Ragazzi allo schermo

Il cinema italiano racconta i giovani. Giovani registi, giovani protagonisti e giovani spettatori si incontrano nelle immagini di una storia che parla un po’ di tutti loro, in un circuito autoreferenziale rassicurante e sostanzialmente aproblematico. E mentre gli autori trentenni descrivono i loro anni come periodo dello smarrimento esistenziale o della fragilità emotiva, la scelta di ritrarre il tempo dell’impegno, dell’entusiasmo, della lotta sociale e politica resta appannaggio delle generazioni precedenti. Nello scollamento evidente tra il narcisismo nevrotico di Muccino e la dolorosa rilettura della storia operata da Giordana, si fanno notare per forza espressiva e capacità mimetica i lavori degli outsider: Primo amore di Garrone, Dopo mezzanotte di Ferrario e Fame chimica degli esordienti Vari e Bocola.
 
È impossibile non accorgersi del vistoso incremento di pellicole incentrate sull’universo giovanile che ha segnato il recente panorama cinematografico italiano. Dopo almeno un ventennio di stasi, assistiamo in effetti a un ricambio generazionale che ha portato alla ribalta alcuni giovani registi, naturalmente propensi a raccontare i propri coetanei. Certo, niente di paragonabile all’effervescenza di cui dava prova la nostra cinematografia negli anni sessanta, quando Bernardo Bertolucci e Marco Bellocchio esordivano poco più che ventenni, ma neanche a quanto accadeva nel decennio successivo, che vedeva il debutto di un giovanissimo Nanni Moretti. La rinnovata possibilità di espressione giovanile attraverso il cinema è tuttavia un dato di per sé positivo, nonostante gli ostacoli che continuano di fatto a impedire un’adeguata distribuzione nelle sale di più di due terzi dei film prodotti ogni anno nel nostro paese.
In questa prospettiva si spiega forse il riallacciarsi di alcuni recenti progetti cinematografici a fenomeni di ben più lungo corso nell’ambito della carta stampata, dove l’etichetta di «giovani scrittori» risale per lo meno a una ventina di anni fa, con le antologie under 25 curate da Pier Vittorio Tondelli. Non a caso, alcuni film che hanno inaugurato il filone giovanilistico di questi anni ostentano un’esplicita derivazione da prodotti narrativi: penso per esempio a Jack Frusciaste è uscito dal gruppo di Enza Negroni (1996), protagonista un giovane Stefano Accorsi, a Tutti giù per terra di Davide Ferrario (1997), a La guerra degli Antò di Fabio Milani (1999).
Rivolte a un’utenza anagraficamente connotata, tutte queste prove miravano a un effetto di riconoscimento da parte dello spettatore, stimolato a immedesimarsi nell’ambientazione, nei dialoghi ammiccanti al gergo giovanile, nella colonna sonora, e soprattutto invitato a simpatizzare con il tono di sorridente indulgenza verso i giovani protagonisti. Al di là degli esiti differenti – la godibile commedia di Ferrarlo esibisce meriti incomparabilmente maggiori dell’abborracciato film tratto dal romanzo di Brizzi – gli obiettivi sono stati in generale mancati, e il fallimento sancito da uno scarso successo al botteghino.
Chi sembra invece avere davvero intercettato le attese di ampi strati di pubblico giovanile è stato Gabriele Muccino, che con Come te nessuno mai (1999) e soprattutto con L’ultimo bacio (2000) ha offerto rappresentazioni accattivanti di alcuni contesti generazionali nell’Italia odierna. Nel film del 1999, la Bildung di un adolescente (Silvio Muccino) figlio della borghesia intellettuale romana prende corpo attraverso gli incontri canonici con la politica e con l’amore: la riproposizione di una parabola universalmente esemplare si avvalora di un sagace brio narrativo, con esiti gradevolmente convenzionali. Vi si riallaccia esplicitamente il recente Che ne sarà di noi (2003), diretto da Giovanni Veronesi, sempre con Silvio Muccino interprete e collaboratore alla sceneggiatura. Qualche incursione non priva di acume sociologico sul retroterra familiare dei tre protagonisti non vale tuttavia a compensare l’impressione stucchevole di una gioventù vacanziera e sostanzialmente disimpegnata, che si barcamena tra schermaglie amorose e velleitarismi protestatari.
Spostando l’obiettivo sulla generazione dei trentenni, L’ultimo bacio non pare variare di molto l’accurata miscela di schemi consuetudinari e spigliatezza descrittiva propria del cinema di Muccino, se non per una maggiore presenza di sequenze melodrammaticamente enfatiche. Benché anagraficamente più attempati, i personaggi del film appaiono ancora più instabili e velleitari dei loro fratelli minori; si nota semmai, in questi giovani borghesi, un incremento di cupezza narcisistica surrettiziamente presentata come slancio di protesta. La scelta stessa di filtrare la narrazione attraverso il punto di vista del personaggio maschile, funzionale ai meccanismi di immedesimazione, impedisce di fatto qualsiasi criticismo ironico sulla desolante inconsistenza dei caratteri rappresentati, dando vita a una parabola indulgente e assolutoria. Alla fine persino la rappresentazione delle figure parentali, che pure esibiscono una sprovvedutezza clamorosa, abdicando a ogni funzione di esemplarità, è riportata a un facile ecumenismo del buon senso.
L’ammicco alle reali insofferenze di una generazione ispira anche Santa Maradona (2001) di Marco Ponti, faticoso resoconto dei blandi turbamenti di due neolaureati. Ma il ritratto di una gioventù afflitta da abulia e allergica alle responsabilità adulte si risolve nella mimesi di una chiacchiera compiaciuta quanto inconcludente, inficiando peraltro ogni plausibile movimento narrativo. Stenta ad assumere consistenza persino l’esile vicenda sentimentale tra Andrea (Stefano Accorsi) e una giovane donna atteggiata a un’intraprendenza fattiva, che pure avrebbe potuto suggerire rilievi meno stereotipati sui rapporti tra i sessi nelle nuove generazioni.
E del resto significativo, e va rimarcato come elemento non secondario di riflessione, che le rappresentazioni di una gioventù dinamicamente propositiva trovino preferenziale cittadinanza entro la cornice del racconto storico, dove la vicenda è retrodatata nei paraggi sessantotteschi. Così ha fatto Marco Tullio Giordana in La meglio gioventù (2003), coprodotto da Rai Fiction e vincitore a Cannes 2003 della sezione «Un certain regard». Poderosa saga familiare incentrata sulle figure antitetiche di due fratelli attraverso trent’anni di storia italiana, il film ambisce a proporsi come affresco generazionale a tutto campo, intrecciando inquietudini private e sommovimenti collettivi. Non si trattava certo di un’impresa semplice, e nella prima parte del film il resoconto di alcuni momenti di storia pubblica appare in effetti plausibilmente connesso alla parabola vitale dei personaggi. Attraverso le vicende di Nicola (Luigi Lo Cascio), militante di sinistra e psichiatra basagliano, della sua compagna Giulia (Sonia Bergamasco), che sceglierà la lotta armata, e di Matteo (Alessio Boni), tormentato poliziotto, le urgenze e i bisogni di una generazione trovano un’espressione di certo coinvolgente, sebbene a tratti gravata da scelte iconografiche ampollose. Quanto più il racconto si avvicina all’oggi, tuttavia, la costruzione narrativa pare sfrangiarsi: mentre si infittiscono le ellissi temporali, la vicenda oscilla tra la riproposizione in chiave emotiva di alcuni grandi fatti di cronaca ed episodi intimisticamente circoscritti. Si offusca così quella dialettica tra cronologia storica e ciclo vitale che aveva informato l’ordito profondo del progetto: a risentirne è in primo luogo il sistema dei personaggi, che mostra alcune vistose incoerenze dove prima trovava un’articolazione funzionale. Sarebbe ingeneroso vedere nell’ecumenica conclusione del lavoro di Giordana una resa al disimpegno e al ritorno al privato, incongruamente addebitandogli quella che del resto è stata la vicenda storica del paese, ma certo l’ultima scena, dove i personaggi superstiti si riuniscono allegramente in un casale della campagna toscana, pare eludere una risposta alle domande che pure il film aveva saputo suscitare.
Dei giovani di quegli anni parla anche l’ultima fatica di Bernardo Bertolucci, The dreamers (2003), ma la scelta del celebre regista muove da intenti simmetricamente opposti rispetto alla fluviale cronaca di Giordana. Ambientato quasi per intero in un appartamento borghese di Parigi, il film ostentatamente rifugge da una prospettiva di divenire storico per celebrare il momento aureo della giovinezza, calligraficamente fissato nel suo perfetto splendore. Nell’indugio voyeuristico sui bellissimi corpi dei tre protagonisti, condotto con elegante bravura, gli eventi del maggio 1968 si riducono a pura iconografia di sfondo: resta un’elegia, vivida e fascinosa, dell’adolescenza come metafora della massima intensità vitale. Inevitabilmente posticcia appare così la sfocata sequenza finale degli scontri di piazza; del resto poco prima – eloquente artificio narrativo – era stata necessaria la casuale irruzione di un sasso dalla finestra perché i tre ragazzi scendessero in strada, unendosi alla protesta dei coetanei.
Ma a prescindere dalla prova di Bertolucci, esempio sui generis per calibro registico e appartenenza generazionale, è difficile non accorgersi che quando si cimenti con tematiche giovanili il panorama cinematografico italiano rivela sintomatiche carenze di orizzonti e di spessore propositivo. Ciò naturalmente non vuol dire che manchino i tentativi pregevoli, o giovani registi che spendano uno sguardo più apertamente problematico. Si potrebbe così citare una pellicola dichiaratamente militante come Ora o mai più (2003) di Lucio Pellegrini, che prova a tematizzare il ricordo drammatico dei giorni del G8 genovese indagando motivazioni, speranze e sussulti della gioventù cosiddetta antagonista. Un altro caso degno di nota è l’ultimo lavoro di Matteo Garrone, che con Primo amore (2003) ha offerto un’intensa rappresentazione dei rapporti di violenza mentale tra i sessi. L’orafo Vittorio (interpretato dallo scrittore Vitaliano Trevisan) è patologicamente ossessionato dal peso corporeo della sua compagna: a partire da quest’irriducibile conflitto della psiche il film inscena una storia di amore e follia di rara crudeltà, snodandosi su cadenze tanto pacate quanto raggelanti. Contrariamente a quanto accade nei lavori di Muccino, dove l’avallo simpatetico di chi guarda è perseguito con continue strizzate d’occhio e modulazioni affabilmente disimpegnate, qui lo spettatore si accosta alla vicenda attraverso l’imbronciata inflessione veneta di Vittorio, lasciandosi condurre in una lenta discesa agli inferi da questo personaggio sgradevole, ombroso e inquietante. Alle immagini di un Nord-Est laborioso e silente si alternano così i primi piani del corpo smagrito della ragazza protagonista, la cui progressiva scarnificazione orchestra un angosciante gioco di rimandi simbolici con le tecniche di lavorazione dell’oro. Garrone punta a un cinema senza orpelli, evitando con cura ogni facile effetto drammatico: a lungo andare, tuttavia, la soffocante psicosi dei personaggi finisce per bloccare ogni possibile svolgimento narrativo, con una conseguente inevitabile caduta di tensione.
Decisamente più vivace, ma parimenti abile nel coniugare spaccati di realtà sociale e accenti onirici, è poi l’ultimo film di Davide Ferrano, Dopo mezzanotte (2003). L’incontro tra Amanda e Martino (Francesca Inaudi e Giorgio Pasotti), lei in fuga da una squallida quotidianità lavorativa in un fast food, lui eccentrico e solitario custode del Museo del Cinema, si declina sull’opposizione tra una Torino spettrale e degradata e lo spazio fiabesco all’interno della Mole Antonelliana. I polverosi film muti che Martino amorevolmente protegge additano una dimensione dell’esistenza candida e trasognata, così lontana dai fanatismi degli spocchiosi cinéphiles di Bertolucci, e nondimeno in grado di aprire squarci illuminanti sul vissuto collettivo. L’esperimento di Ferrano è peraltro meritorio anche a livello di produzione, trattandosi di un progetto portato avanti con scarsissimi mezzi finanziari. Qualcosa di simile è stato messo a punto da due giovani cineasti, Paolo Vari e Antonio Bocola, che dopo un’esperienza come registi per la trasmissione tv Le iene hanno realizzato Fame chimica (2004) grazie a un modello partecipativo in forma di cooperativa. Il film, interamente girato in un quartiere della periferia milanese, si avvale delle prestazioni di attori non professionisti e a questa scelta deve molta della sua freschezza. Ma coerente all’impostazione di partenza è anche la scelta di affiancare alla consueta voce fuori campo del protagonista un originale controcanto nel commento rap di Luca «Zulu» Persico, componente dei 99 Posse, che compare sulla scena atteggiandosi a moderno corifeo della comunità. Certo, il lavoro risente dell’originaria destinazione come cortometraggio documentaristico, e la storia d’amore dei due protagonisti (i soli due attori di mestiere) appare a tratti strutturalmente sfasata rispetto al contesto di degrado urbano in cui dovrebbe collocarsi. Nondimeno, Fame chimica – per i non addetti ai lavori, così viene detto il senso di appetito che insorge a seguito dell’assunzione di marijuana – sa indagare con lucidità e umorismo le dinamiche sociali che costituiscono la vita di gran parte della popolazione giovanile, così spesso oggetto di mistificazioni e schematismi paternalistici.