Insegnare a scrivere: la Scuola Holden

Nata a Torino nel 1994 dall’“ottimismo” di Alessandro Baricco, Antonella Parigi, Marco San Pietro e Alberto Jona, la Scuola Holden è riuscita a resistere al tempo e alle insidie della crisi economica. L’iniziale vocazione a creare “professionisti della scrittura” si è nel tempo allargata: oggi, le parole d’ordine a guidarla sono storytelling e crossmedialità e i servizi offerti si sono ampliati alla consulenza per le aziende. Che sia il segno dell’inizio di una stagione in cui narrazioni e testualità si troveranno sempre più in contesti non editoriali?
 
Torino, anno 1994: quattro «amici, tutti trentenni», secondo il racconto che la stessa Holden offre della propria nascita sul suo sito Internet, fondano una scuola di scrittura creativa, strizzando l’occhio all’eroe dell’educazione non convenzionale creato da Salinger e dimostrando una discreta incoscienza, come lascia trasparire lo stesso racconto, che prosegue: «erano anni così: si era ottimisti e nessuno aveva capito che stavamo correndo dritti dritti verso una crisi economica mondiale».
Vero è che si trattava di trentenni di buone speranze e che il clima culturale sembrava incoraggiare un’impresa del genere. Il più noto dei quattro amici, infatti, era Alessandro Baricco, autore all’epoca di due romanzi apprezzati e premiati come Castelli di rabbia (1991) e Oceano mare (1993) e coautore e conduttore in quello stesso anno di Pickwick, uno dei pochi riusciti programmi tv dedicati alla letteratura che ancora si ricordino, dopo il successo del precedente L’amore è un dardo, che trattava un altro tema tipicamente poco televisivo come la lirica. Gli altri tre fondatori erano Antonella Parigi, che si occupava di marketing e pubblicità e in seguito avrebbe ideato il Circolo dei Lettori di Torino prima di diventare assessore alla Cultura e al turismo della Regione Piemonte; Marco San Pietro, all’inizio di una carriera manageriale che l’avrebbe portato, tra l’altro, a ricoprire il ruolo di direttore finanziario del comitato organizzatore delle Olimpiadi invernali di Torino 2006; Alberto Jona, musicista e musicologo, oggi docente di Letteratura poetica e drammatica e Storia del teatro musicale al Conservatorio di Cuneo.
Quanto al clima, erano gli anni in cui l’Italia editoriale perdeva definitivamente l’innocenza e scopriva che il mercato del libro poteva essere assimilato a quello di un qualsiasi altro bene di consumo. Giusto per offrire un paio di coordinate, è del 1992 quella Lettera sulla felicità di Epicuro che fece compiutamente esplodere il fenomeno dei libri «Millelire», nome di collana e prezzo insieme, che aprirono la strada ai titoli supereconomici di Newton Compton e, nel 1995, dei «Miti» Mondadori, anno in cui venne pubblicato pure il pamphlet manifesto di questa stagione spregiudicata: A scopo di lucro, di Franco Tato, allora amministratore delegato proprio di Mondadori. Insomma, aprire una scuola di scrittura creativa significava sì importare una pratica da “americani”, aggettivo da accogliere in tutta la sua estensione semantica, compreso il concetto di “barbarie”, ma l’idea che la scrittura e i mestieri a essa collegati potessero essere insegnati trovava un terreno sufficientemente fertile. Quello che non si poteva prevedere, appunto, era la crisi economica, che avrebbe imposto alla Holden una serie di alti e bassi che ne hanno messo a dura prova la sopravvivenza, senza però impedirle di giungere fino ai giorni nostri mantenendo uno zoccolo duro minimo di una sessantina di studenti l’anno. E, come si dice, ciò che non uccide fortifica.
Un bilancio di questa attività più che ventennale non può prescindere dai nomi degli autori che dalla Holden sono usciti, i più significativi dei quali sono Paolo Giordano, Alessandro Mari, Pietro Grossi, Davide Longo, Giorgio Vasta, Fabio Geda e, allargando lo sguardo a registi e sceneggiatori, Alice Rohrwacher e Marco Ponti. Sottolineato che Rohrwacher ha visto il suo secondo lungometraggio, Le meraviglie, vincere il Gran Premio della Giuria al Festival di Cannes del 2014, gli scrittori citati sono tutti tra i più apprezzati della generazione nata negli anni settanta: Mari, il più giovane, è del 1980. In particolare, Giordano e Mari sono titolari di due tra gli esordi più fortunati dell’ultimo decennio. Il primo, con La solitudine dei numeri primi, è diventato un vero e proprio caso editoriale ed è riuscito ad aggiudicarsi nel 2008 il premio Strega, caso più unico che raro per un debuttante, per di più ventiseienne (il più giovane di sempre a vincerlo) oltre a un buon numero di altri premi tra cui il Campiello. Mari, con Troppo umana speranza, nel 2011, trionfa invece nel Viareggio e raccoglie un diffuso plauso critico per la complessità del volume, che tocca le 700 pagine. Verrebbe da chiedersi se tutti questi autori mostrino tratti stilistici comuni, ma sarebbe un’analisi troppo complessa e, a un primo sguardo, poco fruttuosa, però basta allargare di poco sguardo per accorgersi che tutti condividono un alto grado di letterarietà e un esordio fortunato, probabilmente favorito dal fatto di arrivare agli editori con manoscritti più consapevoli della media grazie alla frequentazione della Holden. Perché poi questo dovrebbe essere il compito delle scuole, della Holden come di tutte le altre nate in quest’epoca del nostro mercato editoriale: affiancare editori e agenzie letterarie nella scoperta di nuove voci e nel lavoro di editing di cui gli esordienti hanno particolarmente bisogno, aiutando soprattutto a cucire i lembi tra la provincia e l’impero, ovvero attirando potenziali autori cresciuti in zone caratterizzate da scarsa proposta culturale e facilitandoli a entrare in contatto con il mondo editoriale.
Se c’è un ambito in cui la Holden, però, si distingue dalle altre scuole è l’alto tasso di pragmatismo, ovvero la vocazione a professionalizzare autori in tutte le declinazioni della scrittura, non solo in quella narrativa che, anzi, resta fatalmente minoritaria. Le cifre, in questo senso, parlano chiaro: nel periodo 2004-12 il corso biennale in Storytelling & Performing Arts ha diplomato 454 allievi.
In 70% di essi, secondo i dati diffusi dalla stessa scuola, ha trovato un impiego in “ambito narrativo”, ovvero nei settori di cinema e tv (26,60%), editoria (21,60%), narrativa (15,30%), organizzazioni culturali (11,50%), giornalismo (9,70%), nuovi media e pubblicità (9,20%), teatro e radio (6,10%).
Un’altra cosa la Holden ha fatto egregiamente: intercettare, e probabilmente contribuire a far affermare anche nel nostro paese, la pratica del cosiddetto storytelling , ovvero espandere l’ambito della narrazione dai ristretti limiti della scrittura fino alle pratiche di commercializzazione, si tratti di un prodotto vero e proprio o di un politico da eleggere.
La scuola stessa, oltre a collaborare con librerie, editori, teatri e organizzare eventi, offre tra i suoi servizi il «Corporate Storytelling, per le aziende che scelgono di usare la narrazione per comunicare il loro brand o migliorare la loro comunicazione interna». E nel nuovo corso, inaugurato nel 2012 con l’ingresso nell’assetto societario del gruppo Feltrinelli, dell’ideatore di Eataly Oscar Farinetti e del manager Andrea Guerra, a chiudere il quadrumvirato con Alessandro Baricco, questa impostazione sembra ancor più esplicita. I percorsi di studio, oggi, sono infatti sei (Cinema, Digital, Reporting, Serialità, Televisioni e Scrivere) e degli allievi si dice che, una volta diplomati, «saranno diventati narratori. Gente capace di padroneggiare tutte le tecniche con cui oggi le storie vengono raccontate e prodotte, e in grado di fare qualunque mestiere abbia a che fare con la narrazione. Anche quelli che, magari, oggi non esistono ancora». Un proposito reso, se possibile, più incisivo dall’approdo, a ottobre 2013, in una nuova sede di 4.000 metri quadrati, dove un tempo sorgeva la Caserma Cavalli, e dal contestuale aumento del numero di studenti, che ora arrivano a 250-300 l’anno.
La parola d’ordine che in questo nuovo corso si affianca a “storytelling” è “crossmedialità” e, se proviamo a utilizzare la Holden come bandierina segnavento anche in questo passaggio, possiamo prefigurare che per la nostra editoria l’era del libro cartaceo come prodotto di consumo, di cui la Holden è stata premonitrice e compagna in questi vent’anni, stia volgendo al termine e che forse a sostituirla sarà l’epoca del testo, o della narrazione, come prodotto di consumo: una stagione nella quale sarà sempre meno l’editore il committente o il mediatore dell’oggetto scritto, sempre meno la carta il supporto e sempre meno il lettore come lo intendiamo oggi il suo consumatore.