La controparte più debole

L’obiettivo di fare gli interessi degli autori – non soltanto economicamente – basterebbe già a giustificare il mestiere dell’agente letterario. Ma il delicato ruolo di mediazione tra autore ed editore non si risolve nella stipula del contratto: tant’è che oggi pochissimi scelgono di farsi rappresentare da un avvocato piuttosto che da un agente. In un mercato librario sempre più «senza editori» e con sigle editoriali ormai sovrapponibili tra loro, per la valorizzazione di un autore e della sua opera diventa essenziale l’individuazione del marchio per cui pubblicare, e la conoscenza della sua «faccia nascosta».
 
Nei primi tempi in cui facevo l’agente, un mio autore mi chiese di dare un’occhiata a un libro di un amico, in cerca di editore. Ne lessi alcune pagine e lo richiamai: «Il libro mi sembra brutto, mi dispiace ma non mi interessa rappresentarlo». Al che, il mio autore: «Sono d’accordo con te, il libro non vale, ma appunto per questo te l’ho mandato: visto che i libri buoni si vendono anche da soli, pensavo che un agente servisse a vendere quelli cattivi!».
Era una battuta, tant’è che l’autore – convinto di non scrivere libri brutti – aveva deciso di farsi rappresentare da un agente. Quel paradosso conteneva tuttavia, a ragione, un certo disorientamento verso questa nuova (non nuovissima per la verità) figura dell’editoria e contiene in sé la prima domanda da cui vorrei partire per tracciare un personale, e necessariamente incompleto, ritratto del lavoro di agente.
Che cosa fa un agente letterario?
Il primo compito di un agente è senza dubbio quello di difendere l’autore – in quanto controparte più debole – nei confronti dell’editore. Lo diceva già Erich Linder, ed è un principio che ispira anche la nostra legislazione sul diritto d’autore: il rapporto autore/editore è un rapporto squilibrato a favore del secondo, che ha nella stragrande maggioranza dei casi più forza economica, più conoscenze tecniche, più informazioni sul mercato, e dunque la funzione dell’agente è quella di riequilibrare per quanto possibile la bilancia. Gli autori che hanno in un dato momento della loro carriera più potere contrattuale rispetto ai propri editori si contano a un paio di dozzine al massimo. Alcuni pensano che l’avvento dell’e-book (di cui non parlerò qui, lasciando il campo all’amico Stefano Tettamanti) possa cambiare radicalmente il rapporto di forza tra autore ed editore a tutto vantaggio del primo: io ho qualche dubbio che l’autore, pur potendolo tecnicamente fare, vorrà essere nella maggior parte dei casi editore di se stesso e penso perciò che, anche nell’editoria elettronica, l’autore rimarrà pur sempre un «prestatore d’opera» e andrà quindi tutelato di conseguenza.
L’obiettivo di fare gli interessi degli autori, non solo economicamente (dato che il compenso è solo una parte, per quanto importante, di un complesso di regole che viene istituito dal contratto) basterebbe già da solo a giustificare il mestiere dell’agente: liberando l’autore da questo tipo di preoccupazioni, gli si dovrebbe consentire di applicarsi con più serenità al suo lavoro. La parola serenità non è del tutto pertinente, perché il lavoro dell’autore è comunque un lavoro durissimo, solitario e pieno di dubbi e di angosce. E l’agente su queste ultime ha un potere abbastanza relativo.
Ci si può chiedere dunque: se il lavoro dell’agente si risolve una volta negoziato e firmato il contratto, non sarebbe meglio affidarsi a un avvocato?
E in fondo quello che hanno fatto nel passato quasi tutti i grandi autori italiani che non erano rappresentati da Erich Linder: Moravia e Pasolini, per citarne solo due. E se l’agente non è altro che «l’avvocato degli autori», nel senso ampio del loro patrocinatore, perché non rappresenta tutti quegli autori che chiedono il suo patrocinio?
Ritornando al «cattivo» autore dell’aneddoto iniziale, ricordo di averlo rifiutato per diverse ragioni: perché il suo libro mi pareva «fatto male» (penso infatti che si possa fare bene qualsiasi tipo e qualsiasi genere di libro), e di conseguenza non avrei potuto promuoverlo con convinzione presso nessun editore di cui avessi stima, e perché, infine, molto probabilmente, il mio tempo e il mio sforzo non sarebbero stati abbastanza ricompensati dal risultato che avrei potuto ottenere, ovvero dal contratto che avrei negoziato con l’ipotetico editore. L’agente letterario non emette parcelle come gli avvocati e i medici, ma il suo guadagno è una percentuale del guadagno dell’autore. Gli avvocati sono senza dubbio più preparati degli agenti in materia di diritto della proprietà intellettuale e, tuttavia, non è un caso se, a differenza di quello che accadeva qualche decennio fa, sono oggi pochissimi gli autori che scelgono un avvocato piuttosto che un agente. In tal modo gli autori sono i primi a riconoscere che il contratto è solo una parte, la prima fase per dire così, della difesa dei loro interessi, della valorizzazione della loro opera.
Il lavoro dell’agente dunque non finisce con il contratto di edizione?
Naturalmente no: al contratto sono arrivato un po’ prematuramente, spinto dalla definizione di Linder (che non rinnego affatto) dell’agente come «defensor auctoris»; del resto, anche la regina d’Inghilterra è sulle monete «defensor fidei» ma non fa solo il mestiere di difensore della fede anglicana.
All’origine del rapporto agente/autore c’è un testo, ed è proprio questo testo che deve in qualche misura emozionare o almeno interessare molto l’agente: perché è bello, perché è buono o perché è vendibile. Anche se in Italia non sta bene dire di fare una cosa per denaro e per amore, oppure per denaro e per passione, oppure per denaro e per il bene pubblico, il denaro entra senza fare complimenti anche nell’editoria. Per smascherare questa ipocrisia, un noto manager scrisse alcuni anni fa un libro sull’editoria che si intitolava A scopo di lucro, cadendo anch’egli, mi sembra, nella fallacia che non si possano tenere insieme le due cose. A me pare invece evidente che tutti – autori, editori e agenti – facciano il loro lavoro, come si firmava Cosimo il Vecchio, «per Dio e per guadagno».
Se «c’è il libro», come si dice, ci può però essere bisogno di migliorarlo, di fargli tirare fuori qualche potenzialità nascosta. L’agente, in quanto primissimo o tra i primi lettori del libro, può confermare l’autore nel giudizio di aver scritto una buona cosa (e quasi tutti gli scrittori, proprio perché svolgono un lavoro solitario e durissimo, hanno bisogno di conferme) e può indicargli i punti deboli o quelli invece forti da sviluppare.
A proposito di editing, un’estate sì e una no, si leggono accesi dibattiti sull’opportunità di questa pratica, se sia un bene o un male, sottintendendo spesso che si tratti comunque di un intervento volto a edulcorare il libro, a renderlo più gradito al palato del pubblico. La realtà è, secondo la mia esperienza, assai diversa. I veri scrittori – cioè chi scrive non importa a quale livello ma comunque con consapevolezza, non i numerosissimi mitomani – sentono quasi sempre se e in che misura un libro ha bisogno di un aggiustamento e si rivolgono a una o più persone competenti (altri scrittori, agenti ed editor) perché gli siano indicati il dove e il come. Alcuni suggerimenti saranno accolti e altri respinti, e alcuni rarissimi libri escono perfetti dal computer dell’autore, ma l’editing è in ogni caso un lavoro fatto nell’interesse e nello spirito del libro stesso, mai contro di esso.
Ma allora l’agente – questo ladro di mestieri altrui – prima fa lo scout, poi l’avvocato e poi l’editor?
Sì e no. L’agente può anche fare l’editor (magari perché l’ha fatto in una vita precedente) ma non può e non deve mai sostituirsi all’editor o al redattore: la sua opera ha molte più possibilità di successo se si incrocia e si somma all’opera di un editor forte. Non è vero, come si dice spesso, che gli agenti proliferano perché gli editor scarseggiano. A scarseggiare sono semmai gli editori (alla Valentino Bompiani, alla Mario Spagnol), cioè quelle figure che sono capaci di «cavalcare» un libro e condurlo al successo, mentre l’editoria italiana ha molti ottimi editor. Uno dei compiti dell’agente è appunto quello di trovare per il suo autore/libro l’editor giusto. Per usare una similitudine, l’autore/libro è come una donna (o un uomo) che ha diversi innamorati – l’agente, l’editor e poi a cascata l’art director, l’ufficio stampa, fino ad arrivare al libraio – ed è dalla unione, dalla collaborazione di tutti questi Cherubini che sorge il successo. In tutta evidenza, tale aspetto del lavoro dell’agente, che precede e insieme segue la definizione del contratto, ha poco o nulla in comune con la professione dell’avvocato.
Il ruolo crescente degli agenti nell’editoria italiana è il segnale di una crescente commercializzazione?
L’editoria non è stata mai «pura», neppure in mitici passati evocati e rimpianti: è un’attività anfibia tra cultura e denaro. L’accusa rivolta agli agenti di esasperare l’avidità di denaro degli autori e ridurre sul lastrico gli editori «di cultura» non sta in piedi. In un libero mercato, nessuno obbliga nessun altro a stipulare un contratto che non convenga (per ragioni economiche o anche per altre ragioni, di prestigio, di pubblicità ecc.) a entrambe le parti. Gli eccessi eventuali (autori strapagati che vendono pochissimo) si livellano da soli nel breve o nel medio periodo. Perché, dunque, non si parla mai degli autori sottopagati, ovvero di quegli autori italiani che ancora oggi, nonostante alcuni di loro dominino le classifiche, vengono pagati mediamente meno degli autori stranieri? Quello che è vero, invece, è che gli agenti oggi hanno maggiore spazio di quanto avessero fino a due o tre decenni fa, perché, come dicevo prima, i veri editori scarseggiano e le sigle editoriali si sono uniformate o se vogliamo «omogeneizzate», e quindi lo stesso autore ha più case editrici tra cui scegliere che potrebbero pubblicarlo. Un tempo sarebbe stato inconcepibile che un autore adatto al catalogo Einaudi o Adelphi potesse anche figurare bene nel catalogo Piemme o Rizzoli, oggi invece è la regola.
In un’editoria così fatta, il ruolo dell’agente nella scelta di un marchio editoriale per il suo autore è cruciale, come pure è importante la capacità di muovere un autore da un marchio a un altro, quando le condizioni ottimali che avevano determinato quella scelta non ci sono più.
Ma la somiglianza e intercambiabilità dei marchi e delle case editrici riguarda più la faccia esposta al lettore e non la «faccia nascosta», che è quella che l’agente deve saper valutare per conto dell’autore, prima di affidargli la sua opera. L’editore ha un buon editor, un buon ufficio stampa, una buona distribuzione e promozione, rispetta gli impegni presi e quindi le prerogative dell’autore (scelta del titolo e della copertina, consultazione su cessioni di diritti e così di seguito), ha una contabilità affidabile e paga puntualmente? Nonostante esistano – e ne nascano ogni decennio uno o due nuovi – degli ottimi piccoli e medi editori, il vero motivo per cui gli agenti (e gli autori stessi) preferiscono sovente i grandi editori o gli editori medi con una lunga tradizione alle spalle, è proprio perché garantiscono meglio l’autore sui punti che ho appena elencato.
Una volta felicemente concluso il matrimonio autore/editore che ruolo può ancora svolgere l’agente?
Ogni editore pubblica molti libri: è questa un’ovvietà che l’autore consciamente riconosce e che pure non riesce ad accettare fino in fondo. Per lui, o per lei, c’è solo il suo libro e la «poligamia» dell’editore viene naturalmente sentita come un insopportabile tradimento. In termini meno psicologici, il rapido avvicendamento dei titoli all’interno di una casa editrice apre una stretta finestra temporale entro la quale il singolo libro può affermarsi. L’agente, una volta sistemato il libro presso l’editore, ha il compito di aiutarlo ad allargare il più possibile questa finestra, di creargli per quanto possibile uno spazio per respirare. E difficile, ma è un’esigenza che l’autore, giustamente, sente con forza e sulla quale l’agente deve impegnarsi – anche a costo di causare attrito con gli ingranaggi implacabili della casa editrice, di essere percepito insomma come un rompiscatole.
Naturalmente, ci sono autori che cercano in un agente unicamente un bravo intermediario, un abile mercante dei loro diritti. Sono autori che magari già hanno un consigliere letterario oppure un editor di vecchia data e si rivolgono all’agente solo per questione di soldi. Autori che spesso non ti fanno nemmeno vedere il loro libro prima di darlo all’editore, che ti avvisano di voler cambiare editore il giorno dopo che hanno già preso accordi («Su tutto, tranne che sui soldi, per cui dovrà parlare con il mio agente» – ma che vorrà dire essere d’accordo su tutto tranne che… ?). Personalmente ne conosco pochissimi: chiedono che gli si dedichi poco tempo, ma ho sempre l’impressione che in un tale rapporto manchi qualcosa, una fiducia, mi viene da dire un’intimità, senza la quale è difficile fare davvero gli interessi (dico una parola grossa, il «bene») di qualcuno. Anche se mi accade, come a molti colleghi dell’editoria nei più diversi ruoli, di lamentarmi a volte di questa intimità – delle telefonate fuori orario, delle lunghe recriminazioni e delle richieste impossibili – devo ammettere che non potrei farne a meno, che per me fa parte integrante di un rapporto che, soprattutto se continua negli anni, diventa di vera e propria amicizia.