Un anno di Google Books

Google Books, cronaca di un anno vissuto pericolosamente. Tra fiera opposizione giudiziaria e negoziato con Google, gli editori europei hanno scelto il secondo, forti anche delle competenze acquisite con il progetto Arroto. Alcune piccole conquiste sono già da registrare: la sostanziale accettazione che per digitalizzare i libri occorre «lavorare con gli aventi diritto», non contro di loro; un meccanismo di controllo della qualità del lavoro di Google nella determinazione dei fuori commercio; la condivisione del principio tutto europeo della «ricerca diligente» dell’avente diritto.
 
Un singolare destino ha investito il mio intervento sullo scorso numero di Tirature. Scrivevo di Google Books a fine settembre, e dei suoi rapporti con le biblioteche digitali europee. Il tempo di andare in stampa e il quadro era totalmente cambiato. Per puro caso avevo indovinato il «tema dell’anno», ma allo stesso tempo avevo costretto i lettori di Tirature a constatare quanto rapidamente un articolo su questi temi possa divenire obsoleto.
La «bomba» era esplosa il 28 ottobre 2008, con l’annuncio dell’Associazione degli editori americani (AAP), l’Authors Guild (AG) e Google di un accordo transattivo (Settlement) a chiusura della causa dai primi intentata per violazione dei diritti d’autore nel programma di collaborazione con le biblioteche. Da quel momento sono successe molte cose, così che un minimo di pedanteria cronachistica diviene necessaria.
Google BooksSearch (GBs) era stato lanciato a fine 2004, diviso in due parti: il «partners programme», con il quale Google stringe accordi con gli editori, e il «library project», volto alla digitalizzazione di libri presenti nelle biblioteche, sia fuori diritti sia ancora protetti, in quest’ultimo caso mostrando al pubblico solo piccolissimi estratti (snippets). La seconda parte dell’iniziativa era molto controversa. Google sosteneva di poter digitalizzare i libri sulla base del fair use, quindi solo in USA, perché in Europa l’istituto non esiste. Autori ed editori sostenevano che, anche in USA, il fair use fosse da escludere in un caso – come quello in esame – in cui un’azienda commerciale utilizza opere protette a scopi commerciali.
Su queste basi, all’inizio del 2005 la più autorevole associazione autori USA, AG appunto, e parallelamente cinque grandi imprese editoriali, iniziano due distinte cause per violazione del copyright. Le due cause sono poi riunite in forma di class action, con l’intervento dell’Associazione editori. Ed è qui la delicatezza: la procedura di class action negli Stati Uniti prevede che le conclusioni della causa siano vincolanti per tutti i soggetti che astrattamente appartengono alla «classe», in questo caso tutti gli autori ed editori di opere con qualche circolazione negli Stati Uniti, a meno che – entro scadenze ben precise – non si chiamino fuori (opt out). Quando allora, il 28 ottobre scorso, le parti rendono pubblico l’accordo, autori ed editori europei (e del resto del mondo) si trovano di fronte a ciò che appariva un fatto compiuto. I termini dell’accordo li coinvolgono e sembra assai arduo protestare la propria estraneità.
Ma cosa esattamente prevede l’accordo? È certamente temerario riassumere in poche righe le 300 e più pagine di una transazione estremamente complessa. Qualche eccesso di semplificazione è un prezzo inevitabile in casi del genere.
Partendo dai contestati snippets, l’accordo regola molti altri possibili usi di opere protette. Descrive infatti una serie di display use-. la vendita del singolo libro ai consumatori finali, l’abbonamento alle banche dati offerto alle biblioteche, alcuni sfruttamenti basati sulla pubblicità, la cessione di diritti secondari per la creazione di dispense universitarie, e così via. Aggiunge poi all’elenco alcuni non display use*. l’accesso per utenti non vedenti delle biblioteche, l’utilizzo in alcuni ambiti di ricerca quali la linguistica computazionale, ecc. Per tutti propone un sistema di regolazione: sui prezzi, la ripartizione dei proventi, i termini di utilizzo, i livelli di sicurezza…
L’accordo fa poi una distinzione delle opere in due macro categorie: quelle in commercio (negli USA) e quelle non in commercio. Per le prime si applicano le regole normali del diritto d’autore: Google deve avere l’autorizzazione preventiva per qualsiasi utilizzo. Per le seconde si accetta di rovesciare questa logica: Google è autorizzato a usare le opere, per tutti gli utilizzi previsti, a meno che l’avente diritto non gli comunichi di non farlo.
Infine, per gestire i complessi rapporti che ne derivano, viene creato ex novo un organismo, il Book Rights Registry (Brr) con l’improbo compito di raccogliere i dati sui diritti di tutti i libri del mondo, ricevere i pagamenti da Google per i diversi usi commerciali e distribuirli tra gli aventi diritto.
Le reazioni sono immediate e improntate alla preoccupazione. Alle 21.28 dello stesso 28 ottobre una collega mi scrive: «Ma stiamo andando incontro a un monopolio nella commercializzazione libraria?», acutamente anticipando uno dei leitmotiv dell’anno successivo. Il 3 novembre la Federazione degli editori europei (FEP) pubblica una prima presa di posizione, che si tradurrà in una risoluzione formale adottata dall’Assemblea il 14 novembre, in cui si denuncia il «risk of a de facto monopoly for distribution of books that is contrary to thè interest of consumers and society at large and which could endanger thè European book industry and cultural diversity».
Il mondo editoriale europeo è investito da quel momento da un intenso dibattito. Vi sono scelte individuali da prendere: vai la pena esercitare il diritto di opt out previsto dalla procedura? In verità, quel diritto lascia ad autori ed editori la sola opzione di perseguire legalmente Google negli Stati Uniti, e li priva invece di quegli strumenti di controllo che, pur deboli, l’accordo riserva loro. Un’occhiata alla cifra spesa fino a quel momento da autori ed editori USA, riportata nel Settlement perché Google accetta di rifonderla, fa passare la voglia ai più: si tratta di 30 milioni di dollari, per una causa che dura da quasi quattro anni. Il sistema giuridico americano è in genere noto per la sua efficienza, ma sembra che lo stesso non possa dirsi per le class action dirette verso parti resistenti di grandi capacità economiche, che hanno strumenti per tirarla per le lunghe in modo non così diverso che da noi! D’altro canto, rimanere nella classe non ha conseguenze su eventuali pretese che un avente diritto europeo avesse nei confronti di Google in Europa, così che – ad esempio – la causa intentata da alcuni editori francesi per l’uso degli snippets anche in Europa continua immutata. Una sentenza è attesa a dicembre 2009 (sarà già stata scritta, quindi, al momento dell’uscita di queste righe).
Escluso per ragioni pratiche Yopt out da parte della gran maggioranza degli editori (anche se alcuni hanno comunque scelto questa strada per una questione di principio), rimanevano due strade da percorrere, anche in parallelo. Una fiera opposizione per via giudiziaria, e il negoziato con Google per ridurre gli effetti negativi dell’accordo.
Per presentare il Settlement, un’ampia delegazione di Google – di tecnici e avvocati – fa un primo giro d’Europa nel gennaio 2009, visitando singoli editori e associazioni. Presentatasi in un tripudio di sorrisi e rassicurazioni è stata dappertutto accolta con fredda cortesia e molto scetticismo. Poiché il trattamento delle opere si gioca sul fatto di essere «commercially available», in commercio, la definizione adottata lasciava esterrefatti. Parlava infatti di libri «disponibili per la vendita su canali commerciali abituali negli Stati Uniti». E quelli europei? Significa che se un libro non è reperibile in libreria negli USA potrà essere liberamente riprodotto e venduto da Google? «Ma no», era la risposta, senza crepe nel sorriso, «è evidente che considereremo le vendite on line da siti europei – in quanto accessibili dagli USA – o i cataloghi dei fornitori di biblioteche come canali abituali anche per gli Stati Uniti». D’accordo, ma meglio metterlo nero su bianco, era la risposta degli scettici editori europei. Impresa rivelatasi non facile. Solo dopo otto mesi di negoziazione Google ha formalizzato in una «lettera d’impegno» l’obbligo di considerare in commercio ai sensi del Settlement qualsiasi libro che sia in circolazione in Europa.
Tutto risolto, almeno su questo punto? Nemmeno per idea. Il fatto è che dalla astratta definizione occorre poi passare alla determinazione concreta dello status commerciale di ciascun libro. E vero che Google si impegna, con la stessa lettera, a utilizzare le risorse informative che le associazioni editori di ciascun paese gli segnala, ma sul come i dubbi restano ampi. La cronaca dell’affaire diviene intrigante quanto più si va sul pratico. E ad andar sul pratico, e persino sull’estremamente tecnico, gli editori europei non erano così sprovveduti, ché in contemporanea all’annuncio del Settlement partiva in Europa il progetto Arrow (www.arrow-net.org), con il compito di affrontare gli aspetti tecnici della gestione dei diritti d’autore nei programmi di biblioteche digitali. E che intanto ha permesso di svelare come il lavoro fatto fino a quel momento da Google per la gestione del Settlement fosse estremamente povero.
Immaginiamo la storia in forma di dialogo tra Google e gli editori europei.
 
SCENA PRIMA (gennaio 2009):
Google: «Don’t worry: datemi la lista dei libri di cui detenete i diritti e vi dirò se li ho in banca dati, se li considero in commercio e se li ho già digitalizzati».
Editori Europei: «E no, scusa, fammi sapere tu quali libri hai digitalizzato, pubblica la lista e noi ci regoliamo. Siccome la determinazione dello status dei diritti non è cosa semplice, almeno fa sì che facciamo il lavoro solo per i libri che hai digitalizzato, non per tutti».
G.: «Vorrei tanto accontentarvi. Ma i miei contratti con i fornitori di metadati non mi consentono di pubblicare la lista».
E.E.: «Vuoi dirmi che non hai nemmeno una tua lista di quello che hai fatto?».
G.: «E così: acquisto da terzi i dati, ma non il diritto di pubblicarli integralmente. Potete fare, tuttavia, delle ricerche sulla banca dati del Settlement, che contiene tutti i libri del mondo di cui abbiamo raccolto notizie, e potete controllare se ciascun libro è stato digitalizzato e se è considerato fuori commercio».
 
SCENA SECONDA (dopo poche settimane):
G.: «Is everything ok?».
E.E.: «Neanche per sogno! I dati sono orribili, sono pieni di errori e in particolare la determinazione dei fuori commercio è sistematicamente sbagliata, e sempre a nostro danno».
G.: «Potete essere più precisi?».
E.E.: «Certo. Anzi, creiamo un gruppo di lavoro congiunto sul tema».
G.: «Eccellente idea!».
 
Nel mese di marzo il gruppo Arrow conduce una minuziosa analisi della banca dati, scoprendo errori in ogni sua parte. E non solo errori dovuti alle fonti utilizzate, ma proprio di impostazione, di aggregazione dei dati, nelle modalità di funzionamento del sistema di interrogazione, e così via.
 
SCENA TERZA (è ormai aprile):
G.: «Don’t worry. Certamente miglioreremo la banca dati e vi ringraziamo molto dell’eccellente lavoro di analisi che ci consentirà di migliorare, al servizio degli editori di tutto il mondo…».
E.E.: «Tutto bene. Ma una garanzia generica non è sufficiente. Diteci quali miglioramenti intendente fare, in quali tempi e come possano essere misurati».
G.: «…».
 
La discussione, dopo qualche altra riunione del gruppo di lavoro, si interrompe a fine giugno, travolta da altri eventi. La questione è inclusa dall’AIE tra le sue obiezioni alla Corte di New York. La critica è radicale: il Settlement non distingue le opere in due categorie obiettive: «in commercio» e «fuori commercio», ma tra libri che lo stesso Google determina come in commercio e fuori commercio. Non è una piccola differenza. Se il primo caso fosse vero, un editore potrebbe stare tranquillo relativamente alle opere in commercio, nel secondo caso ciascuna opera può essere classificata come fuori commercio, e quindi i controlli su quel che fa Google devono essere costanti, continui e su tutte le opere. Ad avviso di AIE la distorsione è prodotta dal modo stesso in cui è organizzato il Settlement. Da un lato affida a Google, in prima istanza, la determinazione se un libro è in commercio ma allo stesso tempo non gli attribuisce alcuna responsabilità in caso di errore. Migliorare la qualità della banca dati è certamente costoso e, se lo fa, Google riduce il proprio reddito, perché esclude più libri dalle sue banche dati. E ragionevole impostare un meccanismo in cui un’azienda commerciale sia chiamata a investire per ridurre i propri profitti?
Ma torniamo alle vicende del Settlement. A inizio settembre è fissata la data per presentare obiezioni. La quantità recapitata alla Corte di New York è impressionante. Sembra che tutti siano d’accordo nel criticarlo. Che i concorrenti diretti di Google (Microsoft, Yahoo e, su un piano diverso, Amazon) protestino è persino ovvio. Che così forti siano le opposizioni di altri attori era forse all’inizio inatteso. Tra le centinaia di obiezioni, quella della American Library Association ha, su molti aspetti, contenuti simili a quelle degli editori di tutto il mondo: scrivono alla corte le associazioni editori di Germania, Spagna, Francia, Svezia, Austria, Svizzera, Giappone e Italia (se non ne ho persa qualcuna). E scrivono, soprattutto, i governi di Francia e Germania. Tutti a ribadire soprattutto due punti: le violazioni della Convenzione di Berna, cui pure gli Stati Uniti aderiscono – che prevede il consenso preventivo per qualsiasi uso di un’opera dell’ingegno – e gli effetti anticompetitivi del Settlement.
Subito dopo la scadenza, la Corte riceve uno Statement of interest del Department of Justice, che in USA ha le competenze antitrust, in cui sono ribadite le due perplessità presenti anche altrove, ma viene anche espresso un giudizio positivo sulla «intenzione», per così dire, presente nel Settlement: la rivitalizzazione dei fuori commercio e la maggior diffusione delle opere.
Lo Statement contiene un ennesimo colpo di scena: il DoJ dichiara infatti di essere stato informato dalle parti che hanno intenzione di ritirare il Settlement e di sostituirlo con uno nuovo di zecca e suggerisce al giudice («rispettosamente», come è d’uopo) di attendere il nuovo accordo. La situazione è dunque azzerata. L’8 ottobre l’udienza che doveva discutere l’accordo fissa soltanto le nuove scadenze. Le parti si impegnano a proporre un nuovo accordo per il 9 novembre (ma chiederanno un ulteriore rinvio al 13), dopo di che si dovranno fissare le date per un nuovo processo di notifica, nuove obiezioni e una nuova udienza di approvazione. Si progetta di fare molto più in fretta, questa volta, così da finire comunque a inizio 2010. Vedremo.
La settimana successiva all’udienza è quella della Fiera di Francoforte. Occasione di ulteriori novità, oltre che di infiniti dibattiti pubblici e riservati sul tema. La vicenda accelera i suoi tempi. Google presenta il suo nuovo servizio «Google Edition»: gli editori partner, che finora hanno usato Google Books solo per facilitare la ricerca nei propri libri e reindirizzare gli utenti su altri siti dove acquistarli, potranno ora vendere direttamente tramite Google delle speciali «edizioni», in formati proprietari Google. Le formule annunciate sono due: l’acquisto da parte dell’utente del diritto d’accesso (perpetuo, a quanto è dato di capire) a un libro residente on line ma leggibile con strumenti diversi (pc, nuovi telefonini, e-book-reader…) o l’acquisto di una copia stampata on demand dello stesso libro, associata all’accesso on line. Il servizio sarà disponibile dal primo quadrimestre 2010 (secondo quanto annunciato) sia tramite lo stesso Google Books sia tramite rivenditori partner, in primis le librerie on line che lo desiderino.
Siamo all’oggi (di chi scrive, metà novembre) e al nuovo Settlement, che con vezzo un po’ stucchevole i protagonisti amano chiamare Settlement 2.0 e i loro avvocati con un inevitabile acronimo: ASA – Amended Settlement Agreement.
Viene depositato sul filo di lana, alle 23.55 del venerdì 13 novembre. La principale novità è la limitazione della validità dell’accordo ai libri USA, del Regno Unito, Australia e Canada. Tuttavia, se un libro edito in un diverso paese è stato registrato in passato presso il Copyright office di Washington, rientra anch’esso nel Settlement. Il che crea certamente problemi, in quanto in passato, fino alla fine degli anni settanta, era prassi comune registrare le opere negli Stati Uniti (che all’epoca non aderivano alla Convenzione di Berna), così che il numero di libri non USA che restano nel Settlement è molto alto. Per giunta non facile da stimare al momento, in quanto i registri dell’ufficio statunitense non sono informatizzati che dalle registrazioni del 1978. Né sono esclusi gli autori italiani che abbiano avuto le loro opere tradotte in inglese, perché le traduzioni sono considerate opere autonome e quindi, se edite in uno dei quattro paesi coinvolti, sono dentro. Insomma, sembra proprio che le cose non possano essere semplici, in questa vicenda.
Ciò nonostante, sembra che la lunga battaglia condotta dagli editori europei abbia dato dei frutti. Le dichiarazioni di Google alla presentazione del nuovo accordo sono improntate all’apertura. «We look forward to continuing to work with rightsholders from around thè world to fulfil our longstanding mission of increasing access to all thè world’s books», è la prima dichiarazione di Dan Clancy, il direttore di Google Books, con il tipico linguaggio di BigG, pieno di «longstanding mission» e riferimenti all’accesso ai libri, mai a interessi commerciali. La sostanza è una accettazione (che sarà da verificare nei prossimi mesi) che per digitalizzare i libri occorre «lavorare con gli aventi diritto», non contro di loro.
Tra le altre novità, molte sono assai tecniche e richiederebbero un nuovo capitolo. Riguardano soprattutto il tentativo (si vedrà quanto riuscito) di rendere meno evidenti gli effetti anticompetitivi sul mercato. Tra le altre cose, viene finalmente accettato che vi sia un controllo, da parte del Registry, della qualità del lavoro di Google nella determinazione dei fuori commercio.
Alcune sembrano di particolare importanza. Le opere che resteranno non rivendicate, quindi senza padrone («orfane», come usa dire), non saranno più gestite dal Registry, ma da un fiduciario ad hoc nominato dal Tribunale. E inoltre istituito un obbligo per il Registry di spendere parte delle risorse accantonate, derivanti dall’uso di queste opere, per cercare attivamente gli aventi diritto. Una delle critiche principali che veniva dall’Europa era appunto l’assenza di quella che nel vecchio continente è chiamata «ricerca diligente» dell’avente diritto. Semplicemente si prevedeva che le opere venissero usate e l’autore o l’editore doveva palesarsi per esercitare i propri diritti. Un principio di ricerca diligente viene invece introdotto. Certo, non secondo i modelli europei, perché è prevista dopo che le opere sono state digitalizzate, mentre in Europa è invece prevista necessariamente prima. Ma è un avvicinamento importante verso un «modello europeo». Se il Registry diverrà nel tempo efficiente, e se parallelamente Arrow in Europa farà lo stesso (Google ha a più riprese dichiarato di voler utilizzare anche il sistema europeo) e se infine i due sistemi dialogheranno come nelle intenzioni si apprestano a fare – le distanze tra i modelli saranno minime, perché l’efficienza potrà consentire di colmare gran parte del gap tra quel prima e quel dopo. Anche perché è stata introdotta una ulteriore regola: che Google possa usare i libri non reclamati solo 60 giorni dopo la loro definizione come fuori commercio, così da dare al Registry il tempo di fare delle ricerche. Se ci saranno sistemi efficienti, nel mondo, a supporto, il termine di 60 giorni è realistico per rendere i due sistemi molto più simili (con un’avvertenza politica, tuttavia: che le modalità di licenza delle opere orfane/non reclamate sia regolata dalla legge e non dall’accordo privato con un solo utilizzatore, così da evitare i monopoli di fatto).
Una dimostrazione che nel mondo del libro, alla fine, l’Europa è ancora in grado di imporre il proprio punto di vista. Si spera ancora a lungo.