Gioventù globale

Non si tratta più di segnalare l’unicum di un «esordio folgorante»: quella degli scrittori non ancora ventenni sta diventando una categoria sempre più numerosa. E anche se i suoi componenti sono lontani per collocazione geografica e scelte stilistiche, sentono di riconoscersi come appartenenti alla stessa comunità giovanile. Figli della globalizzazione dei gusti e delle mode, i nuovi autori adolescenti consegnano così a scritture veloci e ritmate come un video musicale storie di ordinaria e straordinaria inesperienza, nelle quali i coetanei di tutto il mondo possono riconoscersi.
 
«Veniamo influenzati, alimentati, emozionati dalle stesse cose, nello stesso tempo. In questo momento tutti consumiamo molti video musicali. Credo, insomma, che per i giovani non esistano più i confini nazionali».
Era l’autunno del 1994 quando, in un’intervista, Banana Yoshimoto rifletteva sul consumo culturale dei giovani giapponesi, non troppo dissimile, ormai, da quello dei ragazzi dei tanti paesi industrializzati del mondo. Da qualche anno, da quando era uscito Kitchen, il romanzo che l’aveva fatta conoscere come la portavoce della gioventù che cresceva nel villaggio globale, era lei il nuovo Salinger, con tutti i distinguo e i cambiamenti che il tempo aveva portato con sé: era una donna, scriveva dall’Oriente tecnologico e, soprattutto, non sentiva più alcun bisogno edipico di scagliarsi contro i genitori e la propria tradizione letteraria, «tutte quelle baggianate alla David Copperfield» al cui indirizzo ringhiava, invece, Il giovane Holden (1951) diventato, nel frattempo, prima il simbolo della gioventù arrabbiata americana e poi addirittura un marchio, o brand, come direbbero gli uomini del marketing, non solo editoriale.
Per Banana, nom de piume efficace come uno spot pubblicitario e insieme omaggio a un grande poeta della più alta tradizione nipponica, i conflitti tra le generazioni si erano spenti, così come era «naturale», privo di rivendicazioni, mutuare il linguaggio narrativo da quello, più essenziale, dei fumetti, i manga. Globalizzazione e postmodernità – nel senso dell’intreccio delle tradizioni – erano già maturi se scorrevano come cromosomi nell’inchiostro delle nuove scritture. Quanto ai temi, l’aborrita famiglia salingeriana era diventata l’oggetto quasi sconosciuto di un desiderio impossibile di protezione, regressione, primarietà domestica che trovava nella «cucina» il luogo simbolico ideale. Istinti, pulsioni semplici che Banana Yoshimoto sembra aver perseguito anche nella maturità, come avverte il titolo della sua ultima raccolta di racconti: Il corpo sa tutto. Fin dai suoi esordi, raccontava di una famiglia perduta e di ruoli sempre più confusi; insieme ai sessi, l’identità delle nuove generazioni vacillava, disperdendo ogni rabbia nella malinconia, nel ripiegamento, nella depressione, in un diffuso senso di morte che la società giapponese era costretta a constatare ancor più concretamente nei tanti suicidi di adolescenti che si registravano in quei tardi anni ottanta. Insomma, la letteratura si rivelava anche un buon termometro delle antropologie in trasformazione. I giovani lettori mondiali si identificarono in quei personaggi ripiegati e confusi, melanconici e vagolanti nel nulla. Il successo della Yoshimoto fu globale.
E da collocare proprio intorno a quella data l’apertura della caccia al giovane, spesso giovanissimo scrittore, da parte dell’industria editoriale. Battute che negli ultimi tempi hanno visto abbassarsi esponenzialmente l’età dei protagonisti. Giovani, sempre più giovani, sedotti dal sogno di diventare scrittori e da alcuni modelli il cui successo è stato planetario. Come quello di Harry Potter, per esempio, che ha indotto a cimentarsi nel genere fantasy scrittori di non oltre quindici anni. Come Christopher Paolini, autore di Eragon, romanzo di iniziazione (dapprima stampato a proprie spese dai genitori del ragazzo, poi casualmente scoperto dal mercato americano, Hollywood compreso), costellato di spade magiche, pietre filosofali e cantastorie buoni; o come la parigina Flavia Bujor che ne Le tre pietre ha fatto affrontare un mondo irreale e abitato dal Male alle sue tre protagoniste – Giada, Opale e Ambra -, regalando a ciascuna il solo conforto di una pietra che hanno ricevuto in dono, corrispondente ai loro nomi. Come dire, ragazzina conta solo sulle tue forze per affrontare la vita. Magari portandoti appresso Il signore degli anelli di Tolkien e La storia infinita di Ende.
Anche in Italia è comparsa una scrittrice quindicenne, Randa Ghazy, la cui scrittura è più realistica, mentre la sua formazione è all’insegna dell’intreccio delle culture. Egiziana di origine ma abitante a Saronno, Randa si è confrontata con uno degli scenari più scottanti della contemporaneità e ha scritto Sognando Palestina, libro sull’amore, l’amicizia e la guerra, sbarcato nell’editoria dopo essere stato presentato a un concorso letterario, segno quest’ultimo che le nuove generazioni conoscono i canali per emergere e non si peritano a utilizzarli. E sempre più forte, e più scaltro, il bisogno di esprimere le loro inquietudini, sia che insorgano per esperienza diretta o mediata.
Già, l’esperienza: è quasi inevitabile che la «vita vissuta» sia una delle fonti principali delle narrazioni giovanili – l’altra sono i bestseller, si direbbe -, là dove il filtro della fiction è labile, l’io è il punto di vista privilegiato e la prima prova è spesso un romanzo di formazione. Un bel paradosso a pensarci bene, data la poca e confusa esperienza di vita che si possiede a vent’anni. Ma, ce ne rendiamo conto, quest’ultima considerazione esula dal tema.
A leggere, inevitabilmente in modo frammentario, i giovani narratori stranieri che rappresentano la propria età, ci pare che sia proprio questo il dato emergente: scrivono al presente, in presa diretta sulla quotidianità, e raccontano, spesso privilegiando la forma diaristica, appunto, il modo in cui esperiscono il mondo che li circonda. E se il tempo è declinato al passato, si tratta di passato prossimo, imperfetto, raramente di passato remoto.
Un buon saggio di adolescenze diverse geograficamente, ma in fondo non così dissimili, viene da tre titoli ospitati dalla collana «Stile libero» di Einaudi, luogo editoriale che ha fatto della ricerca e della sperimentazione la propria identità. Si tratta di Scusate se ho quindici anni della (forse) giovanissima americana che si cela sotto lo pseudonimo di Zoe Trope; di Dammi! Song for lovers, opera della ventenne russa Irina Denezkina; e de La mia pelle sporca, testo d’esordio della gallese Rachel Trezise.
Vuole fare la scrittrice, la ragazzina che registra nel suo diario i sogni di una quindicenne americana, più o meno qualsiasi. Il cellulare è una sua protesi, il ponte levatoio sul mondo, quello del supermercato, della scuola; ma Zoe guarda con inconsueta maturità e distacco i suoi coetanei, troppo scioccamente trasgressivi. Lei ha ambizioni di successo anche se è già consapevole, e lo sottolinea con ironia, che alcuni minuti di celebrità sono concessi a chiunque. Si disperde fra gli amici che sono la sua vera geografia, ama indistintamente maschi e femmine, compie giochi sadici sul suo corpo e cerca la poesia ovunque. La sua scrittura è sintetica, velocissima, uno dei suoi eroi è Bukowski.
E stato fatto il nome di Salinger – forse con qualche generosità soverchia – per la giovane russa Denezkina che racconta le spericolatezze dei coetanei, la droga, il sesso, l’alcol, insomma tutto il repertorio che accompagna la visione di una gioventù trasgressiva, disperata e romantica, come vuole lo stereotipo giovanilistico; e quello russo, peraltro. Unica nota drammaticamente attuale, l’eco della guerra in Cecenia.
Il terzo «libro-verità», quello di Rachel Trezise, ci è parso più meditato, maturo, e più autenticamente duro, meno manieristico. Lo scenario è quello dell’area mineraria del Galles meridionale, messa in ginocchio alla metà degli anni ottanta dalla chiusura delle miniere e da un tasso di disoccupazione di oltre il sessanta percento. Su questo fondale di disperazione si innesta il tema centrale della narrazione: la violenza subita a opera del patrigno da parte dell’io narrante quand’era adolescente. Curiosamente, anche per questo personaggio la salvezza impossibile, o un rifugio vagamente confortante, è rintracciata nella letteratura e nella scrittura. Ma è il nodo centrale della violenza familiare il motore del libro, e il motivo autocolpevolizzante del titolo.
La sfera di una psicologia giovanile fragile, quando non sia addirittura disturbata, e dei sintomi estremi che ne derivano, è privilegiata anche dal tedesco Benjamin Lebert, esordiente a sedici anni e alla sua seconda prova narrativa, in un romanzo il cui tono è decisamente triste, laconico. Si tratta di L’ultimo treno della notte, racconto di un viaggio fatto insieme da due giovani. Solo uno parla, l’io narrante tace e ascolta, forse a indicare che la comunicazione emotiva è difficile, quasi impossibile, anche fra coetanei. Mentre scorre un paesaggio buio e spettrale, emergono due drammi della gioventù contemporanea: bulimia e anoressia, segnali di disagio e di autodistruzione che riguardano, primariamente direbbe Banana Yoshimoto, il corpo e il cibo.
Ma le inquietudini individuali e profonde non sono l’unica dimensione attraversata dai giovani narratori. In una posizione quasi simmetrica si potrebbe collocare il funambolico romanzo dell’americano Jonathan Safran Foer, Ogni cosa è illuminata, che invece privilegia il registro comico-ironico ed esperisce la dimensione della Storia, romanzo familiare, o saga ebraica, in cui il personaggio privilegiato è un nonno che accusa una eloquente cecità psicosomatica (come se non volesse più guardare il mondo dopo le ferite che gli ha inferto la Storia medesima). Nel passato del vecchio, nella lontana Ucraina, all’altro capo del mondo, c’è una donna che lo ha salvato dai nazisti; ed è alla sua ricerca che si mette il giovane nipote, alter ego del narratore in veste di personaggio, in un viaggio di memoria e ricostruzione, sino al paesino russo ricostituito nella sua storia fin dal Settecento. I piani temporali si intersecano, insieme alle culture e ai registri stilistici, producendo un romanzo piuttosto elaborato e costruito. Ma il giovane Foer ha già compiuto venticinque anni, e l’io autoriale si sta trasfigurando, quasi per celia, in personaggio romanzesco. L’adolescenza sta per finire. E per fortuna sta già facendo i conti con il passato.