Se la censura entra in biblioteca

Le raccolte delle biblioteche rappresentano, oggi più che mai, una garanzia di pluralismo, a patto che sappiano riflettere gli orientamenti e l’evoluzione della società senza essere soggette a censure, né a pressioni commerciali. Una funzione sociale prima che culturale. Ma cosa succede quando un provvedimento di natura gestionale viene realizzato senza tenere conto delle abitudini e della composizione dell’utenza, bensì sulla base di una direttiva politica? Un fatto tecnico può diventare il pretesto per la messa in mora del pluralismo in uno dei luoghi deputati alla libera circolazione delle idee?
 
Che esista uno scarto fra l’ambizione universale del Manifesto Unesco per la biblioteca pubblica (1995) e le sue concrete applicazioni è cosa facile da comprendere anche per i non addetti ai lavori: un conto è proclamare che «la biblioteca pubblica […] rende prontamente disponibile per i suoi utenti ogni genere di conoscenza e informazione», altra faccenda è fare i conti con la carenza di risorse, competenze, spazi, che rappresenta il limite fisiologico di qualsiasi istituzione e fissa il punto di equilibrio fra ciò che è e ciò che dovrebbe essere.
Se però le contingenze diventano un alibi per limitare il ruolo di centro informativo locale della biblioteca nei confronti dei cittadini, il peccato cessa di essere veniale per assumere i connotati di una vera e propria censura e lo spirito del Manifesto Unesco (la magna charta dei bibliotecari di tutto il mondo) viene tradito nei suoi valori fondanti: gli ideali di accesso universale alla conoscenza e di non discriminazione, che sono direttamente connessi al diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero – come recita l’art.
21 della Costituzione – e implicano la libertà d’informazione di cui all’art. 19 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (diritto di «cercare, ricevere e diffondere informazioni»).
Quando ciò accade, la biblioteca pubblica cessa di essere strumento di democrazia e luogo del confronto per diventare arena, terreno di scorribande condotte dai detentori del potere politico o amministrativo. Come nel caso di alcuni comuni del Nord-Est, dove le autorità locali hanno disposto che alcune testate periodiche, ritenute «politicizzate», non dovessero più essere acquistate dalla biblioteca. Un fatto tecnico – la selezione di alcune risorse informative – diventa quindi il pretesto per la messa in mora del pluralismo in uno dei luoghi deputati alla libera circolazione delle idee.
Varrà la pena premettere che i casi balzati agli onori delle cronache rappresentano certamente solo la punta dell’iceberg poiché il problema è di natura culturale, prescinde dagli schieramenti e non risulta nemmeno una novità in assoluto, visto che in molte amministrazioni locali – specialmente nelle piccole realtà – è diffuso il malcostume di sottoporre le liste d’acquisto librario al vaglio preventivo dell’assessore o del funzionario di turno. Tuttavia, almeno in un caso, quello del comune di Musile di Piave, la dinamica degli avvenimenti presenta aspetti di particolare interesse che si prestano ad alcune considerazioni generali.
Procediamo con ordine e stiamo ai fatti: il 10 ottobre 2009 il «Gazzettino», quotidiano del Nord-Est, riporta notizia delle disposizioni impartite alla biblioteca di Musile di Piave dalla giunta comunale, tendenti a eliminare dalle raccolte alcune pubblicazioni ritenute di parte, benché non direttamente ed esplicitamente riconducibili a partiti politici. Il presidente dell’Associazione italiana biblioteche invia una lettera di protesta al sindaco, che viene ripresa da un noto quotidiano nazionale e da un’emittente radiofonica; il sindaco risponde a stretto giro di posta, precisando che il provvedimento si è reso necessario per contenere le spese di gestione e che il criterio individuato risponde a criteri di imparzialità (nella tagliola sono infatti finiti «Repubblica», «il manifesto» e «Il Giornale») e di salvaguardia, poiché la presenza in biblioteca di postazioni per la navigazione Internet appare sufficiente a garantire un accesso adeguato all’informazione.
Un provvedimento di natura gestionale, rientrante nei compiti del personale preposto al servizio, viene realizzato senza tenere conto delle abitudini e della composizione dell’utenza, dei tassi di consultazione e via dicendo, bensì sulla base di una direttiva dell’organo politico e ottiene l’effetto di eliminare dagli scaffali della biblioteca il quotidiano più letto d’Italia, notoriamente critico nei confronti dello schieramento politico al quale la giunta di Musile appartiene.
Che la censura lambisca le biblioteche non deve sorprendere, come ben illustra una recente rassegna bibliografica curata da Carlo Revelli («Biblioteche Oggi», ottobre 2009, pp. 58-62), dove i fatti di casa nostra trascolorano al cospetto delle atrocità commesse nei secoli per cancellare le tracce di espressioni culturali ritenute contrarie all’ideologia dominante, o di fronte a episodi di cronaca recente, come quello che a Londra ha visto protagonista una scuola islamica costretta a eliminare libri arabi in cui «gli ebrei erano chiamati scimmie e i cristiani porci».
Non a caso l’IFLA, International Federation of Libraries Associations, che attraverso il FAIFE (Committee on Free Access to Information and Freedom of Expression) si propone di tutelare i diritti di libero accesso all’informazione e di libertà di espressione, nel 1999 ha approvato una Dichiarazione sulle biblioteche e sulla libertà intellettuale che riafferma l’impegno per la libertà intellettuale come responsabilità primaria per le biblioteche e le professioni dell’informazione.
L’episodio di Musile segna un salto di qualità rispetto ad altri casi di censura, collegati alla presenza in biblioteca di singoli titoli ritenuti contrari al comune senso del pudore. Nel 2000 aveva fatto scalpore, ad esempio, il caso di Scopami, romanzo di Virginie Despentes pubblicato in Italia da Einaudi: una biblioteca comunale collocata all’interno di una scuola aveva acquistato il libro, una utente quattordicenne l’aveva ottenuto in prestito, la bibliotecaria che aveva autorizzato la transazione era stata per questo denunciata ai carabinieri e condannata dal giudice per le indagini preliminari al pagamento di una multa ai sensi dell’art. 528 del codice penale, poiché l’opera era da considerare oscena e la bibliotecaria colpevole di averla fatta circolare. L’interessata aveva presentato opposizione alla condanna ed era stata assolta con formula piena cinque anni dopo; il libro, dissequestrato, era stato reinserito nelle raccolte della biblioteca. La vicenda, che aveva fatto molto discutere spingendo alcuni deputati a formulare – senza esiti concreti – una proposta di legge per tutelare i bibliotecari nell’esercizio delle loro funzioni, aveva riaffermato con forza che non può rientrare fra i compiti delle biblioteche attuare forme di censura preventiva né che al bibliotecario può essere ricondotto il ruolo di «filtro etico» in ordine ai testi posseduti. Ironia della sorte, il volume della Despentes risultava inserito in una bibliografia destinata agli adolescenti dal ministero del Lavoro e delle politiche sociali, nell’ambito di una campagna contro la droga.
Più di recente, nell’aprile 2009, si è verificato un caso analogo: la Biblioteca internazionale per ragazzi «Edmondo De Amicis» di Genova ha ospitato l’iniziativa Due regine due re, promossa dal locale comitato Gay Pride. Scopo dell’iniziativa era mettere in rilievo il ruolo della letteratura nello sviluppo dell’identità dei bambini, nel rispetto delle diverse tipologie e identità di amore e affettività, e di conseguenza delle famiglie che nascono dallo sviluppo di queste identità. Fra le attività proposte, un laboratorio a partecipazione mista di adulti e bambini, nel corso del quale è stata distribuita la bibliografia Diversamente libri, in cui venivano presentati libri presenti nelle collane per ragazzi delle maggiori case editrici italiane. Alcuni esponenti politici contrari all’iniziativa hanno depositato un esposto alla magistratura in cui si parla di «pubblicizzazione di materiale pornografico minorile, divulgazione di notizie o informazioni finalizzate all’adescamento e allo sfruttamento di minori di anni 18». Nell’esposto ci si riferisce anche a siti di associazioni lesbiche, gay, bisessuali e transgender citati in bibliografie realizzate nell’ambito dell’iniziativa di cui è stato chiesto il sequestro assieme ai libri esposti, senza notare che uno dei siti incriminati è stato realizzato nell’ambito del Programma gioventù promosso dal governo.
Un’iniziativa concepita come contributo alla riflessione su un tema estremamente delicato e sensibile diventa occasione per inscenare uno scontro ideologico sul concetto di moralità e oscenità, dove l’intervento dei difensori del comune senso del pudore è ammantato di pedagogismo, come se certe letture e certi temi non fossero «adatti» per i giovani lettori, categoria evidentemente da «proteggere».
I due episodi possono essere letti come espressioni di una chiusura a un tempo intransigente e superficiale nei confronti di temi forse discutibili, ma in quanto tali almeno da porre in discussione. Quando il potere non ripone fiducia nelle capacità dei sudditi di formarsi autonomamente un giudizio critico, il ricorso alla via giudiziaria può apparire legittimo ma rivela un rifiuto assoluto, viscerale, del confronto e, nel caso specifico, un fraintendimento profondo del ruolo e della natura della biblioteca pubblica nella società contemporanea, istituto finanziato dalla collettività non solo per documentare le vestigia del passato ma tutti gli aspetti della vita, della cultura e del costume contemporanei, anche i più contraddittori. In proposito, la Dichiarazione sulle biblioteche e sulla libertà intellettuale dell’IFLA afferma: «le biblioteche devono garantire che la selezione e la disponibilità dei materiali e dei servizi bibliotecari siano dettate da considerazioni professionali e non da ottiche politiche, morali o religiose».
Il ricorso alla magistratura è il sintomo di una sindrome di cui appaiono i segni evidenti in molti settori della vita civile, in base alla quale i problemi non si risolvono con la coesistenza dei diversi punti di vista sul mondo e sulla vita ma apponendo divieti e minacciando sanzioni, nel solco di una tradizione di limitazioni, controlli e vincoli imposti dal legislatore che colpiscono sempre più anche l’utilizzo degli strumenti della società dell’informazione: si pensi in proposito alle misure adottate sull’onda emotiva dell’attentato terroristico alla metropolitana di Londra, che limitano l’uso di Internet (L. 155/2005, di conversione del cd. «Decreto Pisanu»), o alle proposte di legge antipirateria, che prevedono l’oscuramento obbligatorio dei siti contrari a leggi dello Stato (in questo caso si parla di «dottrina Sarkozy», perché le misure sono state proposte in Francia per iniziativa presidenziale).
Nel caso di Musile si esce dall’eccezionaiità del singolo evento per sancire che la censura, da prerogativa esercitabile solo in presenza di particolari situazioni previste dalla Costituzione, diviene metro di giudizio. La biblioteca cessa di essere strumento della democrazia per diventare speculum del pensiero dominante, o meglio governante. Il diritto di cittadinanza per tutte le opinioni viene d’ufficio trasformato in diritto di soggiorno, la cui durata è proporzionale alla permanenza in carica di questa o quella parte politica: una forma malintesa di spoil System, in base alla quale chi prevale alle urne si sente in diritto di imporre la propria visione del mondo, cancellando le opinioni della parte avversa.
Se un tempo si bruciavano i libri per eliminare le idee, oggi è sufficiente ammantarsi del pluralismo asettico garantito dalle tecnologie dell’informazione per eludere il problema del reale accesso ai contenuti, che è legato alla capacità di superare barriere non solo tecnologiche ma cognitive. Soluzione a buon mercato ma insufficiente, perché numerosi sono i fattori che rendono differente – poniamo – per un anziano sfogliare un quotidiano nella cornice familiare di una sala di lettura frequentata quotidianamente, piuttosto che avventurarsi nell’iperspazio digitale alla ricerca di informazioni. E per questo che le raccolte di ogni biblioteca possono rappresentare, oggi più che mai, una garanzia di pluralismo («valore insostituibile», come ha ricordato il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, celebrando la giornata dell’informazione), a patto che sappiano riflettere gli orientamenti attuali e l’evoluzione della società senza essere soggette ad alcun tipo di censura ideologica, politica o religiosa, né a pressioni commerciali.
Una funzione, a ben vedere, sociale prima ancora che culturale, che rende accessibile a chiunque ne abbia voglia e capacità il patrimonio di conoscenze a disposizione dell’umanità, a prescindere dalle possibilità economiche; un concetto che rimanda al significato etimologico di censura (da census, patrimonio) e può essere letto, per paradosso, come rimozione non delle idee ma «degli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese», come recita l’art. 3 della Costituzione.