La canzone cita le scimmie, vince il Nobel e aggira le sdrucciole

Che il rapporto tra musica e letteratura sia stretto è cosa nota, anche a Francesco Gabbani, che nel suo Occidentali’s karma cita Morris, Montale e Calvino. Ora però sono anche quelli dell’Accademia di Svezia a confermarcelo, con il Nobel assegnato a Bob Dylan. E se il panorama musicale è costellato di figure uniche, si pensi a Mogol e Giovanna Marini, ci sono poi i veri e propri riformatori della lingua italiana, come Vasco Rossi e Mario Venuti, che rivendicano la libertà di aggirare le sdrucciole.
 
Nel pezzo di Francesco Gabbani che ha vinto Sanremo 2017, Occidentali’s karma, il Centro Studi Balanzone ha riscontrato, oltre quello a La scimmia nuda di Desmond Morris, diversi altri richiami colti. Già nel titolo si segnala un riferimento a Montale, Ossi di seppia-. «S’è rifatta la karma / nell’aria…». Il c’è del magnifico settenario «c’è Buddha in fila indiana» è una chiara eco pascoliana («C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole…»). «Lezioni di Nirvana» allude alle Lezioni americane di Italo Calvino. Sul piano musicale, l’uso della nota do (nonché il ricorso al canto accompagnato da strumenti) rimanda al Don Giovanni di Mozart e – in ultima analisi – ai trovatori provenzali, di cui la manifestazione sanremese si conferma erede.
La citazione è sintomo d’amore. Cantautori italiani e memoria letteraria (Carocci 2016) è un accuratissimo studio di Francesco Ciabattoni sulla intertestualità nella canzone d’autore. Che Vecchioni, Guccini e compagni intramassero i loro testi di citazioni letterarie lo sapevamo; Ciabattoni però non si accontenta delle più appariscenti: nell’opera dei cantautori stana i rimandi più riposti, documentandoli puntualmente. Così, dietro le canzoni vediamo affacciarsi una folla di poeti e di scrittori, da Pavese a Ronsard, da Catullo a Kafka. L’effetto è un po’ quello della copertina di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band dei Beatles, che nel lontano 1967 ci rivelava come alle spalle di She Loves You o di Ticket To Ride ci fossero Jung, Marx, Poe e altri eminentissimi. Ma la sorpresa del libro riguarda Claudio Baglioni, un cantautore a lungo considerato “commerciale” e sempliciotto: nei suoi versi, Ciabattoni scova tracce di Pasolini, Elsa Morante, addirittura Mario Luzi. E pensare – dichiarano sgomenti i vicini di casa – che sembrava un ragazzo tranquillo, alla mano…
Alla fine, il Nobel per la letteratura a Dylan è arrivato. Da tanti anni se ne parlava, che la sorpresona sa già di vecchio. Vecchio lo scandalo, vecchie le prevedibili polemiche tra chi si sdegna e chi gongola come se il premio l’avesse ricevuto lui. Chiunque conosca un po’ il personaggio Dylan, non si sarà meravigliato della sua reazione “maleducata”, della sua assenza alla cerimonia di premiazione, dei comunicati in cui si paragona a Shakespeare o della lectio magistralis in cui mescola false citazioni da Melville a smodati panegirici di Buddy Holly. Gli oracoli dell’Accademia di Stoccolma hanno decretato che le canzoni del signor Zimmerman sono alta letteratura. Ma – Nobel a parte – è un poeta, Dylan, o non è un poeta? Sulla questione si è dibattuto per mesi. Chi voglia verificare di persona, ha ora a disposizione anche il terzo volume (1983-2012) delle Lyrics (Feltrinelli 2017) nella magistrale traduzione di Alessandro Carrera.
A cura dello stesso Carrera è uscito nel 2017 La memoria delle canzoni. Popular music e identità italiana (puntoeacapo), un volume di saggi di studiosi italiani, statunitensi e francesi che hanno come filo conduttore il rapporto tra canzone, società e cultura nel nostro paese dagli anni sessanta a oggi. I dieci scritti – i cui temi vanno da Dolcenera di De André alla ricezione di Dylan in Italia – hanno un carattere decisamente accademico, e testimoniano come l’approccio “scientifico” alla popular music si sia diffuso e intensificato negli ultimi anni. Il pop si studia all’università. Resta sempre il rischio che la serietà delle analisi enfatizzi la consistenza di certe opere, a volte con forzature che ne mettono a prova la reale qualità.
Mogol ha compiuto ottant’anni. La sua autobiografia, Il mio mestiere è vivere la vita (Rizzoli 2016), è un documento prezioso per chi voglia conoscere questo protagonista della nostra canzone. C’è, raccontato dall’autore e illustrato da numerosissime fotografie, tutto quello che uno si può aspettare, dall’infanzia ai successi al rapporto con Battisti. Ma nel libro troviamo anche un giudizio a dir poco riduttivo sul Sessantotto (un movimento di figli di papà in golfini di cachemire), resoconti di esperienze paranormali (Lucio che dopo la morte riappare nell’arcobaleno) e illuminanti dichiarazioni intorno al valore della propria opera: «Se ho raggiunto la notorietà è perché attraverso le canzoni ho avuto l’occasione di comunicare uno stile di vita, un modo di pensare, il mio codice etico». Mogol ci mostra una quasi dantesca consapevolezza del proprio genio. Da dove gli viene? Lo scopriamo verso la fine, dopo il racconto di una visita a Lourdes e poi al Sinai: «Io – scrive il paroliere – sento Dio nella mia vita, sento il suo aiuto e la sua protezione, mi sono sempre sentito protetto, come se avessi una mano sulla testa»; «Non posso spiegarmi diversamente tutto quello che mi è successo, e le stesse canzoni, ad esempio, la velocità e la facilità con cui sono sempre riuscito a scriverle…»; «Oggi prego ogni giorno la Madonna per tutte le persone che ho amato e che amo, e per quelle in difficoltà; prego anche per ringraziare per tutto quello che ho nella mia vita». Amen.
Quando si parla di canzone d’autore, è raro che emerga il nome di Giovanna Marini. Non si tratta – io credo – di una rimozione intenzionale: è che comprenderla nella categoria dei “cantautori” non viene naturale. Giovanna Marini ha scritto e scrive parole e musica, le ha cantate e le canta, ma la forma che ha inventato sfugge del tutto ai canoni a cui siamo abituati. Già nel suo primo disco, Vi parlo dell’America (1966), gli schemi della canzone (anche di quella popolare e politica) sono sostituiti da una sorta di talkin’ blues che sembra un antenato del rap di oggi. Quando si riascolta uno dei suoi pezzi più emozionanti, I treni per Reggio Calabria (1976), ci si rende conto di quanto sia difficile qualificarla come cantautrice. Questo vale ancora di più per quelle che lei chiama cantate. Giovanna Marini è unica. Unica nell’uso della voce (delle voci) e negli arrangiamenti, unica nei versi spigolosi e ruvidi e nel loro rapporto con la musica. Di questa diversità fa un bel ritratto il libro di Paolo Crespi, Io vorrei. La lezione di Giovanna Marini (Castelvecchi, 2017), arricchito da varie testimonianze e da una breve antologia dei testi.
Da anni parolieri e cantautori si lamentano della mancanza di musicalità dell’italiano, dovuta alla scarsità di parole tronche. Una volta si ricorreva all’amor e al cuor, ma da quando la canzone ha alzato l’asticella letteraria la cosa ha cominciato a porre qualche problema. Ultimamente, gli autori più audaci hanno deciso di rimuovere l’ostacolo. Basta con le fisime: che le parole siano piane, sdrucciole, tronche, vale sui banchi di scuola. La musica è libertà (o liberta, o libèrta, come vi pare).
Così Vasco Rossi, in Come nelle favole, canta: «Quello che potremmo fare io e te / non lo puoi neanche cre-deré», marcando tanto il della tronca quanto il della sdrucciola.
In Caduto dalle stelle, Mario Venuti è ancora più birichino e compiaciuto nel sottolineare la trasgressione: «È la tentazione di un’eterna novità / È lasciare che la cura sia la musi-cà…». Càpito capito e capitò ottengono finalmente pari opportunità, nel quadro delle necessarie riforme. Ce lo chiede l’Europa, ce lo chiedono i mercati.