Sognare e non dormire: il lieto fine rosa

In my end is my beginning, cantava il poeta. Ogni fine è insomma un inizio, tutto dipende da come decidi di vederla. Una saggia istruzione per l’uso della vita, astutamente messa a frutto nella fiction rosa, i cui finali sono lieti in quanto aprono finestre sul futuro. Seppur con qualche aggiornamento ai tempi, queste finestre ancora per lo più affacciano su di un hortus conclusus, borghesemente confortante, da coltivare in due.
 
«Lei ha fatto soffrire mia moglie che aspetta un bambino…», scriveva a Liala, minacciandola di denuncia un avvocato torinese. Questa e simili lettere di protesta riceveva la nostra più celebre firma rosa al bel mezzo del secolo scorso, e leggenda vuole che alcune lettrici, infumanate nere, fossero scese in piazza decise a picchiarla. Liala l’aveva in effetti combinata grossa: aveva osato far morire la contessina Lalla Acquaviva, adorabile e sfrontatella protagonista del romanzo Dormire e non sognare (1950). Il commendator Angelo Rizzoli, allora editore di Liala, le telegrafò: «Quattrocentomila donne piangono la morte di Lalla Acquaviva. Provveda». E la scrittrice, da sempre e per sempre ligia alle esigenze del suo pubblico, provvide, strappando idealmente l’ultima pagina del romanzo e di lì a poco pubblicandone il seguito dal titolo parlante Lalla che torna (1951). Qui la cara salma veniva resuscitata sotto le identiche spoglie della neonata nipotina di Lalla, con un trucco che resse un’intera trilogia (è del 1952 Il velo sulla fronte) e, trent’anni dopo, persino lo sceneggiato Nata d’amore (1984), riadattato per il piccolo schermo da Duccio Tessari.
A inferocire le “lialine” non doveva essere stato tanto il mancato lieto fine, cui il rosa, a dispetto di uno stereotipo interpretativo, può talvolta derogare: basti ricordare che tragicamente, col suicidio della protagonista, si concludeva il capostipite del romanzo rosa “classico”, ovvero quel Signorsì dato alle stampe dalla stessa Liala nel 1931. A non essere tollerabili erano l’irreversibilità e l’ingiustizia di quel finale. La morte di Lalla nell’ultima pagina del romanzo chiudeva la storia senza scampo, facendo saltare uno dei capisaldi del romanzo popolare, e dunque anche del rosa: quello per cui l’eroe (o l’eroina) non può morire. Se contemplata, la sua morte deve essere, paradossalmente, sempre provvisoria, a costo di inscenare i più impudichi escamotage, che vanno da scambi di gemelli a dissotterramenti di presunti cadaveri, da finti annegamenti a trapianti di cervello ecc. Ecco che allora le fan di Lalla Acquaviva, pur di mettere una pezza su quel finale, erano disposte a sospendere l’incredulità e ad accettare una rifondazione delle sue vicende.
Poiché la fine, nella sua inevitabilità, è una nozione negativa, la fiction rosa la cambia di segno mutando il punto di vista, considerandola cioè non in quanto tale, ma come l’inizio di qualcos’altro. Nel rosa è dunque necessario che il finale sia, meglio che lieto e oltre che giusto, aperto sul futuro, secondando il paradigma fiabesco dell’“e vissero felici e contenti”. La propensione all’interminato è non a caso tipica della più caratteristica espressione rosa, la telenovela. Lo spettatore di Beautiful, di Un posto al sole o di una delle decine di soap opera che quotidianamente approdano sui nostri teleschermi si immerge nel loro flusso senza chiedersi dove li condurrà. Quel che importa è la rassicurante compagnia di vicende di lunga durata dalle quali è assente la parola fine. Nelle telenovele nessun evento è risolutivo, potendo potenzialmente aprire a sviluppi futuri: per esempio il matrimonio, classico epilogo rosaceo, nella telenovela prelude a maternità, tradimenti, divorzi ecc.; o ancora il decesso di un personaggio non solo è quanto mai labile, ma apre a nuovi scenari per chi rimane vedovo, per gli eredi e via discorrendo. Qualcosa di analogo avviene d’altra parte pure nella cronaca cosiddetta rosa, ruotante intorno alle vicende famigliari e sentimentali delle celebrità, caratterizzata da un fiume di avvicendamenti che scorre parallelo alle vite dei loro fruitori. Poco interessa se il segno di tali vicende sia positivo o negativo, l’importante è che continuino a far compagnia: il vero lieto fine è che non avranno una fine. E questa tensione all’infinito risulta in modo sorprendente se volgiamo lo sguardo dagli espositori delle edicole agli scaffali rosa delle librerie. Mentre scrivo, vi si trovano ponderosi volumi in formato hard cover, per lo più dovuti a scrittrici nordamericane, che già dal titolo esprimono questo bisogno: Ancora una volta, Infinite volte, Infinito + 1, Le parole infinite, Love. Un pensiero infinito, Non ti dirò mai addio, Oltre noi l’infinito, Quando l’amore non finisce, Tutte le volte che vuoi… tanto per citarne alcuni.
Come abbiamo accennato, oltre che aperto, al finale rosa è richiesto di essere giusto, ovvero mirato al ristabilimento dell’ordine. È in questo senso che il genere può dirsi tanto conservatore, perché non prevede stravolgimenti o rivoluzioni di sorta, quanto ottimisticamente consolatorio, in quanto rassicura che chi si porta rettamente alla fine viene premiato, mentre chi sbaglia paga. Quando tale logica consequenzialità non si verifica, è come se si rompesse un patto. Perciò, tornando a Lalla Acquaviva, se la contessina era inciampata ai piedi di un corteggiatore che le aveva fatto bere un bicchiere di troppo, ciò era davvero troppo poco per giustificarne la morte. Severa e inappellabile come un vecchio dio, la scrittrice rosa è però inflessibile nel far quadrare i conti e può anzi rivelarsi nient’affatto tenera con chi sbaglia, allestendogli punizioni truculente. Nei miei occhi di bambino è per esempio ancora impresso un episodio della telenovela venezuelana Marilena – trasmessa in Italia nei primi anni novanta e seguita avidamente da mia madre – in cui l’infida antagonista Maria Paola veniva nientemeno che sepolta viva, si può immaginare con soddisfazione delle telespettatrici, che così le vedevano restituite, con gli interessi, le lacrime fatte versare alla protagonista.
Sulla vocazione rosa a far quadrare i conti si sono d’altra parte avanzate ipotesi antropologiche legate alle donne, ovvero a coloro che più spesso si sono autorialmente cimentate nel genere. Tali ipotesi si correlerebbero da un lato a un più spiccato senso o bisogno di giustizia insito nel sesso femminile, forse portato di una storica condizione di subalternità («le donne scrivono per vendicarsi», annotava Flaiano nel Diario degli errori), dall’altro a una altrettanto marcata vocazione pedagogica. Poche, pochissime scrittrici rosa hanno infatti mancato di fornire alle proprie lettrici, in chiusura, una morale o un insegnamento.
Se, come avviene nel mito e nella fiaba, il finale rosa si fonda sul presupposto che l’agire secondo determinati valori sia garanzia di felicità (o di infelicità), ci si può però intendere diversamente su quali siano tali valori. A differenza di quanto si sarebbe portati a credere, nel rosa classico à la Liala non è vero che ci si salvi seguendo il codice del cuore. Al contrario. Le scrittrici rosa possono apparire persino ciniche nell’indicare la via del buon senso, di ciò che è socialmente accettato o economicamente auspicabile; è così senza scalpori, nel Peccato di Guenda (1952), che Liala fa dichiarare alla saggia nonna Mansueta che «qualunque ragazza, che rifiutasse un simpatico ragazzo carico di milioni, non potrebbe che essere mandata al manicomio». Guardando agli archetipi rosa, la protagonista ottiene o meglio merita l’oggetto di valore (la conquista dell’uomo benestante, il matrimonio, il salto di classe o meglio tutte queste cose insieme) grazie alla sua forza di sopportazione passiva, mettendo su una faccia da santa e facendo la preziosa. Se proprio non vogliamo arretrare a Cenerentola o a Biancaneve, questo accade nell’epica della ritrosia inscenata da Samuel Richardson in Pamela, or Virtue Rewarded (1740), in cui la domestica Pamela resiste per quattro tomi alle avances del padrone, alla fine meritando di sposarlo, o specularmente in Clarissa, or the History of a Young Lady (1748), dove lo stesso Richardson inscena una protagonista che invece si concede traendone disonore e in ultimo la morte. E poi, come se non fossero passati due secoli, nel Diario vagabondo (1977), la solita tremenda Liala poteva esplicitamente appellarsi alle sue più giovani lettrici raccomandando «di non cedere subito e sempre. Va bene, se il sangue va alla testa, non è troppo facile ragionare. Ma se potete, fatelo un ragionamento piccino piccino; ditevi che cedendo non guadagnate nulla, ma rischiate di perdere tutto».
Mentre nel rosa classico la protagonista agisce soprattutto attraverso la sua bellezza, lasciando il campo dell’iniziativa alle più istintive antagoniste, per questo condannate alla sconfitta, nelle ultime declinazioni del genere le è concesso più di un margine d’azione, anche sotto le lenzuola, senza che ciò la marchi a vita. All’incirca a partire dagli anni settanta-ottanta, in concomitanza alla liberazione sessuale e all’auge del rosa industriale stile Harmony, il sesso può anzi venire anatomicamente e linguisticamente dettagliato nei particolari più succulenti e persino fungere da indice e garanzia, per la coppia, per la reciproca scelta.
In ogni caso, prima e poi, appare significativo che nell’economia narrativa l’epilogo sia poco più che accennato, limitandosi ad aprire una finestra su ciò che verrà, mentre il grosso della storia venga occupato da una filza di exempla negativi, a indicare, come nel più classico dei romanzi di formazione, che ci si possa ritrovare solo dopo essersi persi. Per le lettrici non è interessante seguire la loro eroina che, finalmente sistemata, gioca a casetta con pargoli e maritino: già lo sanno come si fa. E invece la parte intermedia, quella più peccaminosa e disponibile a una fruizione libidinale, a segnare una preziosa via di fuga verso terre interdette, beninteso prima di arrivare al capolinea della ricomposizione familistica. D’altro canto la natura spesso inconsistente degli ostacoli è già di per sé rassicurante garanzia che alla fine tutto si aggiusterà. La lettrice sa fin dall’inizio che l’eroina ammalata d’amore troverà l’antidoto, dopo averlo cercato in lungo e in largo, nella cucina della propria casa. In genere l’ostacolo al coronamento del sogno d’amore è infatti un semplice equivoco protratto, sempre lì lì per essere chiarito, ma che sistematicamente rimane in sospeso: nel rosa parlarsi e dire “mi dispiace” è sempre troppo poco; i protagonisti, cinture nere di orgoglio e pregiudizio, preferiscono rotolarsi nei dubbi o in alternativa saltare subito alle conclusioni, naturalmente sbagliate.
La riproposizione indefessa di questo schema moltiplica all’infinito non solo la parte più avventurosa, ma anche il finale esemplare, la lezione da mettere a frutto e da ripetere tante volte quante, evidentemente, ce ne è di bisogno. Pur nella difficoltà di tirare le fila su di un orizzonte quanto mai vasto e pur potendosi dare singoli controesempi, sarebbe difficile confutare che questa lezione consista nel capitolare dell’eroina sulla scelta più rassicurante ovvero sull’uomo più perbenino, dotato di qualche fascino ma sprovvisto della bellezza rapinosa tipica del maschio, che soprattutto possa darle maggiori garanzie di un amore duraturo.
Almeno a partire da Liala, che grazie a questa formula si assicurò una vendibilità di lunga durata e sulla cui dorsale andrà sviluppandosi il rosa industriale, una per una le eroine rosa finiscono per cedere all’uomo premuroso e un filo noiosetto con cui poter trascorrere il resto della vita. Questo è per esempio il destino che buone artigiane come Sveva Casati Modignani e Maria Venturi per lo più allestiscono alle loro eroine e questo è ciò che accade persino alla ribelle e rosacea Melissa P., che finalmente accheta le sue foie fidanzandosi con il gentile Claudio (100 colpi di spazzola prima di andare a dormire, 2003), o all’Anna di Volevo i pantaloni (1989), che dall’incipitaria dichiarazione «non ho mai sognato il Principe Azzurro» finisce per arrendersi a un matrimonio riparatore, nella constatazione che si può «cambiare una testa, non tutte le teste». E se appassiscono nel matrimonio anche le peripezie sadomasochistiche di Ana e Christian, protagonisti della trilogia delle Fifty shades (2011-2012), nella più scanzonata chick-lit, la letteratura rosa per pollastrelle, le svalvolate barra smutandate protagoniste non si tirano indietro dal baciare un bel numero di rospi, ma per trovare alla fine il loro sodo principe azzurro, come accade nel Diario (1995) di quella pasticciona di Bridget Jones, che riesce a portarsi a casa l’apparentemente algido avvocato Mark Darcy, scoperto calco, fin dal nome, del Fitzwilliam Darcy di Pride and Prejudice (1813).
Tutto sommato, sembrerebbe dunque che i finali rosa tornino a lustrare il topos dell’uno, in base al quale ciò che è unico ha più valore di ciò che è molteplice. Sennonché non solo l’eroina rosa, per imparare la lezione, questo molteplice ha bisogno di sperimentarlo, eccome, ma non appena ritrova l’agognata metà della mela, ecco che cala il sipario. Nell’ultimo tempo della storia la felicità della coppia viene così prospettata in potenza più che vissuta in atto. Quel che accade dopo l’unione diventa tabù. La conciliazione – peraltro sempre meno convenzionalmente suggellata dal matrimonio o sublimata nella maternità, in ogni caso al massimo preannunciati e mai inscenati – apre a una fase di stasi, quando non proprio di difficoltà, su cui è superfluo o controproducente indugiare. Fermarsi un passo dopo l’unione e diversi passi prima del matrimonio e della maternità consente di mantenere vivo sia il protagonismo femminile che il fuggevole amore romantico e passionale. Mentre nel rosa classico, più tecnico e istruttivo, è sottesa la morale del non si può aver tutto, sulla sponda senz’altro evasiva di Per un bacio del milionario, di Lo sceicco e la top model o di un altro, a caso, dei più spudorati Harmony può accadere che i trionfanti e implacabili finali cementifichino romanticismo, sesso e successo, e si capisce: se proprio c’è da sognare, tanto vale farlo in grande.