbero intitolarsi Il piacere e La gloria) che ha come sfondo i quartieri popolari di Napoli e come protagonista il detective Pino Pentecoste. La serialità potrebbe concorrere a consolidare il consenso intorno a un autore che per la casa editrice rappresenta una significativa apertura ai gusti di un pubblico anche giovanile: proprio il tipo di pubblico che ad Adelphi mancava.
La mappa fin qui tracciata si presta infine a una considerazione: la collana «Fabula» (soltanto Marai, tra i citati, è pubblicato nella «Biblioteca Adelphi»), inaugurata dall’Insostenibile leggerezza dell’essere di Kundera (1985 ), non cresce come serie unilineare di opere omogenee sul piano della funzionalità letteraria: si configura invece sempre più come sistema stratificato su più livelli. Al fruitore è demandata la responsabilità di scegliere i testi che si attaglino più efficacemente alle proprie esigenze di lettura; mentre la qualità di ogni esperienza di lettura vuole essere garantita dal prestigio del marchio editoriale.