Ci salverà una vecchia zia?

Una mano ingioiellata, nera su sfondo rosa pastello, con un lungo bocchino tra indice e medio e una sigaretta accesa. Se avete riconosciuto la copertina di Zia Marne, siete in buona compagnia, con centinaia di migliaia di lettori. Prima che un successo editoriale, il libro di Patrick Dennis è una «case history» esemplare: un repechage convinto, un personaggio icastico, una nuova traduzione, una collana nobilitante, un lancio preparato con cura, una campagna stampa pirotecnica, la distinzione adelphiana e il romanzo dell’estate. Le seduzioni dell’eccentricità di massa sono servite.
 
Ottobre 2009. «Publishers Weekly», la rivista principe dell’editoria americana, nella sua consueta rassegna dei libri più venduti nelle diverse nazioni, annota: «molti nuovi titoli finiscono sulle liste dei bestseller, ma nessuno è più curioso del fatto che in Italia il libro più venduto sia Zia Marne. Uscito per la prima volta negli Stati Uniti nel 1955, Marne era stato scritto dall’autore satirico americano Edward Everett Tanner III, con lo pseudonimo di Patrick Dennis. Marne, all’epoca, trascorse un bel po’ di tempo sulla lista dei bestseller del “New York Times”, insieme ad altri due titoli dello stesso Dennis, Guestward Ho! e The Loving Couple. La più recente edizione americana di Marne è stata pubblicata in tascabile nel 2001 dall’editore Broadway. L’edizione è tuttora disponibile e ha venduto 70mila copie».
Fin qui la rivista americana. Che sottovaluta completamente – rubricando la cosa a livello di curiosità (cosa che è) – l’impatto numerico dell’edizione italiana di Zia Marne, riproposta nell’estate scorsa da Adelphi. Al momento in cui scriviamo siamo alla 15esima edizione, con un numero di copie vendute, da giugno, quando il libro è apparso nelle librerie, di quasi 250.000, ossia, in soli quattro mesi più di tre volte il numero di pezzi acquistati in America nel corso di sette anni. Non basta. Il clamoroso successo di vendite nelle librerie italiane ha causato un curioso ritorno di interesse sul testo anche in altre nazioni. E così la diva del cinema Tilda Swinton, ha scritto «Variety», ha acquisito i diritti cinematografici del libro e medita di fare un remake del film. Già, un remake, perché quello con Rosalind Russell risale al 1958 (altri poi ce ne sono stati, tra musical e rivisitazioni teatrali) e ha avuto nuova vita anch’esso in Italia, con la riproposta in edicola (in identica copertina del libro di Adelphi). E poi ci sono i progetti di farne spettacoli teatrali, i prossimi titoli dell’autore americano, a questo punto molto attesi, in arrivo nella primavera del 2010 sempre da Adelphi e, notizia più paradossale di tutte, ma che dà la misura autentica di ciò che è successo in Italia è che la Penguin ha comprato, per ripubblicarla in Inghilterra, l’edizione italiana del libro, compreso il (e forse a causa del) denso saggio finale di Matteo Codignola, traduttore e curatore del bestseller in edizione italiana.
Facciamo un passo indietro. Per cercare di capire come sia potuto accadere che il libro di Dennis abbia conquistato un tale, singolare successo e quali siano – impresa, questa, ben più ardua – i motivi che hanno spinto tante persone ad acquistarlo e a leggerlo.
L’uscita del romanzo è prevista dall’editore milanese per la metà esatta di giugno. Adelphi, attraverso la sua rete di vendita, crede e investe parecchio nelle potenzialità commerciali del titolo. Intanto stabilendo una prima tiratura ottimistica sulla base del prenotato dai librai (che si aggira sulle seimila copie, risultato già di per sé lusinghiero): 10.000 copie. Per la raffinata casa editrice di Roberto Calasso quel 40% di copie «di scorta», pronte a rifornire i librai, rappresentano un indice attendibile per valutare quanto si ritiene possibile il successo. Poi realizzando, aspetto inedito per Adelphi, una sorta di quadernetto con il primo capitolo del libro e distribuendolo gratuitamente presso i bar, i cinema, i locali alla moda, tutti i luoghi, insomma, dove siamo soliti trovare – almeno nelle grandi città italiane – quella pubblicità cartacea (flyer, volantini o cartoline) che serve a catturare l’attenzione di un pubblico vivace, giovane, attento. Che se magari non frequenta più di tanto la libreria attribuisce al libro ancora un valore sociale alto o se ci capita per caso, non è proprio verso il «libro Adelphi» (intendendo con questa locuzione un libro inserito in un catalogo molto ben inquadrato da serietà e prestigio degli autori) che punterebbe la propria attenzione.
In più c’è qualcosa di magnetico che attira fortemente i librai al momento della prenotazione: la stupenda copertina. Un rosa pastello a tutto piatto, che rompe gli schemi soliti della collana nella quale il romanzo è pubblicato («Fabula») con la presenza, molto azzeccata, di un’icona che subito colloca il libro nella giusta dimensione: una mano ingioiellata, tutta nera – che, quindi, risalta potentemente sullo sfondo rosa – con un lungo bocchino tra indice e medio che termina con una sigaretta che si indovina accesa. L’anello con smeraldo (peraltro citato esplicitamente almeno in un episodio del libro), la sequela di braccialetti, alcuni con campanellini al termine (protagonisti, anche questi, di uno degli episodi più divertenti del romanzo), il bocchino con la sigaretta danno un «ritratto sociale» immediato di ciò che ci si deve attendere dal libro e una sua collocazione precisa: ambienti snob, eleganti, esclusivi, molto high-class. Un’atmosfera newyorchese, certo, ma alla quale siamo «abituati» anche in Italia da anni di sophisticated comedies hollywoodiane.
I librai non sottovalutano la copertina, né possono mettere in secondo piano che nell’aletta della quarta venga riportata una minuscola lettera destinata ai librai che faceva parte della pubblicità originale del 1955. Proprio come fa parte della campagna originale la riproduzione della mano, tratta dall’edizione Vanguard Press. Insomma, le prenotazioni vanno molto bene. Il lancio è preparato meticolosamente e con dovizia di particolari.
A questo punto – il libro non è ancora arrivato in libreria, ricordiamolo – va completata la campagna preparatoria puntando magari a una buona rassegna stampa. «Bingo» al primo colpo: il giorno stesso dell’uscita in libreria del volume (16 giugno), è niente meno che il critico Pietro Citati, in prima pagina su «Repubblica» a fornire il carburante giusto per incendiare la partenza del romanzo. Titolo – fortunato – dell’articolo: Zia Marne, il romanzo per un’estate da ridere-, attacco del pezzo degno di nota: «Quando (nel 1955) Zia Marne di Patrick Dennis venne pubblicato negli Stati Uniti, vendette due milioni di copie (oggi sarebbero cinque), e rimase per 122 settimane nelle classifiche dei bestseller. Mi auguro che un successo simile benedica l’edizione italiana».
Non basta. Ecco come prosegue l’articolo nelle due pagine interne della sezione cultura, sapientemente illustrate con le foto dell’indimenticabile Rosalind Russell, che sul personaggio della Auntie Marne costruì il meglio della sua carriera teatrale e cinematografica. «Zia Marne incanta, seduce, diverte sia i lettori colti sia la grande massa dei cosiddetti lettori comuni. Da molti anni non ridevo tanto.»
Non ci sarebbe bisogno quasi di altro: il critico più serioso e accigliato del panorama italiano che ammette di divertirsi come un matto a leggere, e, in più, quella ruffianeria di dire che accomuna lettori colti e meno (lasciando ovviamente libertà a ciascuno di autocollocarsi nella categoria che ritiene appartenergli…). Un’ultima considerazione, poco più avanti, rivelatrice: «Fino ad oggi, certo per mia colpa, non avevo mai sentito parlare di Patrick Dennis». In queste parole c’è un passaggio chiave della vicenda, che per ora ci stiamo limitando a esaminare solo dal punto di vista degli elementi esterni (copertina, tiratura, lancio stampa). Il romanzo non era certo passato inosservato in Italia (nonostante la dichiarata distrazione di Citati). Anzi: appena edito in America aveva avuto subito una traduzione italiana da Bompiani (corredata da una copertina praticamente identica all’originale, stavolta con toni giallo e bruno, ma sempre con medesima mano ingioiellata e sigarettina), per opera di Orsola Nemi e Henry Furst. Il titolo era La zia Marne, senza nessun’altra specificazione – nell’originale Vanguard Press spicca il sottotitolo An Irriverent Escapade – ed ebbe un discreto successo, tanto che la stessa Bompiani ne riproporrà una successiva edizione nel 1966 nella collana «I delfini» (l’unica italiana con una copertina, disegnata da Maria Luisa Gioia, che esca dal binomio mano/sigaretta, sfoggiando una signora chic che fuma, sì, ma ha davanti a sé un ruggente leone, forse memoria dei Roaring Twenties, epoca in cui è ambientata la maggior parte del libro). Su licenza Bompiani, poi, a riprova di un successo di pubblico già allora niente male, il titolo passa a Garzanti (ancora una volta mano ingioiellata e sigaretta, su toni blu, stavolta, nell’interpretazione di Fulvio Bianconi), che ne evidenzia nel sottotitolo il taglio divertente: Le esilaranti avventure di una simpatica combina-guai in uno dei più spiritosi e paradossali romanzi americani. Tuttavia, dagli anni settanta in poi il libro cade nell’oblio. Ed ecco perché, quando viene riproposto da Adelphi, agli occhi dei critici, dei librai e di moltissimi lettori è presentato come una novità assoluta, e come tale viene «lavorato» dal punto di vista editoriale e commerciale.
In effetti qualcosa di nuovo nella riproposta Adelphi c’è. Non poco: è la traduzione di Matteo Codignola, che è la vera mente dell’operazione Marne. A lui – ovviamente con il benestare di Calasso – si deve l’idea di riesumare il libro (complice la visione del film con Rosalind Russell negli anni dell’adolescenza); a lui, ancora, si deve l’acquisizione dei diritti non appena questo torna disponibile in America (curiosamente esce l’11 settembre 2001 per una casa editrice minore che fa parte del gruppo Random House), a lui l’allestimento del volume, compresa l’ideazione della copertina. La traduzione è molto «bella e fresca», come si era accorto subito il primo recensore italiano di questa nuova versione del libro (qualche giorno prima di Citati): ossia l’esperto di letteratura americana Tiziano Gianotti (già editore in proprio, ora commentatore per «D» di «Repubblica») che, al contrario di Citati, ricordava il libro, e molto bene. E Codignola, in più, appone alla fine del volume un saggio molto bello e convincente (Zia Marne e Cedie), che fornisce al lettore tutte le possibili chiavi di lettura per entrare nell’universo romanzesco. Che è molto più profondo, forse, di quanto non si possa sospettare a un primissimo sguardo.
Dunque: un titolo nuovo ma dal sapore e dall’aspetto antico, dall’aria molto snob e intelligente, ma soprattutto in grado di divertire persino i più ostici. Il gioco è fatto. Il libro parte come nessuno si poteva aspettare, nemmeno il più ottimista degli adelphiani o dei librai. Lo stesso primo giorno di vendita, in via San Giovanni sul muro capiscono che si è mosso qualcosa. E, dopo un solo giorno di vendita, la direzione commerciale ordina una ristampa: prudente, certo, ma significativa.
I giornali, ora, si rincorrono: le copie non fanno in tempo a essere smaltite dai librai (molto contenti, invero, di vendere bene un titolo Adelphi) che le recensioni escono praticamente a cadenza quotidiana. La stagione estiva è propizia alla ricerca di titoli più facili, «da leggere sotto l’ombrellone», ma la zia Marne garantisce e qui entriamo nei meriti interni del romanzo – anche qualcosa (o forse molto) di più.
Umorismo, avventura, risate, personaggi deliziosi e fuori dal tempo, allegra follia, la zia matta che tutti vorremmo, a zonzo con la zia, la folle donna, I love zia Marne, cara zia salvami tu, e così via: i calembour dei titoli giornalistici si sforzano di essere diversi l’uno dagli altri, ma il succo è sempre quello (a dire la verità alcune testate, come «Alias» e lo stesso «manifesto» puntano sull’icona gay e sul camp, categorie certamente presenti, ma di sicuro meno acchiappa-lettori). Fino ai due successivi articoli del «Corriere della Sera»: Una risata ci salverà dalla crisi, originale intreccio di lettura scacciapensieri e momento economico dell’Italia (la firma è di Giorgio Montefoschi) e uno di Maria Laura Rodotà che, preso il libro come pretesto, invita i lettori a individuare nella famiglia di ciascuno la zia Marne casalinga, insomma la zia stramba di casa (scegliendo poi qualche personaggio noto che ne abbia avuto una).
Non che manchino, ovviamente, i controcanti: ma si sa, per i libri che già vendono sono manna. E così «Il Giornale» rileva che Adelphi ha «nascosto» il fatto che il libro fosse già uscito, mentre Gad Lerner, su «Vanity Fair», protesta vibratamente e, sul «Sole24ore», Laura Lepri incasella il libro nella categoria della «eccentricità di massa». Sono questi due ultimi spunti a fornire tuttavia i più interessanti elementi di riflessione.
Ebbene sì: zia Marne diverte, è esilarante, le sue avventure da svampita ci fanno ridere e forse sognare. Eppure: dal punto di vista letterario non si può certo dire che il libro sia un capolavoro. Lo stesso Codignola ci ricorda nel suo saggio che anche all’origine ebbe molti problemi: rifiutato da numerosi editori perché si trattava di racconti, fu pubblicato solo dopo che l’editor, Julian Muller, escogitò «l’escamotage vincente»: l’espediente del parallelismo delle avventure della zia Marne, cui viene affidato per l’educazione il nipotino Patrick (l’intreccio fra realtà e romanzo è uno degli elementi vincenti del libro) con un fantomatico «Personaggio Indimenticabile» decantato dalla rivista «Readers’ Digest». Effettivamente il procedimento è macchinoso e nella lettura, ieri come oggi, piuttosto evidente nella sua ripetitività, superata di slancio nella prima parte del libro, a nostro giudizio la migliore, seguita da una seconda metà abbastanza più faticosa.
In Adelphi c’è un antecedente letterario in catalogo abbastanza vicino al caso e ai toni della Zia Marne: La lettera d’amore di Cathleen Schine l’ironica e romantica storia d’amore ambientata tra gli scaffali di una libreria rosa che, infatti, fu edita dalla casa editrice anche per il valore di rottura che poteva avere rispetto al catalogo stesso. Per altri versi (successo immediato di vendite e «adozione» del libro da parte dei giornali), però, il caso Marne ricorda La versione di Barney di Mordecai Richler. Uscito nell’ottobre del 2000, con 15.000 copie di tiratura e un venduto, a metà nel febbraio del 2001 di quasi 8.000, il libro esplose con gli articoli di Giuliano Ferrara e con la campagna stampa da parte del quotidiano «Il Foglio» (che ancora oggi ha una rubrica che prende nome dal romanzo): in due mesi Richler vende 100.000 copie e a luglio, quando l’autore morì, erano già 160.000.
Può essere che Zia Marne sia un congegno molto più sofisticato di quello che appare (sì, ci sono tutti gli elementi delle icone gay, del camp, ma anche forse una riflessione più amara e sotterranea sull’essere soli, come in effetti è la protagonista), ma è il meccanismo del successo che induce a riflettere. Anche se coloro che lavorano nella casa editrice tendono a scansare l’iperelevazione del valore del marchio, è un fatto che Adelphi, nell’immaginario di molti lettori resti (e sia) un editore di altissima qualità. Lo scrive Gad Lerner: «Caro editore Adelphi, non mi piace quando ci prendi in giro. Ovverossia quando, sapendo benissimo che il tuo marchio nobilita ciò che pubblichi, ne approfitti per propinarci una vaccata come Zia Marne di Patrick Dennis, facendo per giunta scattare il passaparola dei parvenu?» con la bugia che leggerlo faccia fine». Questo è un punto centrale. Scrive, con più garbo, Laura Lepri sul «Sole»: «Un’ultima considerazione investe l’editore italiano di Zia Marne, Adelphi. Con formidabile fiuto è riuscito, ancora una volta, a tenere insieme molti lettori e alcune caratteristiche storiche della sigla che un po’ assomigliano, per eclettismo, a questo esilarante personaggio. Riuscendo così, in un’impossibile quadratura del cerchio, a proporre, insieme a zia Marne, una sorta di suggestivo ossimoro: l’eccentricità di massa».
I due brani ci avvicinano ad alcuni dei motivi che stanno alla base del successo di Marne. Il marchio Adelphi ha rassicurato i lettori medi (anche quelli meno colti, direbbe Citati), promuovendo il volume a letteratura alta o medio-alta ipso facto. Allo stesso tempo ha raccolto una folta schiera di lettori non abituali, attirati certo dal divertimento, ma anche dalla possibilità, molto chic, di farsi «beccare» in spiaggia a leggere un libro che certamente costituisce anche uno status symbol intellettuale. Non c’è nulla di male, per carità: è esattamente il rovescio di quel fenomeno ben noto in editoria, per cui si fa sempre valere l’equazione che se il libro vende molto allora non è di qualità.
A complicare la situazione c’è l’avallo di Citati e dei giornali in generale (una cosa simile era già successa a Citati – singolare nemesi per un critico così esigente – con un altro titolo non certo eccellente come qualità letteraria, firmino di Sam Savage, ma di sicuro impatto per il lettore). Ad Adelphi, e proprio per la sua aura editoriale, è più facile che capitino episodi di questo genere: L’insostenibile leggerezza dell’essere, di Milan Kundera, di nuovo con articoli entusiasti di Citati e l’appropriazione del titolo-feticcio da parte di Roberto D’Agostino, allora ancora lookologo della banda Arbore ai tempi di Quelli della notte, divenne uno status symbol intellettuale a buon prezzo: con un risultato, oggi, dopo ventiquattro anni dall’uscita, di oltre un milione di copie vendute.
Succede per questi libri che quella comunità di lettori, che crede ancora nella critica letteraria di un certo tipo, si senta al contempo finalmente sdoganata nell’averla dalla propria parte per un romanzo che, finalmente, non è né noioso né tetro né pesante, e ne approfitti immediatamente. E succede che il libraio se deve consigliare un titolo possa a questo punto andare a colpo sicuro: l’editore garantisce, il successo legittima la lettura, è bello far parte del club di quelli che lo devono leggere assolutamente.
Sia chiaro: siamo dalla parte dei buoni libri, come è Zia Marne, sia pure senza esagerare. Ma forse, alla fine, il messaggio che più chiaramente arriva da questo fenomeno editoriale illumina alcuni aspetti della condizione della lettura nel nostro paese.
Si potrebbe azzardare l’ipotesi che anche una casa editrice come Adelphi possa (finalmente) perdere parte della sua esclusività e diventare un editore più simile agli altri, non diciamo a caccia del successo facile ma magari rinunciando un pochino alla sua leggendaria qualità. Una ricerca nel catalogo fa capire che il marchio si sta muovendo su questo terreno, un po’ più popolare, ormai da tempo: per fortuna. È un modo, del resto, per conservare i lettori colti e per invitare quelli meno colti ad avvicinarsi al mondo adelphiano.
D’altra parte ci potrebbe essere la riprova che la critica letteraria, anche la più sospettosa, si inchina alla fin fine alle ragioni della leggibilità e del divertimento, pencolando pericolosamente verso i due fattori che, di solito, sono guardati con più sospetto dai critici medesimi. E che, invece, sono da sempre i due cardini sui quali si sono prodotti i grandi successi commerciali.
Forse la lezione della zia Marne è che una sorta di equivoco può anche generare situazioni favorevoli: non si tratta forse di un libro di qualità Adelphi (almeno stando alla normale considerazione di cui gode l’editore presso il vasto pubblico) e magari non meritava le lodi sperticate della critica. Eppure ha avuto il pregio di avvicinare tante persone a una lettura gradevole e istruttiva, superficiale e divertente, lasciando a lettori più raffinati la possibilità di intravedere nel romanzo, se lo hanno fatto, anche ciò che a prima vista non si vede. O, più semplicemente, il fenomeno Marne rivela un’esigenza trascurata nelle voglie dei lettori. In Italia non siamo abituati alle commedie in letteratura: forse la zia Marne, la Schine, i libri della Kinsella, Il diavolo veste Prada o i diari di Bridget Jones – ciascuno secondo il grado di complessità che incarnano – non sono altro che la possibilità di accedere a un pubblico che vuole leggere senza complessi di inferiorità della narrativa brillante o divertente. Gli autori vanno pescati all’estero, è evidente: guardarsi in giro in Italia se c’è un autore capace di scrivere una zia Marne (ce ne sono pochissimi). Magari involontariamente Adelphi ha individuato un filone percorribile e da esplorare per lettori (e soprattutto lettrici) che chiedono qualità e divertimento.
La zia Marne è così oggi un caso da manuale di sociologia della letteratura. E un miracolo editoriale che si ripete ogni volta che questo libro esce: vendite e successo al di là delle previsioni, nell’America degli anni cinquanta come nell’Italia degli anni duemila. Non c’è nessun parallelo possibile fra questi due mondi e queste due epoche, se non, forse, uno. I personaggi eccentrici e ben costruiti sanno sempre affascinare. Magari perché la vita è grigia e monotona, ed è lecito sognare di essere qualcun altro al di là di tutte le convenzioni sociali. La zia Marne incarna il desiderio profondo di evasione ed eccezionalità. Basta poco, in fondo (!): gioielli, sigarette, appartamenti nel centro, molti soldi da spendere, una vita trascorsa sotto i riflettori e frequentando bella gente (all’epoca la tv non era così importante, altrimenti la zia Marne nelle sue avventure sarebbe anche finita in prime time) e la gioia di non doversi mai preoccupare del futuro. In definitiva: lo sbilenco sogno americano su cui si fonda la nostra contemporaneità.