Le retoriche antisentimentali

Le scritture sperimentali sembrano soggiacere all’interdetto del registro amoroso proprio della tradizione modernistica. A scanso di indulgere al patetismo e al sentimentalismo, gli autori più impegnati sul fronte della ricerca formale rischiano di escludere senza riserve il pathos e il sentimento dall’orizzonte della rappresentabilità. Di preferenza, da Mari a Moresco, la problematica erotica emerge in combinazione con i moduli grotteschi e paradossali, anche se non manca qualche voce, come quella di Marosia Castaldi, che persegua le malagevoli vie del tragico sublime.
 
La tradizione dello sperimentalismo moderno appare contraddistinta, in larga parte, da formule compositive che sollecitino nel destinatario una lettura critico-ironica, in grado di sorvegliare costantemente il processo della ricezione letteraria durante il suo stesso svolgimento. Da ciò la presenza trasversale che hanno acquisito le componenti comiche, umoristiche e grottesche, anche al di fuori degli ambiti specificamente improntati a tali intonazioni. L’obiettivo consiste nel contrastare le poetiche della seduzione emotiva, le mistificazioni del patetismo a buon mercato, insomma lo spirito conciliante del cuor contento ovvero la purgativa consolazione della catarsi tragica. Vengono così osteggiate la narrativa rosa e le diramazioni del romanzo popolare o neopopolare, e più in generale quelle tendenze della letterarietà la cui efficacia sia fondata anzitutto sulla mozione degli affetti. Ne consegue il ridimensionamento se non il ripudio di un approccio all’evento amoroso poggiante sull’adesione simpatetica alle sorti dei protagonisti. C’è probabilmente un residuo di moralismo nell’escludere dall’orizzonte dell’esperienza estetica l’abbandono passionale, giudicato di per sé disposizione foriera di ottundimento ideologico anziché risorsa ricettiva da mettere a frutto ed esigenza antropologica ineludibile. A ogni modo, importa cogliere la singolare difficoltà in cui si imbattono, a partire da simili presupposti, quegli scrittori che siano impegnati sul fronte della ricerca stilistica più ardua e vogliano al contempo scandagliare la sfera sentimentale. Capita, allora, che la sostanza erotica del racconto non si accampi apertamente, ma sia piuttosto dissimulata, affrontata in termini indiretti o parziali, rifratta nel prisma di materiali narrativi pluristratificati. Le elaborazioni di linguaggio più complesse si prestano bensì a esprimere l’acerbo disagio che accompagna costantemente il vissuto amoroso, ma ancor più costituiscono una sorta di tegumento atto a distanziare ed esorcizzare il suo portato di inquietudine. In particolare, alcune significative prove romanzesche degli ultimi anni inclinano a tematizzare l’amore come epifania del tempo, cioè a raccontarne non come di esperienza in atto, in presa diretta, o comunque passibile di qualche orientamento mediante risorse retoriche: al contrario, come di frustrante persistenza del desiderio, coazione della memoria a discriminare, recriminare, restaurare o riplasmare ciò che fu.
Michele Mari in Rondini sul filo (1999) inscena il monologo di un sedicente innamorato, masochista sino al midollo, che cospira allo sfinimento di sé, della propria compagna, dello stesso linguaggio attorto e spasmodico in cui si assestano le sue ossessioni di gelosia retrospettiva. Il discorso procede all’insegna di un mistilinguismo monotonale imperterrito e di un iperbolismo grottesco, a poco a poco delineando inverosimili contorni autobiografici. Il dotto travaglio espressivo è funzionale a guadagnarsi l’empatia di un uditorio affine, nel quale la sensibilità affettiva sia proporzionale all’elevata competenza letteraria. Mari simula una paratassi concitata d’impronta orale, ove predominano poche ribattute dislocazioni marcate; lo sfarinamento dell’enunciato dovuto all’uso oltranzistico dei puntini di sospensione trova compenso nelle sequenze accumulative ed enumerative. L’impasto dei registri esibisce una dominante letteraria, aulica, latineggiante, a cui si mescolano ingredienti colloquiali, triviali, medico-psichiatrici, dialettali, neologistici. Le coordinate di realtà entro le quali la relazione amorosa prende corpo, al tempo attuale, rimangono sfuocate, così come risultano relativamente sbiadite le reazioni della controparte femminile all’incalzare inquisitorio dello spasimante. A dominare il discorso sono semmai l’erratica e certosina ricognizione degli amori passati di lei, la rassegna dei suoi precedenti fidanzati o compagni o concubini. Il cuore del monologo verte sul rapporto intrattenuto dalla giovane donna, nella prima metà degli anni ottanta, con un affarista romano ultraquarantenne, che si prospetta nell’ottica faziosa dell’io narrante come il concentrato di ogni volgarità e ignoranza. Viene dunque a delinearsi l’antagonismo impossibile tra l’intrallazzatore pariolino, edonista e vanesio da un lato, e l’intellettuale milanese, rigoroso e appassionato dall’altro. Per giunta, l’uno lamenta un grave deficit di prestanza sessuale, volto in insinuante patetismo, mentre l’altro rivendica la parte del macho con la lancia sempre in resta. In effetti non si può non essere d’accordo con l’esagitato Mie, padrone assoluto della parola, rispetto a molte delle sue ragionate idiosincrasie; purtuttavia il fenomenale quoziente intellettivo che egli sbandiera a ripetizione pare assai mal adoperato: non tanto per via dei tormenti labirintici in cui riesce sempre a perdersi da sé, quanto invece per il rinnovato trasporto nei confronti di una donna che tanto si sarebbe abbrutita, a suo dire, da concedersi a una boriosa nullità quale l’innominato affarista N.N. Come può rimanere intatta agli occhi dello scettico e coltissimo Mie la malia promanante da questa «Mazzafirra», se essa indulge a superstizioni new age e old age, dialoga con lo spirito del suo cane morto e soprattutto, vincolandosi a N.N., si è resa colpevole di tante contraddizioni e cadute di gusto? La parte della cretina, di fatto, è assegnata a colei che pure si presenta come fascinosa incarnazione dell’eterno femminino: dapprima pervicacemente incatenata a un rozzo rappresentante del neocapitalismo all’italiana, agli antipodi del suo stile di vita, in seguito, per contro, succube dello stesso io narrante che la sottopone a un tour de force di interrogatori-controinterrogatori-giuramenti. Il romanzo di Mari perviene a radiografare non tanto le complicanze talora gratificanti dell’esistenza a due, quanto la smania ultrasoggettiva di una virilità compiaciutamente egocentrica.
Se Mari opta per un approccio intellettualistico, viceversa Aldo Nove asseconda anche in Amore mio infinito (2000) la propensione dimostrata in altre sue opere per uno sguardo regredito, al confine tra infanzia e idiozia. Ancor più spiazzante si dimostra una prospettiva siffatta, allorché venga assunta per tramite di personaggi ormai lontani dall’età propriamente infantile, seppur forniti di massicce dosi d’ingenuità. Il protagonista-narratore dell’itinerario di educazione sentimentale tracciato da Nove è un giovane neolaureato, Matteo, che tiene a presentarsi anzitutto come venditore perfettamente inserito negli ingranaggi della produzione postfordista. Nonostante i suoi studi filosofici, egli non sembra dotato degli strumenti teorici utili a razionalizzare il proprio spaesamento esistenziale: anzi la precipitevole monotonia della sua voce, quasi deprivata di segni interpuntivi, rispecchia l’opacità dell’alienazione consumistica nella provincia milanese di fine millennio. In veste di produttore e consumatore necessariamente soddisfatto, Matteo rammemora quattro episodi della propria vita coincidenti con altrettante rivelazioni d’amore, quali possono manifestarsi anche nel quadro di saturazione percettiva proprio del capitalismo avanzato. Non si tratta di rapporti sentimentali coltivati, o perlomeno niente è dato sapere sugli eventuali sviluppi di ciascun episodio, salvo il subentrare del successivo: sono quattro momenti, situati in progressione lungo la breve curva biografica del protagonista, nei quali si concretizza l’incontro, e prima ancora l’incantata aspettativa dell’incontro, con la femminilità. Lo stesso carattere episodico della narrazione denuncia tutta la provvisorietà della scoperta amorosa; nondimeno una soluzione di continuità negli automatismi dell’immaginario mercificato sembra possibile. Il linguaggio iterativo, semplificato, forzosamente improprio, pure conosce un’evoluzione dalle incondite figurazioni bambinesche alle più articolate fantasie dell’adulto, custodendo sempre uno straniante barlume lirico. Parrà strano, ma anche in un quadro di rapporti umani apparentemente coatti al consumo, anche nel presunto squallore del McDonald’s di piazza Cordusio, lo strazio e la fatagione dell’innamoramento possono lasciare il segno: con tutta la loro scandalosa elementarità, possono quasi porsi al vertice dell’abissale storia e preistoria collettiva entro cui il personaggio di Nove è a suo modo consapevole di muoversi.
In Si sta facendo sempre più tardi (2001) lo sperimentalismo di Antonio Tabucchi non si applica tanto alle inflessioni stilistiche, alte o basse che siano, bensì alla conformazione strutturale di un genere, quello epistolare, che è per tradizione latore privilegiato della tematica amorosa, in quanto atto statutariamente a formalizzare l’intimo colloquio tra l’io e il tu. Proprio la reciprocità di ruoli tra i corrispondenti elettivi è revocata in dubbio da Tabucchi nell’allineare una serie di lettere, ciascuna di un mittente diverso, alle quali non è data risposta: sono lettere che addirittura recano inscritte nella loro fisionomia testuale la mancanza e l’impossibilità di un contatto con l’altro. L’ultima missiva, l’unica di mano femminile, ribadisce nei suoi tratti di paradossale letterarietà uno stato di separatezza irrevocabile. Privi del contrassegno di data e luogo, senza firma, questi messaggi provengono da un aldilà temporale che si erge come barriera pressoché metafisica tra scrivente e destinatario. Gli epistolografi risultano accomunati, oltre che da una certa tronfiezza snobistica, dalla medesima sprezzatura rispetto a situazioni che dovrebbero ingenerare l’apprensione più intensa. La scrittura tenta di recuperare o se non altro testimoniare una “discronia” che non è solo sfasamento affettivo tra narratore e narratario ma, fantasticamente, vera e propria alterità dimensionale. La condizione di isolamento, talora raffigurata alla lettera negli spazi mediterranei isolani o campestri, non è però accusata con toni di drammaticità angosciosa: all’opposto, viene designata con una qual certa indolenza dagli stessi interessati, che mantengono il pieno controllo di una lingua forbitamente colloquiale, sempre distinta anche negli strappi alla medietà comunicativa. La problematica amorosa, che pure fornisce sfondo e alimento al discorso, viene sfiorata con compassatezza, come se l’incomunicabilità fosse ormai dato acquisito: così che ne emerge un atteggiamento di troppo pacificata disperazione.
Tutt’al contrario che compassati sono i toni prevalenti nei Canti del caos di Antonio Moresco (apparsi finora in due parti autonome, nel 2001 e nel 2003): anzi, in ogni momento vengono rinfacciate al lettore le ambizioni epocali sottese alla scrittura, dai riverberi antagonistici e oracolari. La singolarità del profetismo di Moresco sta nel suo paludamento antiromanzesco, satirico e iperbolico, che colloca a fondamento dell’opera il suo stesso farsi, mediante la messa in scena di controfigure dell’autore, dell’editore e di tutti gli altri soggetti gravitanti attorno al mondo della comunicazione mediatica. I confini tra piano finzionale e piano metafinzionale sono continuamente ridefiniti nel corso della narrazione. I personaggi stessi raccontano il romanzo di cui sono attori; a loro sono attribuite le dichiarazioni di poetica più altisonanti e sgangherate. Ma il cordone sanitario dell’autoironia steso da Moresco intorno al nucleo autocelebrativo dell’opera non basta a dissiparne la supponenza predicatoria. In questo magmatico work in progress, il sistema dei media, e anzitutto il sottosistema editorial-letterario, è allegorizzato secondo una caricaturale declinazione pornografica: in sostanza gli scrittori, al giorno d’oggi, sono tutti delle gran puttane, prostrate al lenocinio del mercato, e la “Musa” di Moresco è né più né meno che una pornostar, con la quale egli è consapevole di darsi al libertinaggio. Di più: l’unica interazione possibile con il prossimo, nei Canti del caos, sembra essere la chiavata parossistica, senza troppo discernere se essa sia intesa alla comunione orgasmica o alla sopraffazione sadomasochista. Il contegno lirico d’altra parte, benché applicato a una materia sordida e degradata, preclude il dispiegarsi della vicenda. Il “canto” di ciascun personaggio ha eco in quello di altri, ma ciò non anima la monocorde linearità dell’intreccio, che prende le mosse da fumettistiche quetes amorose e da una sorta di escatologia pubblicitaria: ogni cambio di voce si esplica esattamente in un dar sulla voce altrui, per dar seguito così, in giustapposizione, a una novena di giaculatorie coprolaliche e satirico-demenziali.
Più cangiante l’universo romanzesco di Marosia Castaldi, nel quale il rapporto tra narrazione e metanarrazione è invertito, a favore della prima, rispetto a quello vigente presso Moresco. Sia Che chiamiamo anima (2002) sia Dava fine alla tremenda notte (2004) offrono immagini di femminilità drasticamente votata alla tribolazione, in margine a congiunture familiari che fomentano scontento o sconcerto. Con il primo libro, nella fattispecie, l’autrice allestisce un’imponente visione palingenetico-apocalittica, incentrata sul processo che dovrebbe chiarire le circostanze della morte di tale Doroty Malone. L’impianto narrativo si struttura su un duplice livello, poiché il racconto-cornice, attinente alla celebrazione del rito giudiziario, si alterna alle pagine di quaderno dove la donna defunta è andata raccogliendo la propria storia e quella che vi abbiano voluto deporre, di proprio pugno, conoscenti più o meno occasionali. Essenzialmente il processo consiste in un atto di lettura del quaderno di Doroty, compiuto dai giudici che si susseguono sullo scranno del tribunale e via via si ritrovano impari al loro incarico, sbigottiti dal confronto con la scrittura rivelatrice di una vittima predestinata. Il racconto del quaderno finisce per cortocircuitare e confluire nella narrazione esterna: l’artificio metaletterario è riassorbito nella mitografia; i personaggi sono interpreti della vicenda e, vivi o morti che ne risultino, sono imputati ovvero uditori del processo. La cornice è risucchiata dal lascito discorsivo della protagonista, dove il suo bagaglio di sofferenza e la sua ansia di liberazione ripetono la vicenda di coloro che abbiano compartecipato alla medesima opera testimoniale. Un verdetto non può essere emanato da un’istanza superiore, ma è già implicito nell’autobiografia a più voci ordita da Doroty Malone: l’intero mondo ove si aggira il suo fantasma non può che implodere, sullo sfondo di un immane cataclisma suggellato dalle parole dei calchi di Pompei. La scenografia allegorica eretta dalla Castaldi, se rischia di schematizzare la complessità dei nessi tra i poteri politico, economico e giudiziario, conferisce efficace rilievo all’irrequietezza della protagonista, segnata ab origine dal trauma dell’Olocausto. Una maternità precocemente luttuosa spezza gli equilibri coniugali che essa ha bene o male raggiunto nel “Middle West”, sede di filisteismo e rassegnata agiatezza; d’altronde la precarietà patita nel cupo falansterio di Pfeffingerstrasse trova parziale risarcimento nei rapporti solidali istituiti con altri diseredati, ma non consente di dare respiro all’intesa erotica e ideale realizzata con Antonio Moreno, «l’uomo che scrive sui muri». L’oscillazione tra i ruoli di moglie-amante e madre-prostituta rimane in buona misura irrisolta, tanto da sfociare nella soluzione suicida. A prevalere è il gravame di dolori che un contesto politico oscurantista amplifica nell’esperienza comune. Accanto ai discontinui momenti di passione autentica, infatti, si registrano espressioni ambigue o affatto antisociali del fenomeno amoroso, nelle sue varianti mercenarie, pedofile, incestuose. Il dettato romanzesco, seppur alieno dall’atteggiarsi secondo un modello umanistico, inclina a una sostenutezza astratta. Nello stilema dell’accumulazione, svolto ai limiti della ridondanza sia sintagmatica sia paradigmatica, viene cifrato il nodo di continuità tra le cose. Un metaforismo allucinato tende a dilatarsi fino a smarrire la sua valenza analogica nella letterale vertiginosa visionarietà della rappresentazione.