L’impossibile amoroso del reale

I giorni dell’abbandono e L’amore molesto di Elena Ferrante sono romanzi d’amore. Riscrivono sapientemente il genere senza cadere nelle sue trappole, lo muovono altrove. Sono entrambi romanzi di successo e da entrambi sono stati tratti film di successo. Come leggere il caso Ferrante? Da una parte il mistero che da sempre avvolge l’identità dell’autrice, dall’altra narrazioni contese tra desiderio e lutto, passione e perdita. Cosa resta dell’amore dopo l’esperienza dell’abbandono? Una porta chiusa, un gioco di sdoppiamenti, un cane che muore, una giornata all’inferno. I giorni dell’abbandono come testo che riscatta una banale vicenda di separazione in letteratura.
 
Un romanzo d’amore è ancora possibile?
Sì, certo. A patto però che racconti (ancora una volta) l’impossibile dell’amore.
 
La teoria del resto
Philippe Forest, uno dei più interessanti saggisti e scrittori francesi, autore del terribile e indelebile Tutti i bambini tranne uno (2005), in una sua conferenza sulla morte del romanzo, per smentire quest’affermazione che periodicamente ritorna anche oltralpe come un mantra, sostiene che il romanzo per esistere deve rispondere all’appello dell’impossibile del reale. Sulla scia di Lacan e Bataille, per spiegare cosa si intenda con questa definizione espone la teoria del resto:dividiamo 10 per 3, oltre la virgola resterà sempre qualcosa che lascerà il calcolo incompiuto. Il reale è il resto di cui il sapere non sa venire a capo. Il resto che la realtà non vuole, lo scarto, il debordante, la ferita, l’anomalia, il punto maledetto dove si guasta il pensiero o dove il senso si disfa sono il dominio del romanzo, di questo e di nient’altro si devono occupare i romanzi. Il resto è l’impossibile. Tutto quello per cui mancano le parole, l’osceno, l’eccedente, il rifiuto, il cadavere, quello da cui si è soliti distogliere lo sguardo, il rimosso. Ogni apertura, perturbazione o discontinuità dell’esperienza offre il varco dalla realtà al reale. Il reale – dunque – come alternativa al realismo, scrivere storie d’evasione o scrivere la vita (vedi Ph. Forest, Il romanzo, il reale, 2003 e il successivo Il romanzo, l’io, 2004).
«Il romanzo – dice Aragon nel 1964 – è la chiave delle stanze proibite di casa nostra. I profeti che annunciano un mondo senza romanzi per domani o dopodomani, immaginano che cosa sarebbe un mondo senza romanzi?».
 
Didone
Allora, è ancora possibile un romanzo d’amore?
L’amore molesto (1992) e I giorni dell’abbandono (2002) di Elena Ferrante sono romanzi d’amore. Sono due libri di successo, entrambi passati al grande schermo, il primo con la regia di Martone (1995), il secondo diretto da Faenza, nelle sale da settembre 2005, numerose le loro traduzioni nel mondo (appena uscita quella americana dell’ultimo romanzo, accolta subito con entusiasmo dal «New York Times»). Due romanzi d’amore, due film, un intervallo di dieci anni. Narrazioni contese tra il desiderio e il lutto, l’amore e lo scandalo non addomesticabile della morte, che mettono in scena la passione e V impossibile amoroso del reale.
L’amore molesto è un romanzo dell’amore (filiale), la cui eroina è una quarantenne, Delia, che cerca di risolvere il mistero della scomparsa della madre. I giorni dell’abbandono è un romanzo dell’amore (coniugale), la cui protagonista è ancora una donna sui quaranta, Olga, abbandonata dal marito per un’amante giovane. La questione posta da entrambi i libri riguarda quello che resta dell’amore dopo l’esperienza inaccettabile e incomprensibile della perdita. Non si tratta di raccontare la propria vita, di farne una leggenda più o meno edificante, di testimoniare un vissuto drammatico, ma di scrivere l’esperienza del reale come esso ci viene restituito dalla figura dell’altro. Narrati in prima persona, entrambi i libri si possono considerare delle eterografie, cioè delle scritture dell’altro tramite l’esperienza dell’io. Altrimenti detto: il romanzo è il luogo di un’esperienza possibile – quella amorosa – senza la quale non saprei nulla del reale (e del suo impossibile).
«Il bisogno d’amore è l’esperienza centrale della nostra esistenza. Per quanto possa sembrare insensato ci sentiamo veramente vivi solo quando abbiamo un dardo nel fianco che ci trasciniamo dietro giorno e notte, ovunque andiamo. Il bisogno d’amore spazza via ogni altro bisogno e d’altra parte motiva tutte le nostre azioni. Si legga il IV libro dell’Eneide. La costruzione di Cartagine si ferma quando Didone si innamora». E in un’altra intervista sempre a proposito del romanzo I giorni dell’abbandono, Elena Ferrante risponde: «In un certo senso la sottrazione dell’amore è l’esperienza comune più vicina al mito della cacciata dal paradiso terrestre, è la fine violenta dell’illusione di avere un corpo celeste, è la scoperta della propria inessenzialità e deperibilità» (interviste e altri materiali vanno a comporre il terzo libro della Ferrante, La frantumaglia, 2003, quasi un romanzo dell’io, una vigilata e studiata autofiction o fiction dell’alter ego di chi scrive).
La “storia di destrutturazione” di Olga ha radici antiche, parte da Didone, passa per Anna Karenina, approda alla Donna spezzata di Simone de Beauvoir, e di qui riparte, da quella porta chiusa con la quale finisce il romanzo, e dalla paura di guardare avanti. La Ferrante rovescia come un guanto la storia della de Beauvoir, quello che Olga dovrà affrontare non è oltre la porta, non è fuori, ma è dentro, è con le schegge del suo passato che deve fare i conti, perché non si può «soffiare via il passato come un brutto insetto che si è poggiato sulla mano».
 
L’Io e il suo doppio
I due romanzi della Ferrante formano un dittico sull’amore molesto, sono due percorsi paralleli di individuazione impossibile, dove le protagoniste accedono, sottraendosi alle leggi della morale ufficiale, al mistero della propria singolarità. L’amore è molesto a cominciare dal primo amore-conflitto che dura per sempre, quello esclusivo per la madre (Delia per Amalia), matrice di tutti gli amori (impossibili) a venire.
Delia e Olga attraversano un paesaggio di detriti, la frantumaglia, per dare voce a questa esperienza sull’ordito di un tempo imperfetto («L’infanzia è una fabbrica di menzogne che durano all’imperfetto»). Il loro tempo ritrovato si manifesta nel disagio dell’imperfetto, di un passato non compiuto, unica dimensione praticabile del racconto e della libertà per le loro vite di avverarsi come destini.
Racconti dell’io, i due romanzi fanno risuonare con maggior forza l’arbitrio dell’io, lo raddoppiano, si fanno tramite, scavalcate la tentazione narcisistica e quella naturalistica, di un’esigenza radicale di verità.
Ma chi è questo “io”? Chi è che parla?
In un moltiplicarsi dei doppi, Delia e Olga sono alter ego di un altro essere di carta, Elena Ferrante, sono versioni di uno stesso autoritratto romanzesco che si compie di libro in libro, compresa l’autografia della Frantumaglia. Siamo abituati a pensare l’opera letteraria come espressione di una personalità, a cercare l’uomo o la donna in carne e ossa dietro il testo, ma in realtà scrivere è il risultato autonomo di un processo inventivo il cui motore resta misterioso.
Avvolta nel suo enigma, Elena Ferrante è un autore che si nega, un autore di cui si mette in dubbio anche l’identità sessuale, in un sottile e concertato gioco di specchi e di corrispondenze uomo-donna che interroga a fondo il rapporto tra letteratura e menzogna, verità e dissimulazione, travestimento e disvelamento. Sembra che a tratti la Ferrante ci dica: attenti a come mi leggete, sono un ghirigoro maschil-femminile e, per questo, una figura difficile da catalogare. Salvo fare ricorso a criteri esterni ai testi (indagini, supposizioni, consonanze…) e quindi fortemente discutibili, diventa impossibile anche solo azzardare una corrispondenza tra l’io che narra e chi scrive. Qui più che altrove. Sdoppiamento e finzione identitaria sono strumento di indagine per l’autore del suo rapporto con il reale. Nel mondo fantasmatico del raccontare ogni identità, incluso lo scrittore e il suo doppio, si fa dubbia e obbliga a uno sguardo non più confidente sul rapporto tra scrittura letteraria e realtà.
Come se nel caso Ferrante queste riflessioni abbiano allagato l’identità reale – problematica, doppia? – liberando nient’altro che un fantasma.
 
Scrivere al buio
I giorni dell’abbandono inizia con l’uscita di casa del marito di Olga che chiude la porta dietro di sé, lasciando una moglie, due figli e un cane. Siamo già dentro il romanzo, intrappolati nella storia. La vicenda di abbandono corre su una trama ossessiva che tocca il fondo della disperazione in due giornate particolari di piena estate. Nella prima l’incontro casuale con il marito e la giovane amante per strada scatena nella protagonista una reazione violenta che la fa precipitare in un gorgo di orrore e di follia (la scena degli orecchini; «Io sono l’otto di spada, io sono la vespa che punge, io sono la serpe scura. Io sono l’animale invulnerabile che attraversa il fuoco e non si brucia»), fino alla serata cupa e umiliante di sesso senza amore con il musicista.
Poi il giorno più lungo, il cui racconto occupa più di un terzo del libro. Un romanzo nel romanzo. Il figlio Gianni ha la febbre alta, Ilaria si traveste e si trucca in modo vistoso, il cane Otto rantola avvelenato, piano piano tutto degenera, si altera, esplode, sembra che l’unico desiderio di Olga sia sprofondare sorda e muta nelle sue stesse vene, nell’intestino, nella vescica, abbandonarsi al nulla. Impossibile chiedere aiuto, ogni comunicazione è interrotta, telefono e cellulare non funzionano, la porta non si apre. Tutto precipita in un concitato e angosciato sbattere di qua e di là, una mosca contro il vetro della finestra, fino all’agonia terribile del lupo, che muore con la testa reclinata sulle gambe di Olga: «Quella prossimità di morte reale, quella ferita sanguinante della sua sofferenza, di colpo, insperatamente, mi fece vergognare del mio dolore degli ultimi mesi, di quella giornata sovratono di irrealtà. Sentii la stanza che tornava in ordine, la casa che saldava insieme i suoi spazi, la solidità del pavimento, il giorno caldo che si distendeva su ogni cosa, una colla trasparente».
La morte di Otto, che ha assunto la funzione di capro espiatorio, ricompone lo spazio-tempo e quando suona il campanello, Olga allunga la mano sulla chiave e stavolta la porta si aprirà con docilità. Ed è come se il romanzo finisse qui, con la manifestazione della «cosa sfuggente, innominata, senza forma, che appartiene solo a te», con l’impossibile. Viene in mente un autore amato dalla Ferrante, Federigo Tozzi, che sul mistero ha consapevolmente costruito la sua poetica antinaturalistica: «Ai più interessa un omicidio o un suicidio; ma è egualmente interessante, se non di più, anche l’intuizione e quindi il racconto di un qualsiasi misterioso atto nostro; come potrebbe esser quello, per esempio, di un uomo che a un certo punto della sua strada si sofferma per raccogliere un sasso che vede e poi prosegue la sua passeggiata».
Una scrittura dell’io fatta per traumi paure violenze scacchi, da cui si esce sempre sconfitti. Lavorare sottraendosi all’illusione naturalistica e alla consolante certezza di esistere, di avere un nome un volto una storia da raccontare.
 
Bestie, bestiacce
Il romanzo moderno quando non obbedisce più ai consunti protocolli della ricerca identitaria lavora alla dissoluzione di ogni certa percezione del sé e della realtà.
Olga e le sue controfigure: il cane («Quanto al cane Otto non voglio né so dirle nulla, tranne che è il personaggio, se così si può dire, che mi ha procurato più sofferenza»), il fantasma della «poverella». Olga ha una percezione lacerata di sé e della realtà, il suo sguardo non tiene, come le sue mani che falliscono costantemente la presa, si sente tutto addosso, «fiato contro fiato», in una condizione di labilità permanente («tenere le virgole, tenere i punti»).
Gli animali hanno la stessa funzione del “resto”, sono l’impossibile, quello che non si può spiegare dentro la logica del mondo, segno della fragilità e della precarietà di ogni significato, del linguaggio. Il ramarro, l’invasione delle formiche sono minacce, il cane lupo, pura energia vitale che preme per liberarsi, e perno dell’intera vicenda.
Verso la fine del romanzo, al concerto in cui Olga sarà in grado di vedere il suo domani, ecco che appare sul palcoscenico Otto: «a me sembrò che l’ombra di Otto attraversasse festosamente la scena come una vena scura tra la carne viva e lucida».
Raccontare il buio. Servirsi anche degli animali per farlo. Quando le belle parole sono «folla di parole morte» e cominciano a trasformarsi in oscenità. Lo smottamento del senso conduce all’osceno, nel magma, nella frantumaglia.
C’è un breve racconto di Katherine Mansfield, La lezione di canto, che dice in modo perfetto qual è il legame tra realtà e percezione. Un’insegnante tiene la sua lezione di canto a una classe di allieve dopo avere letto la lettera di rottura del fidanzato. La lezione è triste, affonda e si perde in un lamento scorato. Convocata in presidenza, l’insegnante riceve un telegramma dall’amato che la prega di cancellare la lettera. La lezione riprende e questa volta il canto si leva allegro, intonato, in festa. Un pugno di pagine per attraversare il tunnel.
Nel romanzo della Ferrante c’è lo stesso movimento, solo che la discesa nel pozzo della disperazione è totale e uscirne vuol dire accettare una verità impossibile o l’impossibile della verità, senza redenzione alcuna. «Le parole non hanno vero potere, se non a condizione di mettere a nudo la loro fondamentale impotenza a riparare alcunché nel disastro del mondo.» La letteratura non assolve, non salva, non serve e non si lascia usare ma basta «una parola di verità per risvegliare il romanzo, richiamandolo alla vita pericolosa e meravigliosa del reale», sono parole di Forest che illuminano anche la scrittura della Ferrante. La forma narrativa come altro dalla consolazione, dal risarcimento, dalla vendetta e anche dalla giustizia.
Per Olga non c’è alcuna elaborazione del lutto, non c’è traccia di ideologia, nessun sistema difensivo o giustificativo del mondo qual è o quale dovrebbe essere, solo la lama affilata dell’abbandono da contrastare e la possibilità di un nuovo ancoraggio dopo lo sfondamento del dolore: «Finsi di credergli e perciò ci amammo a lungo, nei giorni e nei mesi a venire, quietamente». Registrare il respiro sull’orologio biologico.
Eppure la vicenda di Olga è tesa come la traiettoria di un proiettile fino all’apertura di quella porta, fin quando il linguaggio del disamore per esistere si nutre dell’osceno, del turpiloquio, della bestemmia. E in queste pagine che la Ferrante è riuscita nell’impresa più ardua: raccontare da dentro la ferita e il dolore, scaraventare la scrittura dell’io nella vertigine della separazione, della cancellazione. Un lavoro ostinato e preciso, uno stile crudele, lacerato, a strappi, l’ombra della strage delle illusioni, quale si è consumata.
 
Porte, sgabuzzini, stoffe, aghi e fili
C’è un posto speciale nei romanzi della Ferrante: il ripostiglio nella casa napoletana dell’infanzia. Uno stanzino buio stipato di oggetti dove si nascondeva una enorme e temibile bestia gialla. La porta chiusa, l’immaginazione del male e la paura, lo stanzino come luogo della conoscenza e della perdita dell’innocenza.
Nello Scialle andaluso della Morante anche Andrea, róso d’amore per la madre Giuditta, durante le visite dei compagni di teatro alla madre «per solito andava a confinarsi in fondo all’appartamento, dentro uno sgabuzzino polveroso che riceveva a mala pena la luce da una finestruola». Così Delia combatteva con il terrore il terrore di perdere per sempre sua madre: «scappavo in un ripostiglio senza finestre e senza luce elettrica, proprio accanto alla camera sua e di mio padre. Chiudevo la porta e me ne stavo al buio, a piangere in silenzio. Lo stanzino era un antidoto efficace».
Stanzino, ascensore, funicolare, tram, interrato della ex pasticceria, sono tutti spazi chiusi, claustrofobici, segnati dal buio. Nell’’Amore molesto, il ventre di Napoli, come, nei Giorni dell’abbandono, la casa stessa di Olga in una Torino torrida e assente saranno rifugio e prigione: «Ho bisogno, per scrivere bene, per andare al fondo di ogni domanda, di un luogo più piccolo più sicuro. Cancellare il superfluo, restringere il campo. Scrivere veramente è parlare dal fondo del grembo materno».
In un quadro molto intenso di Antonio Berni, uno dei maggiori pittori argentini contemporanei, dal titolo Primi passi (1937), è raffigurato un interno: a destra una donna in rosso con il volto appoggiato all’incavo della mano, assorta, seduta alla macchina per cucire lavora una stoffa verde, alle spalle si apre una porta finestra sul cielo blu, a sinistra una ragazzina vestita di nero prova dei passi di danza.
La persistenza di questa immagine non solo nelle arti figurative supera il secolo. Zie e nonne, madri e vicine di casa, generazioni di donne alle prese con tessuti, aghi e fili, chine sulla Singer a cucire. Donne che hanno passato il loro tempo a vestire altre donne, a rammendare destini, a confezionare sogni, a imbastire ruoli trasmessi di generazione in generazione. Un mondo buttato alla rinfusa su un tavolo di cucina dove si apparecchiavano stoffe, si inseguivano riscatti, colori e fili annodati, fodere sgargianti, impunture eleganti, spilli e righe di gesso. Intorno all’agucchiare delle donne crescevano parole e racconti, storie e amori: «Racconto e maldicenza e cucito: io ascoltavo. Il bisogno di scrivere storie l’ho scoperto lì, sotto il tavolo».
Confezionare vestiti, scrivere storie. Come nel racconto della Morante, gli abiti consentono a Delia di riappropriarsi della madre, di riscrivere il suo passato: dalla tonaca nera di prete di Andrea allo scialle andaluso, dal tailleur blu di Amalia al vestito ruggine di Delia che cammina per le strade di Napoli. Abiti e trucchi come maschere da indossare, il corpo come ciottolo da levigare, trame di tessuti e trame narrative in un continuo ribaltamento e sdoppiamento della verità.
 
Ma allora, un romanzo d’amore è ancora possibile?
I libri della Ferrante riscrivono nella modernità i romanzi della passione amorosa interrogandone la fine, il venir meno, il disfacimento, l’ambiguità e la negazione. Sono romanzi che non si possono concepire senza L’impossibile amoroso del reale, cioè senza quell’oscillazione continua tra necessità e privazione, tra desiderio e lutto, che costringe la scrittura all’aderenza assoluta alla violenza delle cose, alla loro non mediabile e sconcertante materialità. O sono forse autografie del profondo, eterografie del desiderio.