Gli sbarchi del postmoderno in Italia

Uno sbarco a singhiozzo quello della post modern fiction americana in Italia. Un primo mero tentativo, per lo più di carattere editoriale, nel 1965-1974; un secondo più deciso tra il 1976 e il 1990, in cui però non «passa» (o è solo recepita a frammenti) la complessità di quanto sta accadendo negli USA a livello letterario e culturale; un terzo, dagli anni novanta ai primi del nuovo secolo, che rappresenta la piena riscoperta e il consapevole riconoscimento dei grandi «maestri» d’oltreoceano, da Barth a Coover, da Elkin a Hawkes, da Gass a Vonnegut e a Pynchon.
 
Lo «sbarco» del postmoderno in Italia ha coinciso soprattutto con l’ingresso di una parola che ha calamitato, fra la fine degli anni settanta e i primi anni ottanta, tensioni diverse di una trasformazione già ampiamente in atto nel pensiero (non solo filosofico), nelle arti (in particolare nell’architettura), nel gusto. In questa trasformazione (la «fine della modernità», come recitava un titolo di Gianni Vattimo), la letteratura, e soprattutto la narrativa, ha un posto decisivo. E un posto ancora più significativo ha la narrativa americana. Lo «sbarco» della postmodern fiction americana in Italia non avviene in una volta sola, né tanto meno univocamente. Il primo è in verità un mero tentativo (un tentativo soprattutto editoriale), non proprio coevo all’uscita delle opere in USA ma in anticipo rispetto alla bagarre successiva: si può comprenderlo fra il 1965 e il 1975. Il secondo, più deciso, coincide con la consapevole identificazione di una «condizione postmoderna» e con l’ingresso del termine postmoderno che, destando interventi spazianti dalla filosofia all’architettura, dà una nuova spinta alla ricerca editoriale – non secondario appare in questo contesto il successo inaspettato di un romanzo come Se una notte d’inverno un viaggiatore che veicola con estrema limpidezza non solo certe costanti del suo autore ma anche modi e istanze che variamente potevano «riassumere» il concetto di postmoderno in termini narrativi. La datazione può essere compresa fra il 1976 e il 1990. Il terzo sbarco copre gli anni novanta e i primi anni del secolo: grazie all’influenza sotterranea esercitata dai maestri del postmoderno su una nuovissima generazione di narratori americani e su molti colleghi italiani, rappresenta, sia culturalmente sia editorialmente, una ripresa e un riconoscimento, per certi aspetti definitivo, di quei maestri. Maestri o meno, i «padri» della postmodern fiction americana costituiscono un nutrito drappello di scrittori che cito qui di seguito, consapevole di offrire un elenco parziale: John Barth, Donald Barthelme, Robert Coover, Stanley Elkin, John Hawkes, William H. Gass, Kurt Vonnegut, Thomas Pynchon.
Ma cominciamo dall’inizio, o da quello che convenzionalmente vogliamo identificare come inizio. Nel 1966 Rizzoli pubblica Fine della strada di John Barth, nel 1967 esce L’Opera galleggiante e nel 1968 II coltivatore del Maryland, a cui fanno seguito Gilles il ragazzo capra nel 1972 e La casa dell’allegria del 1974. The End of the Road era uscito in America nel 1958, due anni prima The Floating Opera (opera d’esordio ripubblicata nel 1967 con il ripristino dei tagli operati dall’editore), nel 1960 Goat Boy Gilles, nel 1963 Lost in the Funhouse, nel 1966 The Soft Weed Factor e nel 1972 Chimera che è anche l’ultimo libro di Barth pubblicato in Italia nel 1975. Come si vede la tipologia di acquisto e pubblicazione dell’editore italiano segue le modalità riservate all’autore di qualità: il suo primo libro tradotto esce quando in patria John Barth è ormai una figura di punta. La prima stagione barthiana in Italia si ferma al 1975 e quando nel 1979 dà alle stampe il suo voluminoso Letters non c’è editore pronto a raccogliere la sfida. La fortuna di Barth in Italia è molto relativa: la stessa critica non avverte dietro opere come La casa dell’allegria e Chimera (o almeno non avverte in modo decisivo) l’evidente trapasso a una forma che è anche una dichiarazione di intenti, evidenziati poi sino all’esasperazione in quella bizzarra summa che è Letters. Un simile destino tocca a Donald Barthelme: Come back, Dr. Caligari (1964) viene pubblicato da Bompiani nel 1967 (Ritorna, dr. Caligari, tradotto e introdotto da Claudio Gorlier), segue Unspeakable Practices, Connatural Acts (1964) nel 1969 (Atti innaturali, pratiche innominabili) e Snow White (1967) nel 1972 (Biancaneve). L’autore passa quindi a Einaudi che pubblica nel 1979 The Dead Father (Il padre morto). Sia l’uno sia l’altro autore sono sostanzialmente letti come scrittori sperimentali, di uno sperimentalismo per altro che ha poco a che fare con le neoavanguardie italiane e neppure con le lambiccate intellettualizzazioni del nouveau roman francese – al quale forse la cultura italiana è stata forse più sensibile. Anche il generoso traduttore di Barth, Pier Francesco Paolini, sentiva la necessità, nella prefazione a La casa dell’allegria, di trovare – giustamente – un correttivo all’impressione di sperimentalismo ma senza spingere la lettura all’interno dei meandri del postmoderno (il termine è ancora muto), sino alla percezione di quell’entropia del senso qui addirittura negata: «John Barth ama procedere per allusioni, allegorie, allitterazioni e altre alchimie verbali […] senza perdere però mai di vista la foresta per via degli alberi, né la stella polare del Senso fra le brume di fumosi divertenti Nonsensi, né la vera virtù (la vera vita) per via di virtuosismi varii». V di Thomas Pynchon è pubblicato per la prima volta da Bompiani nel 1965 tradotto da Liana M. Johnson (ma sarà ritradotto da Giuseppe Natale, poi responsabile della versione italiana di Gravitys Rainbow, nel 1996). Anche L’incanto del lotto 49 esce una prima volta da Bompiani nel 1968, ma sarà ripresentato sia da e/o (che pubblica anche i suoi bellissimi racconti con il titolo Un lento apprendistato) sia da «Oscar Oro» Mondadori (1996). Come è già evidente dalla complessa avventura editoriale di questi due titoli, Thomas Pynchon è l’autore che, per molti versi, meglio incarna la differenziata avventura della postmodern fiction in Italia. E Rizzoli, negli anni novanta, a pubblicare Vineland, Gravitys Rainbow del 1973 (L’arcobaleno della gravità), opera per molti versi pivotale dell’autore e del postmoderno stesso, e il più recente Mason & Dixon. Nel 1968 esce anche Mattatoio n. 5 di Kurt Vonnegut, «maestro» assorbito all’interno del postmodernismo. Il suo destino editoriale percorre una strada diversa: negli anni sessanta-settanta le sue opere tradotte (Un pezzo da galera, Ghiaccio nove, Madre notte) sono lette volentieri a partire dalla loro contiguità con il genere fantascientifico e con questo confuse. Einaudi pubblica nel 1973 Prigionieri del passato di William H. Gass e nel 1974 Arazzo d’amore di John Hawkes.
Ciò che, in questa prima fase, non «passa» è la complessità di quanto in America sta accadendo a livello letterario: la relazione fra new journalism, beat, camp, iperrealismo e la sorprendente vitalità di quel gruppo di autori che saranno poi battezzati postmoderni tremola appena o non appare del tutto. La dimensione «pop», l’arte «intermediale» (l’aggettivo è di Barth), la strategia parodica del riuso di materiali esistenti, l’aspetto serissimamente giocoso del racconto che racconta se stesso, le connessioni internazionali (Messico e Sudamerica, innanzitutto), tutto ciò, nella cultura italiana degli anni sessanta-settanta, non emerge. L’America (e soprattutto la letteratura americana) è recepita a settori o frammenti, e sostanzialmente slegata (al di là dell’ovvia relazione fra beat generation e rock) da forme diverse da quella della scrittura (ma vale anche il discorso contrario). Pesa inoltre una visione dell’America compresa in quel grande filtro mitologico che Elio Vittorini era venuto preparando da almeno due decenni e che per buona parte degli anni settanta continua ad essere sentito come un prezioso (o forse l’unico) canale di avvicinamento alla letteratura americana. Nel 1960 Marisa Bulgheroni aveva pubblicato il saggio II nuovo romanzo americano che, pur ben attento a chiudere il mito vittoriniano-pavesiano e a volgere lo sguardo su una realtà complicata e in movimento (Bellow, Mailer, Salinger), non intende e per molti versi liquida Lolita di Nabokov, autore tardo-modernista, e chiude il volume dedicando un tanto acuto quanto sbrigativo giudizio su The Cannibal (1949) di John Hawkes, più tardi compreso nel novero dei postmoderni, e allora parte del gruppo d’avanguardia di New Directions (con James Purdy e Jack Jones): scrittori che «offrono esperimenti audaci ma chiusi: la loro coscienza della verità letteraria è così profonda che riescono, spesso, a fare della forma l’unico vero contenuto dei loro racconti o dei loro romanzi brevi […] Non disertano le battaglie del linguaggio, ma non hanno la violenza naturale degli innovatori».
Nell’agosto del 1967 John Barth pubblica sulla rivista «Atlantic» un breve saggio intitolato La letteratura dell’esaurimento in cui, rendendo omaggio a Borges, ha modo di definire il carattere specifico delle proprie opere: «romanzi che imitano la forma del romanzo di un autore che imita il ruolo dell’Autore». Tredici anni più tardi, sempre su «Atlantic» esce un altro saggio, La letteratura della pienezza. Fiction postmodernista. Barth si trova necessariamente a fare i conti con la storia della postmodern fiction americana, rivelandosi per altro un lettore attento di Italo Calvino ormai ampiamente tradotto in inglese. E il 1980 ed è stato pubblicato da poco Se una notte d’inverno un viaggiatore. Il termine postmodernismo è diventato molto familiare, anche in Italia. Nel giro di pochi anni, e in particolare fra il 1979 e il 1984, la familiarità diventa una sorta di ossessione. Come recita il titolo di un capitolo del volume di Remo Ceserani, Raccontare il postmoderno («D’improvviso molti parlano di postmoderno: ma cos’è?»). Quello che qui ci preme notare è che, pur a fronte della complessa storia della definizione di postmoderno – che è stato, anche in architettura, un fenomeno-tendenza piuttosto che un movimento – la parola attrae e rigetta, aggrega e infastidisce. Nel 1981 esce per Feltrinelli La condizione postmoderna di Jean-Frangois Lyotard che accende un ampio dibattito sulla rivista «Alfabeta» (decisivo l’intervento di Jiirgen Habermas, Moderno, postmoderno e neoconservatorismo) a cui partecipano, fra gli altri, Salvatore Veca, Franco Berardi Bifo, Claudio Gorlier, Carlo Formenti. In gioco è la fisionomia sostanzialmente postumanistica, decadente e rinunciataria, rispetto al progetto del Moderno, che il postmodernismo sembra adombrare. Nel 1982 la rivista «Calibano» dedica un numero monografico a La finzione necessaria: il romanzo postmoderno americano. Barbara Lanati e la sua squadra di studiosi che partecipano all’impresa riaprono i battenti sulla narrativa americana, traducono i due saggi sopracitati di John Barth e il saggio di Leslie Fiedler La morte e le rinascite del romanzo. Due anni più tardi esce un’antologia a cura di Peter Carravetta e Paolo Spedicato, Postmoderno e letteratura che, in polemica con «Calibano», lascia emergere, con tonalità heideggeriane, la condizione epigonale dei «sopravvissuti» alla grande tradizione della cultura occidentale. Né è da trascurare l’interessante saggio di Franco La Polla Un posto nella mente. Il nuovo romanzo americano: 1962-1982. L’effetto dei conflitti sorti intorno al termine postmoderno si fa sentire subito in area editoriale: i narratori americani riguadagnano attenzione e appaiono anche scrittori fino ad allora non tradotti. Sin dal 1976 esce l’edizione tascabile di La fine della strada di John Barth con una introduzione di Enzo Golino. Dalla raccolta di racconti Pricksongs & Discants del 1969 di Robert Coover la casa editrice Guanda estrapola La babysitter ( 1982). L’autore passa quindi a Feltrinelli che pubblica La festa di Gerald ( 1988) e Una serata al cinema (1992). Einaudi stampa nel 1980 Nel cuore del cuore del paese di William H. Gass. Seconda pelle di John Hawkes, pubblicato da Feltrinelli per la prima volta nel 1967, viene offerto in una nuova edizione nel 1988. Più tardi escono per i tipi di Einaudi II sangue degli Ashenden, Il condominio e La stanza di van Gogh ad Arles di Stanley Elkin. Di Thomas Pynchon si è già detto sopra. Ma va ancora detto che, soprattutto grazie a lui, si tende il ponte fra la prima fase dello sbarco e l’ultima. L’unicità della sua scrittura e la tenacia con cui gli editori hanno infine saputo presentarla (anche dove vi erano oggettive difficoltà: la mole e la complessità di Gravitys Rainbow) sono state per molti versi decisive. Se le opere degli altri autori soffrono della discontinuità dettata dalle periodiche cautele editoriali, Thomas Pynchon viene via via assumendo quella dimensione mitica che – fatta eccezione per Kurt Vonnegut – sfugge al gruppo «storico» dei postmodern writers. Ciò che accade intorno alla fine degli anni novanta somiglia tuttavia a una redenzione collettiva: caduti i minimalismi – o quantomeno l’attrazione esercitata da scrittori come Jay Mclnerny, Bret Easton Ellis e Douglas Coupland – una nuova generazione di autori americani torna al massimalismo postmodernista orientando la propria ricerca dentro il viluppo di opere-monstrum, il labirinto della parodia, il gioco dei prestiti letterari, la scommessa dei linguaggi specialistici, la furia della mescidazione alto-basso, il vortice delle mise-en-abime. David Foster Wallace, Dave Eggers, Colon Whitehead, Donald Antrim, Jonathan Lethem pagano più o meno esplicitamente il loro tributo ai «maestri» postmodernisti. Quasi contemporaneamente, ma anche attraverso l’influsso di questa nuova «vague» americana, molti autori italiani misurano affinità, declinano lealtà (Tommaso Pincio è nom de plume quanto mai trasparente), raccolgono sfide. Lo stesso accade in editoria. Due sono gli episodi più significativi: la ripresa dell’opera di Kurt Vonnegut da parte di Feltrinelli e la generosissima operazione avviata da Minimum fax con i suoi «Classics» in cui sono già apparsi La fine della strada di John Barth (a cura di Martina Testa), Ritorna, Dr. Calligari di Donald Barthelme e Mrtg/c Kingdom di Stanley Elkin. Nel 1996, per altro, Bompiani ripubblica Atti innaturali, pratiche innominabili di Donald Barthelme con una postfazione di Daniele Brolli, che in quanto curatore della collana «Stile libero» è stato anche un prezioso ponte fra i suoi studi di americanista e la cosiddetta «generazione cannibale». «Non potendo toccare più tutto – dice Brolli – nel vasto supermercato di ciò che può essere detto, i postmoderni si lasciano trasportare dalle correnti travolgenti di una fabulazione inarrestabile, capace di far convergere nell’insieme unitario di un racconto argomenti e soggetti che la realtà non sarà mai in grado di mettere a confronto. I risultati sono disparati. E una prosa corsara che, con la sua ansia di andare a caccia di vocaboli, frasi, costruzioni narrative, sfocia in una metaletteratura enciclopedica, vasta quanto i nostri sospetti ritengono che sia». Fabulazione inarrestabile, appunto. La menzione dell’inarrestabilità fa pensare che alcune opere decisive del postmoderno americano (fatta eccezione per L’arcobaleno della gravità di Pynchon) sono ancora ignote al lettore italiano: The Cannibal di John Hawkes, Letters e Sabbatical di John Barth, The Public Burning e la versione integrale di Pricksongs & Discants di Robert Coover.
Lo sbarco della postmodern fiction americana ce stato. Sicuramente. Ma è stato, come si è visto, uno sbarco a singhiozzo. A molte opere, pur pubblicate, è ormai impossibile accedere. Maceri e svendite le hanno polverizzate. Verrebbe sin troppo facile vedere in questo destino così misto di rinascite e polverizzazioni qualcosa di familiare alla stessa poetica postmoderna. In realtà la fabulazione inarrestabile continua nel gesto infinito di cui gli autori di cui se parlato sono responsabili. Un infinite gesture che per definizione non può non autogenerarsi. Il lettore, che alla fine di Se una notte d’inverno un viaggiatore si rende conto di aver letto o addirittura concorso alla scrittura del libro che porta quel titolo, era stato messo in guardia da John Barth in La casa dell’allegria’. «E a te, accanito, ininsultabile, bastardo divoratore di carta stampata, è a te che mi rivolgo, e a chi sennò, dall’interno di questo mostruoso racconto. Allora, m’hai letto fino a qui, eh? M’hai seguito fin qui? Per quale abietto motivo? Perché non sei andato invece al cinema, perché non guardi invece la tivù, o non guardi che so un muro, o non sei a giocare a tennis con un amico, o non fai amorose profferte alla persona che ti viene in mente mentr’io parlo di profferte amorose? Niente riesce dunque a nausearti, satollarti, farti smettere? Ma non te ne vergogni?». Lo scrittore proseguiva, dopo aver insultato il suo interlocutore privilegiato, dicendo di trovarsi «nonostante tutto di nuovo nel bel mezzo di una frase».