Gli inquinamenti dell’editoria scientifica

In mancanza di un affidabile sistema di peer review, molte pubblicazioni open access si aprono a contenuti discutibili – quando non a provocatorie truffe – e oggi più che mai si pone il problema di una categoria di professionisti, detective archivisti o viceversa, in grado di garantire l’attendibilità dei contributi.
 
L’editoria scientifica non è mai stata così redditizia. Prima di descriverne il presente stato di confusione, forse conviene fare un sunto delle puntate precedenti. Nel 1665 – poi cerco di sbrigarmi – il segretario della Royal Society, Henry Oldenburg, adottò una nuova tecnologia per disseminare le conoscenze. Per la prima volta fece stampare gli interventi dei membri nei Proceedings of the Royal Society, che esistono tuttora. Nei secoli successivi, accademie, università e editori commerciali di riviste scientifiche – economia, psicologia e sociologia comprese – si diedero regole comuni che i redattori devono applicare per garantire qualità e affidabilità degli articoli. In cambio di questo valore aggiunto, gli scienziati cedono agli editori ogni diritto sulle proprie pubblicazioni. Nel 1991, il fisico Paul Ginsparg adottò una nuova tecnologia per raccogliere nel «magazzino pubblico» chiamato poi arXiv.org i testi in formato digitale che i fisici si scambiavano in bozza o comunque prima che venissero stampati da una rivista. Negli anni successivi, arXiv.org si aprì anche a discipline affini e nel 2013 sfiorava i 900mila articoli. Finanziato dalla Cornell University che lo ospita e da piccole donazioni, la sua gestione costa soltanto 400mila dollari all’anno. Non ha una peer review, solo moderatori, e se ne può ignorare tranquillamente il 90% del contenuto (compreso un testo uscito un 1° aprile, di cui dirò altro solo in presenza del mio avvocato). Però è qui che il matematico russo Grigorij Perel’man ha depositato quatto quatto la prova della congettura di Poincaré, tra altre. E qui che si trovano riflessioni e approfondimenti su concetti fondamentali come quello di simmetria, per esempio, che non avrebbero tanto spazio altrove.
Perché non fare un archivio analogo per le ricerche biomediche, assai più rilevanti del bosone di Higgs per la vita dei cittadini che le finanziano? si chiese l’oncologo Harold Varmus, premio Nobel per la medicina nel 1989, all’epoca direttore generale dei National Institutes of Health americani, il più grande e ricco conglomerato di centri di ricerca che ci sia al mondo. Dopotutto, gli scienziati sono già pagati per scrivere i propri risultati e valutare quelli altrui, perché mai i loro articoli sarebbero proprietà esclusiva degli editori? La resistenza dei ricercatori, delle industrie biomediche e degli editori fu tale che PubMed dovette limitarsi ad archiviare i riferimenti bibliografici e il sunto di ogni articolo. Nel frattempo, le riviste risparmiavano sui costi di stampa e distribuzione pubblicando direttamente gli articoli sul web dietro un paywall superabile solo dagli abbonati, e dai giornalisti accreditati. Quelle su carta erano più che altro per amici e parenti degli autori, e per le biblioteche del terzo mondo, prive di connessione veloce e spesso di elettricità. Il settimanale «Nature», al quale la stampa accosta sempre aggettivi quali «prestigioso» o «autorevole», tira meno di cinquantamila copie.
I profitti lievitavano. Nel 2012 erano in media del 20% per le riviste di accademie e altre associazioni scientifiche, del 30% per le case editrici universitarie, del 37 % per i grandi editori commerciali e del 50% per la Hindawi Corporation, fondata nel 1997 da due giovani egiziani, che ora pubblica oltre trecentocinquanta riviste esclusivamente online e in open access.
Nel 2000 iniziava la rivolta degli sfruttati, trentamila scienziati si impegnavano a boicottare gli editori commerciali, rei anche di strozzinaggio. Alle università vendono pacchetti di abbonamenti a prezzi esosi, in effetti. Dentro ci sono – per esempio – alcuni trimestrali di neuroscienze da ventimila euro/anno.
Un gruppuscolo di genetisti californiani, organizzati e incitati da Harold Varmus per altri versi favorevole al libero mercato, fondò la Public Library of Science, con nove milioni dalla Fondazione Moore. Chi vi pubblica paga da milleottocento a tremila dollari, ma molto meno o niente se gli autori sono di un paese povero e non ricevono appositi sussidi dalla fondazione di George Soros, da agenzie dell’Onu o altri benefattori. Fu un successo: tra il 2002 e il 2006 la Plos varò sette riviste, preziose anche per le Ong umanitarie e sanitarie. Dove, se non su «Neglected Tropical Diseases» scoprire che un farmaco non più brevettabile cura la bilharziosi meglio di uno nuovo e venti volte più caro? La Plos bruciò presto i milioni di Betty e George Moore che dal 2006 ne donarono altri quattro per trovare una soluzione. Si chiama «Plos One», una rivista dalla «revisione leggera» e con interventi redazionali minimi. L’articolo costa in media 1200 dollari, pochi se si considera che di solito gli autori sono più di tre e gli enti di appartenenza più di due. Oggi i profitti di «Plos One» su circa 4500 articoli/anno ripianano il deficit delle altre testate. Qualche volta escono articoli di cui nessuno sembra aver controllato la plausibilità, è vero. Però ricercatori importanti che sarebbero ospitati gratuitamente da «Celi», ma dopo mesi di coda, preferiscono la sua rapidità e gratuità per chi legge, soprattutto se i risultati riguardano patogeni pericolosi per animali umani e non, come una mutazione letale in un virus prima ben tollerato.
Ho quasi finito il sunto delle puntate precedenti. Ma per avere un’idea del contesto, bisogna tener conto di altri cambiamenti avvenuti dalla seconda metà del secolo scorso. In ordine cronologico, i principali mi sembrano: la regola ormai mondiale del «pubblicare o perire» per cui finanziamenti, assunzioni e promozioni si basano anche, e a volte soltanto, sulla quantità degli articoli prodotti da un ricercatore, delle loro citazioni da parte di colleghi (citation index) e sull’autorevolezza della rivista nella quale sono usciti (impact factorY, la vendita di questi indici, fattori e altre metriche da parte dell’agenzia Thomson Reuters; la moltiplicazione di blog e social network di e per scienziati; l’efficacia crescente di Google Scholar e degli algoritmi di data mining; i bonus da diecimila dollari versati da enti pubblici in Cina – e somme ignote in India, Sudest asiatico, Golfo Persico e Africa subsahariana – ai ricercatori che pubblicano su riviste con un fattore d’impatto elevato; nei paesi occidentali, la decisione di includere nei fondi per una ricerca quelli per la sua pubblicazione in open access immediato o ritardato di sei o dodici mesi, sul sito dell’editore, degli autori o delle istituzioni.
Per le biblioteche universitarie, l’open access sarebbe un bel risparmio se gli abbonamenti alle riviste dietro paywall costassero sempre meno; invece dal 1992 aumentano del 6% all’anno. Springer è stato il primo editore commerciale ad accorgersi che l’open access rendeva bene e nel 2008 comprò in blocco le riviste di BioMed Centrai. Oggi tutti offrono l’opzione open access a un prezzo medio di 1800 dollari, con punte fino a diecimila dollari. In confronto, le 3Ornila nuove riviste dei quattromila editori nati online in questi ultimi anni chiedono cifre modeste: dai cinquanta ai seicento dollari, con punte fino a seimila.
In un caso su dieci (media delle stime di Stevan Harnad, Université du Québec, e di Jeffrey Beali, University of Colorado, che ringrazio dell’aiuto) quelle riviste sono caricature, contraffazioni o truffe. Si va dallo straccio con l’etichetta Hermès incollata sopra – un sito con il logo di «Jokull», una piccola e ottima rivista di vulcanologia artica che non aveva ancora un sito proprio, e sotto il logo rubato varie stangate da pagare in anticipo cliccando sul bottone «Paypal», ma l’articolo inviato in Pdf non compare mai – fino alla valigia Vuitton che va esaminata nei particolari per distinguerla dall’originale: i titoli di tutte le riviste di un editore tradizionale, preceduti da OA per open access.
Come tanti, milito dal 1992 per un arXiv.org universale. Adesso che sta spuntando e che gli autori si tutelano dai furti con forme di copyright che dovrebbero interessare anche gli editori di riviste non scientifiche, non voglio che lo rovinino gli «editori predoni» (predatory publishers, termine coniato da Jeffrey Beali). Va difeso, ma siamo ancora in pochi e servono rinforzi: bibliotecari supercompetenti che tolgano la fantascienza archiviata spudoratamente da certi ricercatori sul web della propria istituzione, evitandole brutte figure internazionali.
Nove volte su dieci, i nuovi editori commettono errori di forma e di sostanza, imparano e si correggono. I più interessanti sono quelli che si ribellano alla «dittatura della bibliometria», fanno esperimenti… e sottovalutano regolarmente – a mio avviso – la scelta dell’editore (scelte dei direttori in realtà, spesso giudizi di valore su quello che è rilevante per la comunità di riferimento, ma anche scelte etiche ed estetiche. Forse sembrerà strano, ma Philip Campbell, il direttore del gruppo Nature, parla della propria funzione come Roberto Calasso della propria in L’impronta dell’editore), il lavoro redazionale e la competenza tecnica sottostanti a un articolo scientifico, alla sua compatibilità con altre piattaforme, codici, rimandi ai dati grezzi nei depositi permanenti, bibliografia a norma, insomma tutto quello che lo rende utile ad altri e lo valorizza. Gli editori inesperti sono le prime vittime dei venditori di indirizzi e-mail ai quali sollecitare un articolo, offrire posti nei comitati scientifici e di redazione; di fattori d’impatto prima ancora che una rivista esca; di decine o centinaia di false citazioni in false riviste; di migliaia di «mi piace» sui social network. Con la complicità di ricercatori disonesti.
Il successo di «Plos One» ha coinciso con l’arrembaggio dei predoni. Nel 2009 Philip Davis, uno studente della Cornell University, sospettò che le riviste di Bentham Science Publishers non praticassero la peer review che garantivano. Insieme a Kent Anderson, un redattore del «New England Journal of Medicine», mandò all’«Open Information Science Journal» un articolo partorito dal programma SCIgen (http://pdos.csail.mit.edu/scigen/), un generatore di prosa parascientifica inventato al Massachusetts Institute of Technology. Firmarono D. Phillips e A. Kent del Center for Research in Applied Phrenology (Crap = sterco), un testo che venne accettato in cambio di ottocento dollari da spedire in una casella postale degli Emirati arabi uniti. Declinarono l’offerta, ma la loro corrispondenza con la redazione fece il giro delle riviste serie e non. La prima prova del programma MathGen ottenne lo stesso risultato nel 2012 con «Advances in Pure Mathematics», di Scientific Research Publishing. (Ai lettori en panne d’imagination che volessero farsi scrivere qualcosa da MathGen, raccomando il generatore di teoremi inventato da David Simmons-Duffin: http://davidsd.org/theorem/. )
Dai predoni acquistavano crediti soprattutto ricercatori del terzo mondo. Gli italiani erano rari fino all’estate 2012, quando un gruppo del dipartimento di Ingegneria strutturale, edile e geotecnica del Politecnico di Torino si comprò su «Scientific Research and Essays» un lussuoso full length research paper intitolato Neutroni piezonucleari da terremoti quale ipotesi per la formazione dell’immagine e la datazione con radiocarbonio della Sindone di dorino (http://www.academicjournals.org/article/arti- clel380798500_Carpinteri%20et%20al.pdf). Riscrivono la storia della Terra, quella dell’impero romano e il Nuovo Testamento, escludendo a priori la ventina di sudari attestati da fonti storiche. Considerano invece «i documenti storici che attestano l’occorrenza nella “Vecchia Gerusalemme” di un terremoto disastroso nel 33 a.D.». Per «documenti», intendono poche parole tratte dal Vangelo di Matteo, forse postulando che i romani amministrassero l’impero a voce. Quel 3 aprile, «un evento sismico di magnitudo tra 8 e 9 gradi della scala Richter» durato quindici minuti (minuti, avete letto bene) lacera la tenda del Sinedrio senza causare altro danno. L’Angelo «rotola la pietra» (Matt. 28:2) per un quarto d’ora applicando un «carico meccanico» che ne fa uscire «un flusso di neutroni termici fino a 10 alla 10ma per cm2 al secondo». Una discreta bomba nucleare a neutrone, la cui esplosione lascia per un attimo «come morti» i centurioni di guardia che poi scappano a gambe levate e dà all’Angelo un «aspetto come di folgore» (Matt. 28:3-4). Gli abitanti emergono sanissimi sia dal terremoto che dal flusso letale tant’è che nel 70 d.C., mentre con una mano i romani ne abbattono le case, con l’altra ne devono passare a fil di spada la discendenza. Quanto alla Sindone, emerge che pare lavata con Perlana salvo nei punti «dove l’evento può aver contribuito sia alla formazione dell’immagine che all’aumento in C-14 sulle fibre di lino». L’ipotesi dell’immagine e del C-14 si fonda su esperimenti con casalinghi avvolti in teli intrisi di essenze e unguenti, in una cantina privata di Torre Pellice in cui avverrebbero minisismi, causati da una soprano occasionalmente rapita dagli alieni. Sono questi test a indicare che la Sindone torinese risale a 1980 anni fa.
In Italia il research paper del Politecnico di Torino sdoganò, per dirla con il direttore di tirature, la letteratura scientifica post-postmoderna. Pochi mesi dopo il dotto Francesco Celani dell’istituto nazionale di fisica nucleare riciclava da un editore polacco una vecchia presentazione in Power Point e in un inglese esilarante, sulla presunta energia ricavata da una cella di sua invenzione. Fra i coautori, aveva aggiunto parenti, colleghi di parenti e propri, e il titolare della start up britannica che cerca fondi per sviluppare la cella e metterla in commercio. Altrettanto esilarante l’inglese con il quale, sul «Journal of Agricultural Science and Applications», l’ingegner Ubaldo Mastromatteo della STMicroelectronics riscriveva in quei giorni la Genesi con un’interpretazione creazionista del secondo principio della termodinamica, di moda fra alcuni evangelisti americani un decennio fa. In un inglese impeccabile invece, nella primavera del 2013, Nicola Scafetta – cervello matematico fuggito in un’università del North Carolina – batteva il record mondiale di autocitazione con ventotto articoli propri inseriti nelle bibliografie di due articoli quasi identici. In entrambi accusa un complotto mondiale di climatologi di «false configurazioni» e di diffondere un allarmismo ingiustificato. I gas serra non hanno alcun effetto serra, sostiene Scafetta, e lo dimostra usando le congiunzioni Giove-Saturno, condite con armoniche lunari quanto basta, per prevedere cicli passati e futuri di raffreddamento e riscaldamento del clima terrestre lunghi a piacere «20-30… 900-960… 80mila anni». Mentre c’è, pretende che F astrologia sia riammessa tra le scienze autorevoli poiché «nel 1345 d.C., una congiunzione Giove-Saturno è avvenuta nel segno zodiacale dell’Acquario» e alcuni astrologi del tempo l’hanno giustamente «collegata all’epidemia di Peste nera». Si poteva collegare anche a Saturno in Capricorno e alla Luna nei Pesci, presumo, comunque è chiaro che dal Novecento un complotto mondiale di biologi ed epidemiologi propina una falsa configurazione della Yersinia pestis.
Sono storie comiche finché restano nel mondo virtuale, in quello reale possono avere conseguenze tragiche. A Bologna, la Naturai Pharma International spaccia un estratto d’alga che, promette con un elenco di pubblicazioni risibili, cura la malaria in cinque ore e l’Aids in cinque giorni. In un’inchiesta della Procura romana chiusa nell’agosto 2013, si legge che la setta del guru Danilo Speranza – già sotto processo per pedofilia – ha raccolto milioni per una tecnologia che ricaverebbe farine alimentari per animali umani e non dagli scarti dell’agricoltura e porrebbe fine alla fame nel modo. Non solo la tecnologia – una macinatrice che nessuno ha mai visto in funzione – ha ottenuto il parere positivo dei ministeri della Sanità, dell’Agricoltura e della Ricerca, ma il «Centro studi e ricerca» della setta riscuoteva il 5 per mille e i suoi «ricercatori», tra i quali il professor Dell’Omo dell’università La Sapienza, pubblicavano colossali bufale sulla rivista di divulgazione «Scienza e Conoscenza». In open access, bien sur.
Le autorità accademiche e amministrative non si sognano di difendere la cultura, men che meno la sua parte scientifica. Tollerano ogni misconduct, ogni strappo al patto di fiducia che, stando ai sondaggi delI’Eurobarometro, lega ancora scienziati e cittadini. Il sapere sembra potente come non mai, salvifico addirittura, si pensi a chi invoca la knowledge economy. Invece è fragile, indifeso, ha bisogno di cani da guardia, di bibliotecari con una formazione scientifica, di informatici con una formazione da bibliotecari, di detective archivisti o viceversa e di altre professioni da inventare. Noi dilettanti della nettezza culturale siamo sopraffatti.