Il romanzo: la pienezza del postmoderno

Tornano alla ribalta narratori statunitensi come Barthelme, Barth, Vonnegut, invitandoci a una riconsiderazione del postmodernismo nel suo decorso pluridecennale e nei riflessi che proietta sulla situazione italiana. Eco e Calvino forse non hanno avuto prosecutori, ma il loro esempio parodico e iperconsapevole ha aperto la via a un recupero dei generi romanzeschi. Tondelli, Luther Blissett, Tommaso Pincio passano dall’ironia e dal gioco metaletterario a un contatto più immediato con il lettore. Sono le piccole editrici di area romana a interpretare il fenomeno con maggiore convinzione; e Camilleri, con i suoi gialli neoetnici, a illustrarcene efficacemente la duplicità strategica.
 
La cronaca editoriale di questi mesi registra una coppia di notizie forse non clamorose ma convergenti. A Milano, Feltrinelli acquista i diritti dell’intera opera di Kurt Vonnegut jr. e porta Mattatoio n.5 nella classifica dei libri più venduti; a Roma, Marco Cassini e Daniele Di Gennaro di Minimum fax varano la serie «Classics», entro cui trovano posto Ritorna, dr. Caligari di Donald Barthelme e L’Opera galleggiante di John Barth, Magic Kingdom di Stanley Elkin e Revolutionary Road di Richard Yates. Il postmodernismo narrativo sembrerebbe godere di una seconda primavera, più che mai odorosa di Stati Uniti, di anni sessanta, settanta, e proprio mentre da noi nessuno sembrava più rivendicare l’etichetta, se non nella forma revisionata e generazionale di avant-pop. E ben vero che corsi e ricorsi di titoli stranieri, passaggi di marchio e riscoperte laterali non comportano di norma incrementi significativi di consapevolezza. Tuttavia il carattere spiccatamente americanista del revival invita a distinguere sia pure in scorcio due linee di ragionamento: l’una poetologica, accademica, inaugurata negli USA da Ihab Hassan, John Barth, e poi sistematizzata in senso vuoi ermeneutico vuoi neomarxista da William Spanos e Fredric Jameson; l’altra più attenta alla dimensione sociologica del fenomeno, al postmodernismo come mutamento negli assetti dell’offerta culturale e nei modi di ricezione, una linea da noi rimasta alquanto in ombra, e quasi coincidente con il lavoro critico pluridecennale condotto senza tema di provocazione da Leslie Fiedler.
Se badiamo alla prima – Barth di The Literature of Exhaustion, 1967; Hassan di The Dismemberment of Orpheus, 1971 -, colpisce anzitutto una fase originaria di natura pessimistica, in cui le espressioni che ricorrono sono «evanescenza», «usura di certe forme e di certe possibilità narrative», «irrilevanza della storia dei generi e delle loro evoluzioni». L’orizzonte che si disegna è di tipo crepuscolare, epigonico, e tanto più trascolora se si considera la diffusione coeva degli scritti adorniani postumi (Teoria estetica appare nel 1970), dove sono reperibili concetti-immagine di larga fortuna come canone dell’interdetto ed esaurimento dei materiali. «L’avanguardia – osserva Hassan – contribuisce a inventare il futuro sotto l’antica veste dell’esperimento», senonché, all’incirca da due secoli in qua, «questi esperimenti sono tesi verso forme evanescenti. Essi comportano annunci di silenzio, una coscienza che si slaccia dalla storia, cercando di svincolarsi dalle parole e dalle cose».
Il modernismo è giunto insomma al suo zenit discendente; il progetto di una sperimentalità senza limiti di trasgressione suscita, per quanto in ipotesi, come auspicio, controspinte di indole costruttiva. «Sarebbe opportuno – scrive Barth – riscoprire validamente gli artifici del linguaggio e della letteratura – quelle strane nozioni come la grammatica o la punteggiatura… perfino la caratterizzazione! Perfino la trama! – se ci si muove nella giusta direzione, consapevoli del punto a cui erano arrivati i nostri predecessori». Ad affiorare è la coscienza vaga di una svolta, nei gusti, nelle attitudini creative, pochi sono però i punti di riferimento, se si esclude l’assunzione di Jorge Luis Borges a portabandiera del nuovo sentire, ad antesignano di una diversa vulgata. Come già fecero i naturalisti con Balzac, anche gli artefici del postmoderno americano cercano anzitutto un maestro, e lo trovano nello scrittore argentino, massimamente propositivo e innovatore un venticinquennio dianzi.
E solo in un secondo momento che emergono i tratti ora considerati canonici del postmodernismo romanzesco: intertestualità, metaletteratura, mescolanza dei generi, recupero ironico della tradizione alta come di quella popolare. Ed è soprattutto in un secondo tempo che si fa strada una nozione antielitaristica di pubblico. Lo scrittore postmodernista – annoterà Barth in un più tardo The Literature of Replenishment, 1980 – «ha digerito il modernismo, ma non lo porta sulle spalle come un peso», aspira anzi a una narrativa che si rivolga a un uditorio «più vasto del circolo di quelli che Thomas Mann chiamava i primi cristiani, i devoti dell’Arte»; suo compito specifico è parlare alla moltitudine, superando i dissidi storici tra opere d’élite e intrattenimento per la massa. Siamo di fronte alla formulazione discorsiva del double-coding, della doppia finalità, che implica il coinvolgimento del lettore colto come del lettore medio, dotato di competenza non specialistica; un artificio di struttura che Barth vede realizzato mirabilmente in Cent’anni di solitudine di Garcia Màrquez (1967), e nelle Cosmicomiche calviniane (1965), «i cui materiali sono moderni quanto la nuova cosmologia e antichi quanto il folclore». La crisi del modernismo, dei suoi presupposti esoterici e squisitamente borghesi, precede insomma e non di poco i nuovi entusiasmi affabulativi: l’esaurimento del ciclo avanguardista libera sì energie all’indirizzo di una più smaliziata figuratività, ma non prima che dell’alto moderno entri in un cono d’ombra la stessa vulgata critica che gli è stata nutrice.
In qualche misura diverso si presenta il caso italiano. Il convegno dedicato dagli esponenti del Gruppo 63 al romanzo sperimentale, convegno tenutosi a Palermo, nel 1965, risente fuor di dubbio del nouveau roman francese e delle riflessioni di Robbe-Grillet, ma non senza che taluno – segnatamente Eco – non avverta il rischio di manierismo a cui si stanno esponendo le nuove avanguardie di mezzo secolo. Forse non ignaro del fiedleriano The Death of Avant-Garde, datato 1964, il teorico dell’opera aperta non si perita di annunciare che Vautre, letterariamente inteso, si sta facendo mème che lo straniamento linguistico portato alle estreme conseguenze ha ormai costituito un orizzonte d’attesa pronto a venire volgarizzato nelle antologie scolastiche. Nell’imporsi pervasivo della civiltà urbana di massa e dei suoi prodotti culturali – dichiara Eco – «sarà possibile trovare elementi di rottura e di contestazione in opere che apparentemente si prestano a un facile consumo ed accorgersi al contrario che certe opere, che appaiono come provocatorie e che fanno ancora saltare sulla sedia il pubblico, non contestano nulla». La cognizione di una svolta nei modi di concepire il lavoro letterario è a tutta vista precoce: da noi apice attivistico della neoavanguardia e apertura neonarrativa praticamente coincidono, germinano in un medesimo milieu. Ma ci vuole un altro quindicennio prima che il postmodernismo romanzesco raggiunga il centro della scena nazionale: oltre a un adattamento autoctono del dibattito statunitense, necessita la presenza corposa di due capisaldi della nuova voga narrativa come Se una notte d’inverno un viaggiatore (1979) e Il nome della rosa (1980). Nel primo caso il dialogo a distanza con Borges appare evidente, c’è spirito di emulazione, di omaggio secolarizzato; nel secondo sembra prevalere un sentimento polemico, che fa di Jorge, il truce custode della biblioteca abbaziale, la perfida controfigura dello scrittore argentino. In ogni caso Borges c’è, ineludibile, e insieme con lui si rendono palesi cospicui innesti di cultura francese antica e recente: tradizione ottocentesca del feuilleton, strutturalismo, una certa idea di letteratura potenziale, così come concepita dall’Oulipo di Le Lionnais, Queneau e Perec.
Le due opere, invero, non sembrano affatto contraddire l’assiologia modernistica del nuovo; non denunciano nostalgie passatiste, né si limitano a battere l’accento sul concetto di leggibilità a scapito di una ormai logora écriture. L’effetto straniante, la ricerca di effetti inusitati si sposta con evidenza dal linguaggio alla trama. Ciò che ne nasce è un ordito impreveduto, intellettualmente scaltro, che si appella all’io lettore evocandone in modo compiaciuto la condizione di uomo multiculturale, in viaggio tra codici disparati e sempre più disposto a rifondere in una comune esperienza livelli alti e bassi del sistema, high e low literature. Di un tale intento strategico vi è traccia ineludibile nella pubblicistica critica degli anni ottanta, tuttavia viene da domandarsi quale fortuna abbia avuto, qui, tra gli scrittori italiani, la lezione di Eco e di Calvino. A distanza di un ventennio e oltre, quali sono i nipoti, gli eredi originali?
A ben guardare, già Rimini di Tondelli (1985) – per non dire Terra! di Stefano Benni (1983) – testimoniano di una volontà cosmopolita e filostatunitense che prendendo a modello Dick, Vonnegut, Nathanael West, quasi ignora i maestri del postmodernismo nostrano. Rimini in particolare sembra deporre la componente intellettualistica che stava alla base degli archetipi nostrani: via il gioco narcisistico dei riconoscimenti, via il citazionismo parodico. Ad avere rilevanza strategica è ancora il conglomerato multigenere, l’ibridismo funzionale e il dosaggio delle tipologie romanzesche; si attenua però l’impulso metaletterario e con esso il commercio scherzoso con i reperti narrativi. L’evoluzione è tanto più evidente se ci spostiamo in avanti, campionando romanzi come Q di Luther Blissett (1999) e Un amore dell’altro mondo di Tommaso Pincio (2002), opere indubbiamente composite e di gusto postmodernista, eppure lontane dall’ideale parodico-enciclopedico delle origini. Nel corso di un ventennio circa, il romanzo postmodernista italiano sembra essere andato incontro a una sorta di normalizzazione: da poetica iperconsapevole a disposizione di un pubblico allargato, si fa neonarrativa per un pubblico di massa, senza più intertestualità ironica e double coding. La ripresa intellettualistica e metaletteraria dei generi narrativi, in quanto scritture di secondo grado, finzioni di finzioni, non è in quest’ottica se non un primo gradino che conduce a un recupero ad ampio spettro dei generi tout court: e meglio ancora di alcuni a preferenza di altri, secondo una nuova e più impreveduta geografia della narratività editorialmente divulgata.
E qui che può venire utile la seconda linea d’indagine intorno a ciò che chiamiamo postmoderno, ed è qui che occorre rivolgersi a Fiedler. Quanto egli osserva, è che i nuovi romanzieri stanno volgendosi sempre più massicciamente ai generi di massa («pop-forms»). Non tanto il poliziesco, ormai assunto senza residui ai livelli medi del sistema, quanto i generi «più implicati nello sfruttamento mass-mediatico, vale a dire il western, la fantascienza, la pornografia»; ad esempio Il piccolo grande uomo di Thomas Berger, Ghiaccio nove di Vonnegut, Lamento di Portnoy di Philip Roth. Tale la situazione statunitense diagnosticata nel saggio Cross The Border – Close The Gap, del 1969: «ma – prosegue Fiedler – volgere l’Arte d’élite nel vaudeville e nel burlesco nel momento stesso in cui la cultura di massa viene introdotta senza reverenza nel museo e nelle biblioteche è un atto che ha implicazioni estetiche non meno che politiche: un atto che abbatte insieme le barriere di classe come gli ostacoli generazionali». Per lo studioso nordamericano, il postmodernismo ribalta i processi tipici della cultura alto moderna trasmessa nelle accademie; esso fornisce alle nuove leve studentesche un modello culturale seducente, attualistico, che induce taluni critici ad abbandonare il proprio status elitario, proiettandoli in una dimensione libertaria e antinomica che più che inorgoglirli li terrorizza. Niente rimane più com’era, giacché «il postmoderno implica il superamento della barriera tra critica e pubblico, se per critica si intende i maestri del gusto e per pubblico i lettori consenzienti. Ma più di tutto, esso implica il superamento della barriera tra artista e fruitore, o in ogni modo tra professionista e dilettante nel campo dell’arte».
Tradotta nello scenario italiano, quest’ultima annotazione viene particolarmente opportuna. Basti pensare senza veli snobistici al largo successo di vendite conseguito da narratori come Giorgio Faletti, Marco Buticchi, Tullio Avoledo: uno show-man televisivo, un ricco ereditiere già imprenditore balneare, un bancario con competenze legali. E d’altra parte non è possibile non constatare il dispiegarsi abnorme sulla ribalta nazionale del giallo, genere middlebrow per l’osservatore statunitense degli anni sessanta, ma esplosivamente postmoderno in una situazione più conservativa come quella nostrana: sorta di pimento editoriale che insaporisce il sempiterno romanzo storico così come il romanzo di costume, il rosa con detection come la fantasy cruenta. Si aggiunga poi il noir, magari rivisitato alla luce del pulp, e ancora si valuti l’incidenza del comico cabarettistico, delle saghe familiari di latitudine televisiva, dei temi apocalittici, del western (Valerio Evangelisti di Black flag). Nei debiti rapporti, sono queste le pop-forms che isolatamente o in chimismi multipli si fanno largo tra i generi più tradizionalmente consoni alla modernità romanzesca borghese come il romanzo di formazione, il romanzo sociale, il resoconto psicologico. E se questo è un effetto di postmoderno letterario, ha più di un motivo Fiedler per sottolinearne le scaturigini statunitensi. Già nel 1955 in The Middle Against Both Ends – osservava polemicamente: ciò con cui abbiamo a che fare è «un fenomeno peculiarmente americano, è il risultato inaspettato di uno sforzo, non solo teso ad estendere universalmente l’alfabetizzazione culturale, ma a delegare i giudizi di gusto alla moltitudine in forma di suffragio maggioritario. Non intendo dire, naturalmente, che un tale fenomeno è reperibile soltanto negli Stati Uniti, ma che ovunque esso sorga, si sviluppa prima presso di noi. La nostra esperienza, in questo senso, è una prefigurazione di ciò che deve seguire nel resto del mondo dopo l’inevitabile dissoluzione delle più antiche culture aristocratiche». E con maggior empito declamatorio: «dichiararsi contrari all’americanizzazione della cultura è di scarsissimo significato, a meno di collocarsi risolutamente contro l’industrializzazione e l’educazione di massa».
Delineato in tal modo, è ben vero che il postmodernismo sembra risolversi senza residui in un’idea molto statunitense di pop culture’, d’altronde se nel 1955 Fiedler non usava ancora il termine in oggetto, se non indicava uno stato di ulteriorità drastica, intuiva però una condizione di post-alfabetizzazione letteraria («post-literacy»), in quanto crisi delle forme artistiche un tempo deputate a perpetrare una scissura di classe all’interno di una compagine latamente ma progressivamente egualitaria. Anche giunti a questi termini estremi, occorre dire che il postmodernismo non induce affatto una svolta epocale sulla scena delle società borghesemente mature: riassorbimento dei particolarismi culturali e uniformazione dei costumi sono inscritti profondamente nel codice della modernità. Si tratta se mai di valutare l’intensità del fenomeno, la radicalizzazione dei processi inclusivi determinatasi a partire dal secondo dopoguerra; ma con due precisazioni fondamentali, tuttavia, che Fiedler illustrerà in anni a noi più vicini What was Letterature?, 1982). Da un lato il carattere meticcio delle proposte postmoderne, e particolarmente americane: «gli americani hanno un forte vantaggio rispetto a culture più omogenee come quella francese. Sin dagli ultimi decenni dell’Ottocento, i nostri sono stati una comunità etnicamente varia in cui nessun “dialetto” singolo ha potuto conservare la propria preminenza tra tutti gli altri». Dall’altro la rifrantumazione e settorializzazione che la nuova temperie culturale induce presso i lettori: «ciò che è successo negli ultimi due decenni, in ogni caso, è che il pubblico di massa non è cresciuto in rapporto stretto con l’élite tradizionale, ma si è ulteriormente suddiviso in se stesso, vale a dire, si è progressivamente atomizzato almeno quanto le forme della pop fiction sono divenute via via più varie e idiosincratiche».
Omogeneità, cosmopolitismo genetico insomma, ma in una persistente articolazione di accenti linguistici e di scelte. Non è poco, per un critico che sul finire degli anni sessanta perorava l’abbattimento delle barriere culturali e il convergere di produzione alta e bassa in un unico contenitore democraticamente condiviso. Nella visione fiedleriana, in ogni caso, quanto rimane ben saldo è l’interscambio ormai congenito, strutturale, che nel pieno della crisi elitario-modernista si compie tra i linguaggi e i media espressivi. La produzione libraria, istituzionalmente tramandata, non esaurisce ormai se non in minima parte il bisogno diffuso di narratività: per non apparire residuale, particolarmente nei confronti del pubblico giovane, essa deve pertanto ibridarsi con i nuovi linguaggi iconici ed elettronici, deve mediatizzarsi. Ed è questa una condizione di postmodernismo maturo che, da noi, sono i piccoli editori di area romana a portare ad evidenza incontestabile. Non si tratta solo del catalogo multi-mediale di una costola einaudiana come «Stile libero», in cui convivono volumi a stampa, videocassette, DVD, cd rom, e in cui il cinema si mescola col romanzo, con le canzoni, con i fumetti d’autore, con i cult televisivi. E anche la proposta di Minimum fax, che alla serie «Struffoli», dedicata a fumettisti-vignettisti, alterna volumi di Ferlinghetti, Bukowski, Carver; alla collana «Cinema» (testi di von Trier, Mamet, Scorsese) fa seguire le proposte di «Musica», con scritti a nome di Suzanne Vega, Lou Reed, Léonard Cohen. E infine un editore come Fanucci, che nel sito web, alla voce fantascienza, osserva: «Oggi, all’inizio del terzo millennio, si può affermare che la fantascienza si è in qualche modo compiuta: le sue intuizioni si sono travasate in altre forme espressive, in altri contesti, in linguaggi diversi, influenzando e contaminando ogni aspetto della realtà contemporanea». E così, accanto ai classici romanzeschi del genere stanno serie come Star Trek, Bookmovie, X-Files.
Le cose sono andate in questo modo, e in questo modo promettono di rimanere a lungo. Noi non stiamo vivendo gli ultimi scampoli di postmodernismo letterario, né fruiamo dei narratori americani degli anni sessanta e settanta come mero effetto di vintage, di (post)modernariato a disposizione di una ristretta cerchia di nostalgici: ciò che sperimentiamo quotidianamente è la pienezza del postmoderno. Da intendersi come assetto complessivo del sistema, come orizzonte di produzione e ricezione, dialettica di domanda e offerta al di là dell’esoterismo modernista instauratosi tra la fine del XIX e la prima metà del XX secolo. Un esempio nostrano tra i più istruttivi è la fortuna larghissima e persistente che ha arriso a Camilleri. Cosa ci offrono in fondo i suoi romanzi, se non una sintesi arguta tra globalismo americanista e controspinta autoctona? Il giallo fornisce allo scrittore siciliano una forma per buona parte anglosassone, in perfetta sintonia con il gusto mediatico e cosmopolita imperante; ma al contempo, l’esecuzione che egli predilige esalta i tratti indigeni e per così dire neoetnici dell’universo narrato: cura estrema degli usi culinari, espressionismo dialettale, bozzettismo neoverista. La pienezza del postmoderno, non è un mistero, comporta un duplice volto: la coscienza di un regime culturale tendenzialmente uniforme – romanzi gialli se ne scrivono ormai anche in Egitto, in Marocco -, cui si assomma un tocco giusto e distintivo di genio locale, di folclore, di esotismo irriducibile. Che è quanto dire aspetti di koinè entro un più diffuso esperanto letterario.