«Liberi tutti». I bilanci dei grandi gruppi della varia

Tutti i grandi gruppi editoriali, chi più e chi meno, soffrono la crisi e non basta qualche isolato successo per dipingere un quadro roseo, segnato dalla spiccata diminuzione dei soldi spesi dagli italiani per il tempo libero e la cultura.
 
«Liberi tutti». È all’uscita su via San Marco a Milano, dietro il palazzo di via Solferino dove a ottobre si sono riuniti i grandi della finanza, seduti al tavolo del patto di sindacato del gruppo Rizzoli-Corriere della Sera, che il presidente Francesco Merloni ha annunciato che tutti i soci sono liberi di prendere la propria strada. Il gruppo è in difficoltà perché ha chiuso l’ultimo bilancio in rosso per cinquecento milioni di euro e ha debiti per quasi un miliardo. La crisi dell’editoria, con tutti i suoi mali, è riassunta qui. Il «salotto buono» era un posto comodo da cui guardare e influenzare l’opinione dell’Italia. A lungo l’industria dei giornali e dei libri è stata considerata, per dirla in termini borsistici, una cash cow, una vacca grassa in grado di produrre con poco sforzo soldi in contanti. Pagando un piccolo biglietto d’ingresso sotto forma di azioni, con l’assenso di Mediobanca e di Banca Intesa, ci si poteva sedere nella prima fila di Rizzoli. A fine anno si percepiva anche il dividendo. La crisi, però, ha cambiato le carte in tavola e dopo trent’anni il patto Rcs si è sciolto. Con l’ultimo bilancio, ai soci è stato chiesto di mettere mano al portafoglio: quattrocento milioni di euro subito per evitare di portare i libri in tribunale e poi altri duecento milioni più avanti. Merloni, che quella sera era in compagnia di banchieri, assicuratori (Renato Pagliaro per Mediobanca e Generali, Giovanni Bazoli per Banca Intesa e Pierluigi Stefanini per Unipol) e industriali di ogni tipo (John Elkann per Fiat, Marco Tronchetti Proverà per Pirelli, Giuseppe Lucchini e Giampiero Pesenti per Italmobiliare), ha preso atto che non tutti, lui per primo, avevano intenzione di investire altri soldi nell’avventura editoriale di Rizzoli. Nel nuovo mondo, quello in cui si è capito che anche una banca come la Lehman Brothers può fallire, non c’è più spazio per i fronzoli. Chi si occupa di elettrodomestici deve vendere lavatrici, chi di assicurazioni polizze, e chi di gomme pneumatici. Perfino chi fa il banchiere ha capito che deve fare unicamente il banchiere. Solo la Fiat ha pensato bene di raddoppiare la propria quota nel capitale della Rizzoli, dal 10% al 20%, o perché è già editore della «Stampa» o perché ritiene ancora che per essere imprenditori in Italia non è male avere una presenza nella stanza dei bottoni del più importante gruppo editoriale del paese. E giustamente a Rizzoli – che oltre a pubblicare il primo quotidiano italiano è la seconda azienda di libri dietro Mondadori – ha guardato con interesse anche un altro editore, nato dalla pubblicità, Urbano Cairo: dopo aver rilevato La7 da Telecom Italia, ha rastrellato in Borsa il 2,8% del capitale Rcs, diventando un nuovo socio.
Le difficoltà economiche, però, hanno messo tutti alle corde. Nel 2012 si sono venduti meno auto, meno scarpe, meno vestiti, meno mobili, meno elettrodomestici e sono stati spesi meno soldi anche per il tempo libero e la cultura (-5,4%). Gli italiani hanno rinunciato perfino a riempire il carrello della spesa con la stessa qualità dell’anno precedente. In molti hanno perso il lavoro: il tasso di disoccupazione è arrivato al 12% ed è volato al 40% tra i giovani. Sono i numeri peggiori che l’Italia abbia mai segnato da quando il dato si misura sia mensilmente (2003) sia trimestralmente (1977). E anche per chi nel 2012 ha avuto la fortuna di mantenere un posto di lavoro, i redditi non sono per niente aumentati. In un paese poi con un prodotto interno lordo in caduta del 2,4% e un debito alle stelle, superiore al 130% di quello che produce, le speranze di recupero sono ridotte al lumicino. Così, anche l’industria editoriale si è trovata per la prima volta a dover navigare a vista, di fronte a una crisi vera e non frutto dei mal di pancia degli editori. In particolare il mondo del libro, abituato anno dopo anno a una crescita di uno o due punti percentuali senza risentire delle crisi congiunturali e delle inquietudini sociali, ha registrato complessivamente un giro di affari in calo del 6,3 % a 3,1 miliardi. Nel 2010 era salito dello 0,4%, mentre nel 2011 aveva iniziato a sterzare in negativo scendendo però solo dello 0,9%. La vecchia stabilità del settore che faceva dormire sonni tranquilli all’interno del «salotto buono» è venuta meno.
Il campanello d’allarme è suonato prima nella carta stampata e subito dopo nel settore dei libri. Le cause sono le stesse: il pessimo scenario economico e la concorrenza dei nuovi mezzi digitali, in mano per lo più ai grandi operatori stranieri. Alla crisi e all’incertezza sociale, infatti, si è associato lo sviluppo tecnologico e il cambiamento dei comportamenti dei clienti/lettori. Tutto quanto può essere raccolto sotto la grande categoria di Internet sta di fatto scardinando il vecchio mondo editoriale e non solo. Il primo iPad è stato lanciato agli inizi del 2010, Kindle tre anni prima, e nel frattempo la crescita delle divisioni digitali è avanzata a doppia cifra, come avviene di solito nei mercati emergenti, senza però che i numeri dei nuovi media siano ancora stati in grado di compensare i cali di consumo all’interno dei canali tradizionali. Nel 2010, per esempio, la somma di e-commerce e e-book valeva il 5 % dei canali trade – ovvero l’insieme delle librerie, della grande distribuzione organizzata e dell’online – contro il 79% delle librerie. Tre anni dopo, valgono rispettivamente il 12% e il 72%.
Ma l’irruzione della Rete nel mercato locale italiano ha di fatto aperto il campo agli operatori stranieri, così come l’euro ha aperto l’Italia al mercato dei capitali esteri, cogliendo impreparati i «grandi» gruppi italiani, spesso arroccati su posizioni di monopolio e con strutture non adeguate per competere con avversari più che agguerriti. In altri settori, le battaglie perdute per l’italianità della Bnl, della Parmalat, dei marchi del lusso come Bulgari e Gucci, fino ai casi recenti di Telecom Italia e di Alitalia, sono sotto gli occhi di tutti. Nell’editoria, fino a oggi, uno dei limiti all’ingresso dei concorrenti è sempre stato, oltre la lingua, la distribuzione. I sei grandi nomi del settore – Mondadori, Rizzoli, GeMS, Giunti, Feltrinelli e De Agostini – controllano le principali catene retail, le maggiori reti di distribuzione e il 60% del mercato. Chi vuole entrare in Italia deve passare da loro. L’avvento delle vendite online minaccia di essere un vero uragano. Amazon, il re dell’e-commerce, ha piazzato il suo centro di distribuzione a Piacenza, in mezzo alla Pianura Padana, e da lì ha iniziato a colonizzare l’intera penisola, mentre Google ha deciso per ora di vendere i libri solo facendoli scendere dalle «nuvole» (attraverso la tecnologia cloud). Nell’incertezza delle strategie da seguire e forse nell’impossibilità di contrastare le grandi multinazionali, i gruppi italiani, da Rcs a Mondadori, da Feltrinelli a GeMS, non hanno trovato niente di meglio che allearsi con gli stranieri. Tra concorrenza, crisi e consumi in calo, il rischio di vedere crollare da qui in avanti i propri fatturati è già scritto nei bilanci 2012, come la probabilità che prima o poi anche i grandi nomi dell’editoria italiana possano finire nelle mani di gruppi internazionali.
Rcs Libri, controllata del gruppo Rizzoli-Corriere della Sera (con i suoi marchi Larousse, Bompiani, Bur, Sonzogno, Fabbri, Adelphi, Marsilio, Lizard e Sansoni), ha chiuso il 2012 in utile per 105 milioni di euro, 66 dei quali distribuiti come dividendo alla capogruppo. Ma la pur florida ultima riga del bilancio è stata falsata da quella che, al di là della bontà dei numeri, deve essere definita come una sconfitta della controespansione dei gruppi italiani all’estero. Sotto il peso dei debiti per le acquisizioni sbagliate in Spagna (leggi Recoletos), il gruppo Rizzoli ha dovuto sacrificare la casa editrice Flammarion, il suo baluardo in Francia, rilevato nel 2000 per circa 230 miliardi di lire (118 milioni di euro). Dalla vendita ha ottenuto una plusvalenza di 112,8 milioni di euro. Senza questa operazione, il conto economico avrebbe registrato una perdita di quasi 8 milioni di euro che si confronta con l’utile di 3,8 milioni del bilancio dell’anno prima. Del resto nel 2012 Rcs Libri ha avuto più costi che ricavi, tanto che il risultato operativo, la differenza tra quanto la società incassa e spende, è stato negativo per 4,5 milioni, mentre nel 2011 era stato positivo per 4,9. Il fatturato è sceso da 236 a 215 milioni del 2012. Tre i motivi che hanno afflitto i conti: nella divisione Collezionabili, la riduzione dei lanci e dei prezzi; nella divisione Varia, la contrazione del mercato e un piano editoriale più contenuto; nella divisione Education, la riduzione dei consumi delle famiglie. Tre motivi in linea con lo scenario nazionale e con la situazione del gruppo, che per la scarsa flessibilità finanziaria non ha potuto investire più di tanto su nuovi lanci. Il rischio attuale è che per fare cassa, i soci di Rcs decidano di mettere in vendita l’intera divisione Libri, sempre che si trovi un compratore, che difficilmente potrebbe essere un altro grande del mercato italiano dei libri. Nella categoria varia, domina il campo Mondadori, della famiglia Berlusconi, con una quota del 27,6%, davanti proprio a Rcs che si aggiudica ITI,3% della torta complessiva. Per diversi motivi (finanziari, politici, di Antitrust), il gruppo di Segrate non ha in programma un’espansione in Italia attraverso acquisizioni. Eppure i suoi conti, benché in calo, spiccano come i più floridi dell’editoria italiana. Nel settore libri, i ricavi sono stati di 370,6 milioni di euro contro i 389,1 milioni del 2011, in calo del 4,8%. Il risultato operativo è sceso da 65,9 a 58,3 milioni. Nonostante la flessione, la divisione ha chiuso l’anno in utile per ben 58,18 milioni. Una prova di forza del buon vecchio libro, anche perché tutte le altre attività di Mondadori, dai periodici ai servizi pubblicitari, dalle radio agli altri business, hanno registrato perdite tali da procurare al gruppo un rosso di 167,2 milioni di euro su un fatturato di oltre 1,4 miliardi. Certo, senza le svalutazioni delle attività francesi del gruppo e di Radio 101, anche il bilancio consolidato avrebbe chiuso in positivo per 12 milioni di euro, ma pur sempre pari a un terzo di quanto realizzato l’anno prima: grazie alla tenuta della divisione periodici, il profitto era stato di 49,6 milioni. Tutti i marchi editoriali del gruppo hanno comunque sofferto: Einaudi (-14,2%), Edizioni Piemme (-16%), Sperling & Kupfer (-7,5%). Solo le edizioni Mondadori hanno presentato un segno positivo alla voce ricavi (+2,7%), grazie alla trilogia erotica di E.L. James, Cinquanta sfumature di grigio, Cinquanta sfumature di nero e Cinquanta sfumature di rosso, che in Italia ha superato 3,3 milioni di copie vendute e 130mila download in e-book: da sola ha assorbito circa tre punti di mercato con un fatturato a copertina di circa 50 milioni di euro. E come se Mondadori, senza dover sborsare un euro, si fosse comprata una grossa casa editrice, annettendone i ricavi al proprio fatturato.
Più risicati i margini per il Gruppo editoriale Mauri Spagnol (GeMS), terzo in Italia con una quota di mercato nella varia del 10%. L’azienda, che complessivamente fattura 430 milioni di euro, è quella che più teme l’arrivo di grandi concorrenti come Amazon, perché ben 350 milioni di ricavi provengono dalla distribuzione e non dall’editoria, dove nel 2012 il giro d’affari è stato di 80 milioni contro gli 88 del 2011 (-9,09%). La holding che raggruppa le partecipazioni nei marchi editoriali ha visto il proprio utile scendere da 5,6 milioni a poco più di 900mila euro, mentre l’andamento dei singoli brand ha oscillato tra il segno più e il segno meno: il migliore è stato Longanesi che con Fai bei sogni di Massimo Gramellini (il libro italiano più venduto del 2012 con un milione di copie) è riuscito a crescere del 15,6%, con incassi passati da 13 a 15,1 milioni di euro. Gli andamenti sono stati positivi anche per Salani (13,6 milioni, + 3,8%), per Ugo Guanda (5,3 milioni, +4,2%) e per Casa editrice Nord (5,6 milioni, +3,8%). Negativi, invece, per Antonio Vallardi (6,3 milioni, –31%), Tea (12,1 milioni, –8,9%), Bollati Boringhieri (3,9 milioni –3,6%) e Coccinella (2,8 milioni –2,1%).
Il gruppo Giunti, che nel mercato della varia (con i marchi Dami, Motta Junior, De Vecchi, Demetra) occupa la quarta posizione con una quota del 6,2%, è stato protagonista di una riorganizzazione aziendale che ha mascherato gli effetti della crisi: sono entrate integralmente nel perimetro di consolidamento le Librerie Giunti e Giunti al Punto, mentre è uscita la partecipazione del 50% in Giunti & Messaggerie srl. Sebbene abbia fatto perdere al gruppo 72 milioni di ricavi (da 269 a 197 milioni di euro), questa operazione ha tuttavia permesso di migliorare notevolmente i margini: il risultato operativo è rimasto invariato (da 13,9 a 13 milioni di euro), e per di più la riduzione degli oneri finanziari, diminuiti da 9 a 2,5 milioni, con il deconsolidamento di una parte del debito (da 58 a 41 milioni), ha consentito al gruppo di registrare un utile di 5,5 milioni contro gli 800mila euro dell’anno prima. Se nel 2011 il gruppo avesse avuto la stessa struttura del 2012, i ricavi riclassificati sarebbero stati pari a 200 milioni di euro, in flessione del 4% circa rispetto ai 208,4 milioni del 2011; il risultato operativo sarebbe stato in calo di 1,7 milioni a 13,08 milioni; l’utile netto sarebbe stato comunque in crescita, da 1,13 a 5,58 milioni di euro, obiettivo raggiunto, però, non solo pagando meno interessi sul debito, ma anche con il taglio del personale, il ricorso alla cassa integrazione e la riduzione dei servizi esterni. Un bilancio, quindi, in linea con il calo generale delle vendite del settore, ma più contenuto rispetto ad altri per il gran colpo nell’editoria per bambini dove Giunti, già forte della leadership nella produzione per la scuola primaria, è diventata il numero uno del comparto con i libri dedicati al personaggio Peppa Pig.
Feltrinelli, quinto gruppo italiano, ha sofferto invece la mancanza di un bestseller come Vieni via con me di Roberto Saviano, che nel 2011 ne aveva trainato i conti. La speranza è che il suo ritorno nel 2013 con il titolo Zero Zero Zero ripeta il successo già ottenuto. Nel 2012 il libro dell’autore di Gomorra, in tandem con l’iniziativa speciale per le Coop in occasione della celebrazione dei 150 anni dell’Italia, aveva tenuto a galla i ricavi, mentre il nuovo libro non sembra in linea con le attese. Da tempo Feltrinelli, per non rimanere appesa alle fluttuazioni della fortuna di pubblico dei suoi autori, ha deciso di diversificare in altri settori. Nel 2012 la società ha chiuso l’anno con ricavi per quasi 430 milioni di euro, in calo del 2,7%. Il cuore del business è l’attività retail a cui fanno capo le librerie, le attività nelle grandi stazioni e negli aeroporti, dove si vende di tutto: insieme generano un giro d’affari di 340 milioni di euro, contro gli oltre 350 del 2011. L’editoria, ormai una sorta di commodity, non ha superato i 34 milioni di incassi, in calo rispetto ai 38 milioni dell’anno prima. Con i marchi Feltrinelli, Apogeo, Kowalski, Urrà e Gribaudo, la quota di mercato è rimasta al 4,1%. Le difficoltà nei consumi si sono riverberate sui margini: il risultato operativo dell’intera Feltrinelli è sceso di un milione di euro a 2,4 milioni, ma quello che colpisce maggiormente è la sua bassa incidenza sul fatturato, pari allo 0,6%. Ogni cento euro di ricavi alla società rimangono in tasca 60 centesimi, con i quali devono poi essere pagate le tasse e gli interessi sui prestiti. Diffìcile in queste condizioni arrivare all’utile. Nel 2011 il gruppo ha perso 7 milioni di euro, nel 2012 altri 6,7 milioni, solo grazie al maggior contributo del settore immobiliare che ha portato profitti per 3,4 milioni. In perdita sia il retail (-0,1 milioni), a causa delle difficoltà delle librerie tradizionali, sia l’editoria che ha chiuso in rosso per 0,1 milioni di euro, mentre l’anno precedente era in attivo per 0,3 milioni. Per il futuro il gruppo punta a crescere aprendo nuovi punti vendita con progetti immobiliari importanti, come quello di Porta Volta a Milano, ampliando la ristorazione nelle librerie («Read, eat, dream», Red) e attraverso la tv, dove ha lanciato il canale Laeffe, di cui è diventato azionista al 100% dopo aver rilevato la partecipazione del 30% in mano a La7 di Urbano Cairo. I benefici si vedranno forse nel lungo periodo: per il momento le nuove iniziative hanno solo ampliato i debiti, saliti in dodici mesi da 107 a 139 milioni di euro.
Non ha certo paura dei debiti il sesto editore italiano della varia, De Agostini, un colosso da 5 miliardi di euro che proprio nella leva finanziaria ha trovato la sua ragion d’essere. Da tempo il gruppo opera in modo simile a quello di una società di private equity, comprando partecipazioni a debito (la sua posizione finanziaria netta è negativa per 4 miliardi) e concentrando le attenzioni su settori molto remunerativi come il gioco d’azzardo, in grado di produrre dividendi per pagare gli investimenti. Un settore questo in cui, dopo l’acquisto di Lottomatica, opera da oltre dieci anni, con un fatturato oggi di 3 miliardi di euro, contro gli 1,2 miliardi dell’editoria. E per capire i motivi della predilezione per i giochi, basta guardare la redditività dei due settori: su un margine operativo lordo complessivo (Ebitda) di 1,16 miliardi, le lotterie e le slot machine ne garantiscono ben un miliardo contro i soli 47 milioni delle attività editoriali. Qui De Agostini è presente nei Collezionabili, nel direct marketing, nell’editoria professionale e di formazione, nei canali digitali e nei libri. E proprio i libri hanno conosciuto una profonda crisi con un calo complessivo dei ricavi del 15 % a 91 milioni di euro. Nel dettaglio, il gruppo ha scelto di uscire dal segmento delle grandi opere cedendo il marchio Utet, mentre in quello della scuola, pur perdendo ricavi per 3,7 milioni di euro (63,8 milioni di fatturato) per il ricorso sempre più frequente delle famiglie in difficoltà al meno caro circuito dei libri usati, è tornato in utile per 1,5 milioni. La controllata De Agostini Libri spa, invece, ha visto scendere i ricavi da 18,7 a 18,2 milioni di euro, a causa del minor giro d’affari nelle aree ragazzi e varia. La perdita è passata dai 13,9 milioni del 2011 ai 12,8 milioni del 2012. Di fronte a questi numeri anche De Agostini ha avviato una ristrutturazione, ricorrendo alla cassa integrazione e ai prepensionamenti. La lettera che il presidente Marco Drago ha scritto ai suoi azionisti sembra riassumere le sorti non solo di De Agostini, ma di tutte le aziende che vivono del mercato del libro: «Le risposte strategiche» alla crisi passeranno anche attraverso «la chiusura o la dismissione delle attività strutturalmente in perdita». Liberi tutti.