Eco, o il romanzo popolare triste

Voghe letterarie svariate concorrono a una messa fuoricampo del lieto fine. Nel Novecento maturo un peso rilevante ebbero le estetiche francofortesi. Eco narratore sembra partire di qui, per poi inoltrarsi nei territori del postmoderno. I romanzi che pubblica tra 1980 e 2015 hanno un congedo rattristato, a cui in qualche caso fanno da sponda complicazioni discorsive e manierismi raziocinanti. Quanto più si rifà al romanzo popolare, tanto più ne rifiuta gli esiti speranzosi. Sul tema rifletteva da quando introduceva l’Almanacco Bompiani del 1972. E viene da chiedersi se già allora non fosse giunto a esiti critici ragguardevoli.
 
Non è ben chiaro come il lieto fine romanzesco sia stato gradatamente espulso dal panorama di una esteticità approvata, divenendo anzi il contrassegno che individua una letteratura per i ceti meno colti, alla ricerca spasmodica di risarcimenti oppiacei. Qualcosa accade di certo già ai tempi del naturalismo zoliano, troppo interessato alla critica dell’“azzurro” sentimentale e alle tare ereditarie per giustificare congedi speranzosi. E se anche in un diverso clima, un’etica altrettanto pessimista dichiarano la più parte delle opere decadenti, da D’Annunzio a Borgese, le sperimentazioni di Pirandello e Svevo. Voghe tragicheggianti, nell’insieme, o umoristiche, o psicanalitiche, in cui le sconfitte hanno comunque il sopravvento sulle promesse di una felicità futura. Smaltiti ansie nicciane, vagheggiamenti dandystici o travagli interiori, i protagonisti (se anche sopravvivono) concludono nell’isolamento addolorato, scontano inorgoglite solitudini e ardue sublimazioni; assai di rado è previsto per loro un proficuo inserimento nel tessuto sociale.
Il Novecento maturo non sembra derogare da questa china; se mai si sforza di bandire il romanzo edificante, e i relativi esiti zuccherosi, sulla base di due imputazioni congiunte: il suo ingenuo “prospettivismo” e la sua natura “conciliatoria”, altrimenti detta demagogica, gastronomica, paternalista, socialdemocratica.
Il primo termine, di origine lukàcsiana, si affaccia da noi sul declinare della narrativa neorealista; e intende contrastare ogni indulgenza volontaristica nei confronti di una società a venire {Metello di Pratolini sembrava un bersaglio polemico perfetto). Il secondo coincide con il diffondersi delle teorie francofortesi, di Adorno in particolare, che nel loro agguerrito confronto con la letteratura per le masse tolgono qualunque legittimazione all’happy end, ritenuto ormai una soluzione logora, improponibile, e vi sostituiscono l’intrinseca esteticità di un congedo aperto, sospeso o indeterminato. Poco conta che a un siffatto artificio si sarebbero presto uniformati, per forza o per amore, alcuni tra i giallisti più atipici: Gadda, Sciascia, in Svizzera Durrenmatt. Va invece sottolineato che se la prima imputazione, “prospettivismo”, è uscita presto di scena, la categoria o pseudocategoria del “conciliatorio” ha avuto al contrario un effetto durevole, lasciando tracce vistose tanto nella fase delle neoavanguardie, quanto nella temperie postmoderna.
E così che Umberto Eco, gran maestro di entrambe le stagioni letterarie, può attingere manifestamente alla tradizione del romanzo popolare, tuttavia respingendone qualunque sentore positivo o anche solo promettente. I suoi modelli maggiori sono bensì Hugo, Dumas, Sue, magari Natoli dei Beati Paoli o gli autori più avventurosi riletti attraverso le cronache medievali (Soulié, Jacolliot, Verne, Salgari). Però vi attinge con grande disdegno per il dinamismo civico e affettuoso che più sollecitava le moltitudini incolte e semicolte di ieri. Il suo protagonista favorito in realtà non coincide con il superuomo vendicatore dei torti, tanto caro alle appendici quarantottesche, ma se mai con il supereroe o con il mezzo eroe sconfitto, e meglio se munito di una certa dignità intellettuale, in modo da renderne più grave ed esemplare la caduta. Non ci si è soffermati abbastanza sulla concatenazione catastrofica che suggella Il nome della rosa: il secondo libro della Poetica è andato perduto con l’intera biblioteca abbaziale, Guglielmo segue disilluso l’imperatore a Roma e poi muore anonimamente, travolto dalla grande pestilenza che sta spopolando l’Europa. Adso, il narratore, ne rievoca commosso le gesta, ma a sua volta in punto di morte, e ci consegna una sentenza magari sibillina (forse nominalistica, forse memore dell’amante perduta): «Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus», ma desunta a ogni buon conto dalla tradizione tardo latina dell’Ubi sunt, vale a dire da un ricco fiorire di immagini e di ammonimenti che fanno leva sulla suprema vanità delle potenze mondane.
Il fatto è che la riflessione del semiologo piemontese riguardo al feuilleton contempera fin dall’inizio seduzioni profonde e ripulse sofisticate. «Appassionarsi per un intreccio allo stato puro è atteggiamento sano e normale», scrive, introducendo l’Almanacco Bompiani 1972, che del romanzo popolare vorrebbe rendere un’apologia centenaria. Ma d’altra parte «la grande stagione dell’intreccio ottocentesco è stata anche la grande stagione della consolazione a puntate. Ogni ritorno alla narratività pura contiene in sé qualcosa di equivoco, rappresenta una fuga dal problematico, un riposarsi sull’onda di un ritorno uterino». Eco, insomma, crede sinceramente alle risorse del romanticismo democratico, però è troppo colto e intriso di avanguardia per accettarne appieno le consuetudini appaganti. Ed è giusto lo scioglimento finale, o la purificazione dalle passioni già prevista da Aristotele, a consentire una drastica antitesi tra letteratura maggiore e opere di largo smercio. Nella prima, osserva, «la catarsi scioglie il nodo della trama ma non concilia lo spettatore con se stesso […]. Finito il libro, il lettore rimane confrontato con una serie di interrogativi senza risposta». Lo scarico delle pulsioni nei capolavori del passato non avviene, ogni empatia risulta impedita: anzi «il lettore non sa neppure con esattezza se deve o può identificarsi con il protagonista».
Al polo opposto stanno i feuilletons di immediato consumo, perché «qui – spiega Eco – la trama, risolvendo i nodi, si consola e ci consola. Tutto finisce esattamente come si desiderava finisse». Del romanzo appendicista, a ben guardare, non è in causa l’ordito divagante e tanto spesso arruffato: cioè il modo in cui si prolunga con palese dispendio di risorse da una puntata all’altra; e neppure viene messo in dubbio il nucleo riformistico, di protesta e di rivendicazione sociale, che ora più ora meno poteva aggallare fra le pagine. Il vizio maggiore del feuilleton sta invece nel “repertorio” di soluzioni predisposte da una pletora di autori, solo perché agognate dai lettori comuni: è questo che lo riduce, «necessariamente», a una specie di «macchina gratificatoria». L’appello al commovere, e la democrazia dei sentimenti che gli è implicita, appare in realtà la macchia originaria della letteratura popolare, e lo stesso pianto compartecipe dei suoi cultori devoti altro non rivela se non «un commerciabile momento purificatore».
L’insegnamento suona curioso: si tratterebbe a conti fatti di un romanticismo tematico, o tecnico, dotato di efficacia sovratemporale, a cui viene interdetta ogni effusione e conseguente immedesimazione sul terreno dei sentimenti. Indubbiamente Eco sa come sfruttare una materia tanto suscettibile di riuso effettistico, scampando sospetti di appiattimento epigonico. Occorre «smontare il congegno», raccomanda nella circostanza, e attrezzarsi per una attiva «rimanipolazione» di quanto ci è stato trasmesso. Ne renderanno documento, di qui a qualche anno, i mélanges disinvolti e le accuratezze erudite, le ironie sottese e i giochi intertestuali, le profferte storiografiche, le sintesi enciclopediche che regolano i suoi romanzi. Tuttavia è proprio il convinto rifiuto di un finale corrispondente alle attese del pubblico a definire meglio il repechage: negare indulgenze prospettiche, o promettenti conciliazioni tra ansie individuali e riuscite concrete, diverrà lo stigma, e quasi il punto d’onore, per una narrativa nutrita senz’altro di succhi laici e progressisti, però prudenzialmente lontana da qualunque apertura di credito.
Se Il nome della rosa non basta, valgano i congedi delle opere susseguenti. Nel Pendolo di Foucault e in Numero zero, il credo misteriosofico o complottistico a cui hanno contribuito sconsideratamente i rispettivi protagonisti ha un risvolto esiziale. Nel primo Casaubon, in attesa dei sicari, si abbandona a una mesta contemplazione del paesaggio langhigiano: «tanto vale stare qui – dice –, attendere, e guardare la collina. E così bella»; nel secondo il giornalista Colonna ripara per analoghi motivi sulle rive del lago d’Orta, e, preso da una «calma sfiducia» riguardo all’avvenire proprio e dei connazionali, resta incantato dinnanzi all’isoletta di San Giulio, quando la mattina sfolgora nel sole: quell’isola che pagine avanti già egli aveva accostato all’isola dei morti, di bockliniana memoria.
Non è tenero, Eco, al cospetto di tanti colleghi, siano di piccolo o medio spessore intellettuale, quando derogano così vistosamente ai dettami di una critica confortata dalla ragione. Il congedo luttuoso è anzi quello che sembra preferire: nel Cimitero di Praga, il perfido antisemita Simone Simonini muore (è da presumere) collocando «una bomba che farà epoca» alle fondamenta della metropolitana parigina, nel 1898 appena in costruzione. Persino nel romanzo più autobiografico del contingente, La misteriosa fiamma della regina Loana, il malandato protagonista Yambo, nel mezzo di una «radiosa apocalisse», cessa di vivere per il sopraggiungere di un definitivo infarto, che gli impedisce di evocare le fattezze fìsiche dell’amata adolescente («Perché il sole si sta facendo nero?»).
A questa litania triste non sembrano esserci ripari, se non nel senso delle aggiunte metaromanzesche e delle complicazioni discorsive. Ne L’isola del giorno prima, il naufrago Roberto de la Grive decide infine di annullarsi nel tutto naturale; dando poi spazio al narratore per la formulazione di due ipotesi eruditamente (borgesianamente) seducenti; alle quali consegue una chiusa sottile, antifrastica, dove si immagina un postero che potrebbe aver dato una sbadata attenzione alle carte seicentesche dello sfortunato personaggio: «“L’autore è ignoto”, mi aspetterei però che avesse detto, “la scrittura è aggraziata, ma come vede è sbiadita […] Quanto al contenuto, per quel poco che ne ho scorso, sono esercizi di maniera. Sa come si scriveva in quel Secolo… Era gente senz’anima”». In Baudolino l’eroe eponimo, scopertosi nella sua pochezza umana, dapprima si fa stilita; poi, ormai vecchio, si rimette in viaggio verso il chimerico regno di Prete Giovanni, sperdendosi alla vista. «Era una bella storia – osserva il bizantino Niceta, indisposto però a farne menzione nelle cronache che si accinge a scrivere. – Peccato che nessuno la venga a sapere». Di diverso avviso è il saggio Pafnuzio, sul limite estremo del testo: «Non crederti l’unico autore di storie a questo mondo. Prima o poi qualcuno più bugiardo di Baudolino la racconterà».
Qualcuno, ossia Eco stesso, che infine trionfa nella sua funzione demiurgica, in quanto creatore di mondi più o meno verisimili da sogguardare con distacco sorvegliato. D’accordo, il criticismo diurno deve prevalere infine sulle fascinazioni oniriche: solo a questi patti egli mette mano a un dilavato romanesque di stampo ottocentesco. Resta da vedere se una simile strategia lo metta poi al riparo da sospetti di corrività espressiva, di faciloneria stilistica, di esuberanza defatigante quanto ai materiali convocati a raccolta. L’accettabilità conforme o la suggestione indefinita dei finali, invero, non sembra dar luogo a un dilemma dirimente; molto dipende dal contesto, dalle attese più o meno smaliziate del pubblico.
Nel lontano Almanacco del 1972, era lo stesso semiologo a ricordarcelo: «Oggi – scriveva, con sano empirismo – ci sarà romanzo popolare anche là dove l’eroe apparirà prevedibilmente problematico; e nulla apparirà più felicemente conclusivo di un finale abrupto, che lasci personaggi e lettori in sospeso, artificio che un giorno, si pensi a Maupassant, costituiva geniale offesa alle leggi banalizzate della trama». Eravamo già allora a un punto nevralgico, occultato dalla selva di classificazioni e di graduatorie per tanta parte preconcette: in realtà nessun tipo di finale, neppure il finale presuntamente estraneo alle convenzioni statuite (l’a-prosdoketon delle retoriche antiche), garantisce del pregio romanzesco. Potrà essere segno di sommovimenti profondi, che stanno interessando il sistema letterario; ma fausto o tragico o aperto che sia, il congedo non gode di autonomia artistica, e solo ha valore per come riverbera sull’opera nella sua interezza.