I cannibali non mordono più

Anche se l’espressione «cannibale» non è una categoria critica rigorosa, tuttavia essa ci aiuta a cogliere un fenomeno letterario vasto e diffuso, e la presenza in moltissimi scrittori di tratti comuni: a partire da una marcata volontà di trasgressione, espressa soprattutto con la rappresentazione esasperata del sesso e della violenza. Colpisce però anche che, da un po’ di tempo a questa parte, alcuni fra i migliori degli scrittori «cannibali» abbiano pubblicato libri un po’ tutti deludenti. Al di là dei risultati estetici, sembra smarrita quella che era la loro originaria carica di provocazione.
 
Indubbiamente il termine «cannibale» non è una categoria critica rigorosa, ed è anche un’espressione di cui si è spesso abusato. Ma resta comunque la sensazione che, nell’ultimo decennio o giù di lì, si sia comunque costituita una galassia narrativa di temi e forme, nettamente marcata in senso generazionale, cioè giovanile, che il termine «cannibale» aiuta a cogliere, sia pure con qualche approssimazione. Anche se sarebbe forse esagerato parlare di una vera e propria «linea», sarebbe probabilmente altrettanto imprudente negare l’esistenza del fenomeno, di un orientamento diffuso, almeno sul medio periodo, con coordinate non solo percepibili, ma spesso dichiarate. Basti pensare ai vistosi tratti «cannibalistici» presenti in non poche delle antologie che hanno fatto seguito a quella «storica» curata da Daniele Brolli. Un’antologia di genere come Città violenta, a cura di Andrea Carlo Cappi, era certo, per così dire, organica al movimento, tanto che nei suoi diciotto racconti noir ritroviamo vari autori di Gioventù cannibale (Matteo Curtoni, Stefano Massaron, Andrea G. Pinketts): e non dimentichiamo che Brolli additava come minimo comune denominatore del gruppo il «prevalere semplice e originario del sangue». Ma, per esempio, la recente antologia Gli intemperanti, che raccoglie racconti di diciotto autori nati tra il 1974 e il 1978, di personalità e spessore artistico abbastanza diversificati, pur proponendosi di inventare una qualche linea nuova e di opporsi proprio alla voga dei cannibali, appare lontana dal conseguire il suo intento: tra l’altro curiosamente posto sotto un’etichetta che pare ripresa da Tiziano Scarpa {Alfabeto e intemperanze è il sottotitolo di Cose questo fracasso?). Allargando il tiro, davvero gli scrittori che possono persuasivamente essere accostati ai cannibali in senso stretto sono moltissimi: Niccolò Ammaniti, Silvia Ballestra, Luisa Brancaccio, Enrico Brizzi, Marco Broggi, Giuseppe Culicchia, Sandrone Dazieri, Beatrice Ferretti, Matteo Galiazzo, Silvia Magi, Lorenzo Marzaduri, Stefano Massaron, Paolo Nori, Aldo Nove, Sandro Ossola, Andrea G. Pinketts, Isabella Santacroce, Tiziano Scarpa, Elena Stancanelli, Alda Teodorani. Ma l’elenco potrebbe essere ben più ampio.
Proviamo a rimettere a fuoco la questione. Anzitutto, il cannibale non ha un’identità geografica precisa, anche se sono più numerosi gli autori settentrionali, cui si aggiungono, oltre ai romani, robuste diramazioni dalla linea adriatica (romagnola-marchigiana-abruzzese), con precise e storicamente verificabili ascendenze letterario-editoriali: quelle legate a Tondelli e al progetto Under 25, nonché a Massimo Canalini e alla sua valorosa Transeuropa. E chiaro poi che l’identità cannibale, per quanto variegata, si forma a partire da una comune volontà, al tempo stesso di rinnovamento letterario e di provocazione morale. Commetteremmo però un grave errore se cadessimo nell’equivoco (caratteristico dell’interpretazione ultratendenziosa degli ex neoavanguardisti, Barilli e Balestrini in testa) di confondere questi autori con una qualche forma di (neo-neo-)avanguardia, quando invece il loro atteggiamento è riconoscibilmente postavanguardistico. Lo conferma anche il fatto che questi stessi autori si riconoscano, o vadano quanto meno civettando con l’idea di una Pulp Fiction, nell’accezione postmoderna additata dal memorabile film di Quentin Tarantino. Si capisce però bene come mai un po’ tutti (con la calcolata complicità degli editori) abbiano voglia e fretta di presentarsi e vendersi come una nuova avanguardia, o magari, nientemeno, come «la» nuova avanguardia.
Tutti i cannibali e i loro fratelli o cugini sono poi per programma attenti ai gerghi e ai linguaggi diffusi nella vita quotidiana: sia pure con intenzioni che, pur non essendo avanguardistiche, sarebbe sbagliato ritenere semplicemente mimetiche. D’altra parte la loro letteratura mostra una diffusa tendenza alla citazione, che in qualche caso può diventare tensione metaletteraria. Inoltre, il loro citazionismo mescola programmaticamente i più diversi mezzi di comunicazione: letteratura, saggistica, non-fiction, cinema, televisione, musica, in una sorta di ironico agone con i media caldi. Soprattutto però il cannibale si distingue per l’insistenza metodica (ai limiti della maniera) sulla rappresentazione del sesso e della violenza. Non basta: il sesso e la violenza vengono non soltanto esibiti, ma esasperati e nella maggior parte dei casi anche comicizzati. E dunque, il sesso ostenta esplicitezze iperpornografiche, con largo fluire di umori corporali, e la violenza, a maggior ragione, viene regolarmente condita di particolari efferati, mutilazioni, sventramenti, e ancor più abbondante scorrere di sangue e, a fortiori, di tutti i meno appetitosi umori corporali. Se l’intento di ridere e far ridere quando l’argomento potrebbe e dovrebbe far piangere costituisce certo un connotato forte, già l’esasperazione e l’iperbolizzazione basterebbero a far assumere al sesso e alla violenza connotati drasticamente antipatetici. La trasgressione formale e quella morale sono così solidali non solo nell’intento di scandalizzare, ma, che è un po’ di più, anche di fare in qualche modo opposizione; come afferma Brolli, questi scrittori «si sono chiamati splatterpunk (dove splatter sta per lo schizzo di sangue e punk per la scelta di un antagonismo radicale), e con questo dichiaravano la loro irriducibilità». Il cannibale, in altre parole, deve essere cattivo: altrimenti, tanto per restare nella metafora, non morde.
Non mi soffermerò ora su Fa un po’ male, l’ultima prova di Niccolò Ammaniti, probabilmente il cannibale più talentoso sul piano della mera invenzione narrativa: si tratta infatti di un libro a sei mani molto particolare, dove tre storie di Ammaniti vengono sceneggiate da Daniele Brolli e disegnate da Davide Fabbri. Vorrei invece riflettere un po’ su Tiziano Scarpa, che dei cannibali è il più raffinato (forse l’aggettivo non gli piacerà…), nonché il più avvertito criticamente, e su Aldo Nove, che da sempre finge di essere naif, pur essendo a sua volta coltissimo e consapevole. A essi accosterò un (come chiamarlo?) para-cannibale come Giuseppe Culicchia. Provo un certo disagio nel dichiarare la mia insoddisfazione verso autori fra i più brillanti e dotati delle ultime generazioni: a mio avviso Occhi sulla graticola e Woobinda restano comunque due fra i libri più felici e importanti dell’ultimo decennio italiano di narrativa.
Anche per questo però, a maggior ragione, bisogna chiedersi perché le ultime prove di questi autori sono tutte in varia misura deludenti. Come mai i cannibali più mordenti non mordono più? Non credo che questa diffusa e ben percepibile impasse sia soltanto un incidente, né che si tratti di un problema squisitamente letterario.
Cominciamo con Aldo Nove. Certo in La più grande balena morta della Lombardia non mancano i momenti di efficace comicità e anche di intensa poeticità. Ma l’adozione sistematica di un punto di vista basso, così felicemente caratteristica del miglior Nove, subisce qui una virata poco convincente. Infatti la messa in scena, suggestivamente frammentaria, del Bildungsroman dello scrittore bambino, tutta compressa com’è negli stupori, negli errori, nei miti infantili e anche nelle esperienze dello choc del protagonista, induce comicità, ma anche un’oscillazione poco controllata fra spinte liriche e spinte al bamboleggiamento puro e semplice. C’è una bella differenza tra il far raccontare la storia da narratori tonti, o del tutto deficienti, o ignoranti, o psicolabili, o oligofrenici, o semplicemente violenti, o francamente spregevoli, e così via, come accadeva in Woobinda, e far invece raccontare un narratore scopertamente autobiografico, ancora tutto imbozzolato nella dolce goffaggine della propria teneramente bambinesca ingenuità. I primi infatti inibivano drasticamente qualsiasi possibilità di empatia; il secondo invece suscita un’irresistibile voglia di tenerezza, che fa tutt’uno con la tendenziale immedesimazione del lettore. Risultato: un aumento esponenziale proprio di quel tasso di patetismo che era viceversa incompatibile a priori con le strutture trascendentali del cannibalismo letterario. Forse questi squilibri formali-emotivi sono cercati: ma il risultato non mi pare convincente. Analogamente, la mescolanza di cronaca e di assurdo, a sua volta costruita in funzione della mimesi del punto di vista infantile, in più di un’occasione scivola verso un abuso un po’ meccanico del pazzesco o dell’apocalittico.
Sempre Nove ha pubblicato anche (come, guarda caso, già Scarpa…) una specie di guida turistica: certo Milano non è Milano è una guida atipica, e anzi per molti aspetti, del tutto dichiaratamente, non è affatto una guida. Non mi metterò perciò a rimproverare i (non infrequenti) errori, le imprecisioni informative: faccio conto che non possano essere usati come metro di giudizio. E vero però che essi contribuiscono a dare la sgradevole sensazione che il libro sia stato scritto, come si suol dire, con la mano sinistra, e un po’ di fretta. Eppure la quarta di copertina lo presenta senz’altro, con sintetica ma non per questo meno percepibile enfasi, come una «guida d’autore». Siamo di fronte, è chiaro, a una scrittura su commissione. Fin qui, niente di male, ci mancherebbe: io stesso confesso sereno di avere scritto su commissione la maggioranza dei miei libri. Qui accade però molto di più: accade cioè che una scrittura non solo di non-fiction, ma di tipo funzionale come la guida turistica faccia flagrante impiego del prestigio dello scrittore per conferirsi una speciale autorevolezza, e quasi una specie di extraterritorialità rispetto al giudizio critico. In fondo, una «guida d’autore» pretende di non essere giudicata, anche se ha molte colpe, in nome della letteratura: un po’ come accadeva una volta con i mariuoli che si rifugiavano in chiesa. La premessa infatti, del tutto esplicita, è che a una guida di questo genere non si può chiedere né la completezza né la precisione della guida strido sensu, ma si deve chiedere «qualcos’altro»: valore estetico, estrosità, intelligenza. In altre parole: proprio quel valore aggiunto che tradizionalmente si riteneva, ed evidentemente un po’ si ritiene ancora, il naturale privilegio della buona intellettualità umanistica. Alla faccia del cannibalismo.
Un po’ più cattivo sembrerebbe essere restato, in prima approssimazione, Tiziano Scarpa: ma non più di tanto, e, soprattutto, senza ricavarne un gran profitto. Mi dispiace molto dirlo, ma un libro come Kamikaze d’Occidente non punge né diverte, e bisogna proprio imporsi uno sforzo di etica professionale per leggerlo fino in fondo. In un’appassionata (e però più che perplessa) recensione radiofonica, Filippo La Porta ebbe comprensivamente a parlare della vocazione enciclopedica e insieme scatologica di Scarpa. Al che l’autore, pur grato, si ribellò giustamente: ricordando che nel suo romanzo non si parla di cacca, bensì di sperma. In effetti, Kamikaze d’Occidente è una gigantesca continuata apoteosi narrativa dello sperma, cui Scarpa sostiene di dover restituire credito contro l’autolesionismo del pubblico maschile. Sarà! Per conto mio, non avevo mai percepito questo tipo di esigenze; anzi ho sempre avuto un’opinione assai positiva del liquido seminale, figlio del piacere e padre della vita. Leitmotiv a parte, Kamikaze d’Occidente è costruito a partire da un pretesto narrativo molto esile e poco convincente, e anche molto poco sviluppato dall’autore: la storia, da cui il titolo, del faustiano o mefistofelico contratto di uno scrittore con i servizi segreti cinesi, che lo pagano per sputtanare l’Occidente raccontandolo così com’è. Su questo asse, invero assai fragile, s’innesta un intreccio, programmaticamente rapsodico, da un lato di «Schede», cioè di riflessioni culturali e di costume spesso acute, sempre paradossali, spinte regolarmente ai confini del barocchismo più esibito («è del poeta il fin la meraviglia»…), e dall’altro lato (soprattutto) un’interminabile schidionata di episodi erotici, legati alla seconda professione del narratore e protagonista: quella di stallone a pagamento, per signore che più o meno se lo possono permettere. Ho trovato molto apprezzabili le intense sfumature di risentimento sociale che percorrono il libro e la «carriera» sessuale del personaggio. Però la ripetitività della storia, con la sua pervicace insistenza su particolari anonimi della vita quotidiana, è sfiancante. Anche l’implacabile bastiancontrarismo intellettuale del protagonista, certo vicino a quello dell’autore, è talmente implacabile da far qua e là desiderare che (per favore!) almeno una volta questo straordinario anticonformista possa distrarsi e cadere, come vivaddio capita a tutti, nelle volgari secche del luogo comune. Non è che Scarpa ha deciso di diventare l’Aldo Busi degli eterosessuali? Speriamo di no. Fatto sta che, a ben guardare, c’è un luogo comune che Kamikaze d’Occidente lascia insistentemente balenare: ed è proprio quello dello scrittore che, in quanto scrittore, si sente portatore privilegiato di originalità, intelligenza e profondità.
Le cose non vanno meglio con l’ultima prova di Scarpa, Corpo, che nasce a sua volta come scrittura su commissione. Corpo affronta, in cinquanta capitoletti dedicati ad altrettante parti del corpo dell’autore, un singolare, consapevole e autoironico tour de force di non-fiction egocentrica, rimescolando con ammirevole sapienza la nobile arte della descrizione e un metaforismo incessante, certo a corso forzoso, ma non per questo meno ricco di invenzioni singolari. Questa spudorata e del tutto dichiarata apoteosi dell’io viene semmai un pochino corretta dalla scelta di dedicarsi sistematicamente alla corporeità, inclusi i più sordidi recessi del bachtiniano «basso corporeo». I guizzi estrosi e anche francamente divertenti non sono pochi: potrei citare, per esempio, le voci Nervi e Culo. Ma (chiedo perdono per la banalità) un bel gioco dura poco, e difatti la necessità continua di una qualche forma di doping semantico si traduce troppo spesso nell’esibizione di meccanismi implacabilmente iterati: la produzione di serie binarie per similarità o per antitesi; l’autogenesi potenzialmente infinita di strutture seriali; le fantasie numerologiche a schema ricorsivo; la ripresa o la reinvenzione di miti. Fra momenti suggestivi o spassosi, prevalgono quelli di stanchezza, di forzatura senza scampo. Si ha la percezione di una scrittura straordinariamente padrona di sé, e però (o perciò?) costretta in amplificalo senza sosta, iperletteraria e manieristicamente moltiplicata all’infinito, che l’umorismo e la spregiudicata fisicità non riescono a riscattare. Curiosamente, fra l’altro, si reitera qui la struttura dizionaristico-corporale che era servita da falsariga anche per Venezia è un pesce, a sua volta «guida non-guida» d’autore di una città importante: tout se tient, viene da commentare. Eh sì, fin troppo.
A fronte di queste prove contese fra iperletteratura e tentazioni minimalistiche, non si può non riconoscere il coraggio di Culicchia, che in Il paese delle meraviglie si cimenta addirittura con gli anni settanta: a tutt’oggi, il periodo della recente storia italiana meno rappresentato, e meno felicemente, dalla nostra letteratura. Nonostante l’attento montaggio del diario del narratore e protagonista, Attila, con spezzoni di giornali del periodo, il romanzo fa però molta fatica a diventare qualcosa di più della vicenda, a tratti divertente, a tratti un po’ scolastica (è il caso di dirlo…), di due compagni di liceo poco disposti ad accettare i vincoli imposti dalle istituzioni e dai loro rappresentanti, sia di destra sia di sinistra. Il linguaggio di Culicchia è colorito, e un buon numero di episodi ha una vivace verve comica. Ma la storia non decolla mai, pencolando fra provocazioni che non provocano e troppo frequenti indulgenze verso il patetico (in particolare, con i personaggi del nonno e della sorella del narratore). Colpisce poi che gli obiettivi polemici siano decisamente di basso profilo, e per di più affetti da una imbarazzante schematizzazione caricaturale: penso soprattutto alla madre del narratore e alla figuretta fumettistica della prof, d’italiano, che ha fatto il Sessantotto e se ne vanta ogni due per tre, ma per il resto è ignorante come una bestia (e infatti si chiama Cavalla). L’aspetto però più sorprendente, e non in positivo, del romanzo di Culicchia, è che il personaggio che meglio esprime le istanze trasgressive è il grande amico del narratore, Franz Zazzi: il quale forse, in fondo in fondo, nonostante la violenza verbale, è un cuor d’oro; ma, nondimeno, è un fascista dichiarato, sia pure con frequenti trasporti verso i trasgressivi di ogni lato e colore. Ora, non credo che si tratti soltanto di un mio rigurgito di moralismo perbenista di sinistra: ma mi pare pressoché impossibile rappresentare la contestazione di sinistra attraverso le bizze di un fascistello, per quanto simpatico. Tanto più che nella rappresentazione non c’è traccia di movimenti collettivi, neanche di destra. Sembra proprio che, fatte salve la buona volontà e l’audacia, a Culicchia sfuggano, e largamente, i termini delle questioni in gioco: qualcosa di simile era capitato a De Carlo, il cui pretenzioso e fallimentare Due di due (Grazia Cherchi lo recensì con una folgorante scheda intitolata Due meno due) rappresentava un Sessantotto tutto chiuso nelle aule di un liceo per sciuretti, stilizzato e perbenino, di penosa inconsistenza. Culicchia è molto più simpatico, e fa bene a cercare di scrivere opere di grandi ambizioni: ma per questa volta l’obiettivo è stato mancato, e non di poco.
Un po’ per tutti questi scrittori sono però certamente in gioco anche imbarazzi generazionali, che sarebbe ingeneroso attribuire solo a limiti individuali, e meramente artistici. Ma forse, soprattutto per Scarpa e Nove, c’è anche un problema editoriale, o se preferite professionale (nella mia rozzezza sarei tentato di definirlo un problema economico): è difficile campare facendo gli scrittori, e lo scrittore che è diventato «una firma» fa tutto il possibile perché il proprio nome e la propria immagine pubblica vivano, si diffondano e rendano. Così, anche lo scrittore cannibale è obbligato a fare il più possibile lo scrittore: e possibilmente molto meno il cannibale. Anche qui niente di male, per carità: tutti dobbiamo campare, e farlo scrivendo letteratura è certo un buonissimo modo. Tanto più che Tirature si fa un (giusto) vanto di affrontare finalmente la letteratura nel complesso intreccio dei contesti materiali in cui si produce e circola, e non soltanto come il frutto di astrazioni intellettuali. Però, banalmente, mi piacerebbe poter tornare a leggere certi autori perché scrivono bei libri, e non soltanto perché il rilievo acquisito dal loro nome obbliga a leggerli, e persino ad analizzarli criticamente. La domanda, a questo punto, potrebbe essere: è possibile fare i cannibali di professione senza imborghesirsi troppo, e senza incagliarsi nello stereotipo dello scrittore? E la risposta potrebbe essere: spero di non avere già risposto alla domanda.