Sotto lo scandalo, molto

Walter Siti racconta una zona della Milano recentemente trasformata l’area di Porta nuova – cogliendone potenzialità e limiti. Insieme, calibra una macchina narrativa esattissima, forse troppo, non priva di ideologiche ridondanze. Tutto sembra esser stato congegnato per produrre scandalo e polemica. Ma le cose, forse, non stanno esattamente così. E comunque Siti argomenta benissimo, con l’ausilio di luoghi e intrecci, fornendoci uno utile strumento per pensare l’oggi.
 
Bruciare tutto di Walter Siti ha molto scandalizzato, com’è noto. Del resto, quasi nessun suo romanzo ha lasciato moralmente indifferenti lettori e recensori. In questa nuova opera, adottando il punto di vista del protagonista, si racconta addirittura ciò che può capitare nella Milano dell’Expo a un giovane e coltissimo prete pedofilo in preda a desiderio di espiazione. E quindi giù – puntualmente – le reazioni scomposte dei lettori ingenui o, all’opposto, dei lettori in mala fede; e via inquisendo, bruciare tutto ti mette la polemica in mano, parlarne è fin troppo facile. I contenuti sono spiattellati, pronti a consentire la divisione tra chi la pensa in un modo e chi nel modo opposto. C’è anche una chiusa che molto programmaticamente contrappone alla cupissima trama principale il sub-plot di una coppia di non giovani omosessuali in giocosa, irresponsabile (e forse persino doverosa) vacanza in un esclusivo resort brasiliano. E dunque: è lecito “umanizzare” il mostro? c’è un nesso tra i contenuti del cattolicesimo e certi comportamenti – più che perversi – criminali? e così via. Aiutano alla bisogna le cronache, le quali certificano che certi fenomeni sono una triste normalità e che la Chiesa ha inequivocabili colpe nella mancata repressione di tante violenze e abusi sui minori.
Tutto vero, e infatti ci ritorneremo. Però, sarebbe forse stato più importante mettere in rilievo due altri aspetti altrettanto “strategici” (diciamo pure: astuti) di questo romanzo. Il primo è il suo radicamento milanese, anch’esso legato all’attualità. Siamo in un’area a ben vedere limitatissima: il chilometro circa che separa la chiesa di via de Castillia (nel romanzo intitolata al martire africano san Carlo Lwanga) da un altro tempio cattolico, quello dell’incoronata, in corso Garibaldi. Dal quartiere dell’isola a quello di Brera, dunque: una Milano che fino a non molti anni fa era spaccata dalla presenza della ferrovia, e che un po’ simbolicamente diceva di un contrasto tra un luogo per definizione separato, quasi periferico, e uno spazio modaiolo e ormai centrale, anzi centralissimo. Come tutti sanno, adesso non solo la ferita è scomparsa, ma il luogo più esterno è perfettamente interno al “miracolo” di Porta Nuova, del Bosco Verticale, del Grattacielo Unicredit, e di tutto quanto la cronaca della Smart City ogni giorno registra. Di modo che il protagonista del romanzo, don Leo Bassoli, con tutta la sua contrita esaltazione, il suo pentimento quasi euforico, aggressivo, si muove dentro uno spazio perfettamente à la page.
Il fatto appare perturbante, va detto. E ciò non tanto (o per lo meno non solo) perché l’inizio del romanzo sottolinea con forza l’eredità mistica in senso lato novecentesca collocata dalla parte dell’incoronata: vale a dire la memoria della poesia religiosa e autopunitiva di un grande della nostra tradizione, Clemente Rebora, poeta amatissimo dal protagonista e appunto insistentemente ricordato (nella chiesa dell’incoronata c’è un affresco del Cristo torchiato, il cui motto, “Torcular calcavi solus”, fu insegna della religiosità matura di don Clemente Maria Rebora).
Non si tratta, insomma, della contrapposizione plastica tra il vecchio e il nuovo, tra gli assetti simbolici di una città ancora medievale-rinascimentale e una metropoli ultramoderna. Il turbamento ha altre origini. Il lettore ha spesso l’impressione che quello sfondo – la “nuova” Milano – sia perfettamente falso: un fondale che serve a incuriosire, a invitare alla visita (magari solo attraverso gli accessori di Google: le foto di piazza Gae Aulenti ci vuole un attimo a ottenerle). Come dire? C’è uno spazio chiacchieratissimo: e io autore lo esibisco nelle sue sfaccettature, nelle sue gustose sfumature. Gli opposti esistono, va bene: ma si integrano, si sorreggono reciprocamente. E non è affatto un caso che Siti lasci quasi del tutto fuori quadro la Casa della Memoria, consacrata anche a ricordare la guerra partigiana: si tratta di un palazzo che, a differenza di altri di quel nuovo quartiere, forse avrebbe potuto “resistere” al tipo di prospettiva che Bruciare tutto difende (e ricordiamo che la precedente opera di Siti aveva dichiarato che Resistere non serve a niente).
Ne discende una spazialità chiusa su se stessa, pronta a integrarsi con le abitazioni altoborghesi dei parrocchiani raccontati, se non – addirittura – a preludere al non luogo di una discarica romana in cui la vicenda principale si conclude. Uno sfondo discretamente inautentico – ribadisco –, costruito con ritagli di Internet: però anche passato al vaglio di una curiosità attentissima ai dettagli, ai più minuti risvolti della postmoderna città che sale. Poniamo: «Chi passeggia da piazza Bo Bardi a piazza Aalto (nomi balbuzienti), tra la Diamond Tower e il Samsung District, ha l’impressione di trovarsi tra i chip di silicio di un madornale processore o nelle viscere di un immenso dinosauro digitale – l’azzurro incarta i pulitori di vetri appesi come ragni arancioni, abbaglia i camerieri honduregni del Bésame Mucho che la sera fingono di essere messicani» (p. 206).
Non solo. Alla location milanese, peraltro stravista (film, pubblicità e video di ogni genere ormai ne sono pieni), si affianca un intreccio a dir poco programmato, una parabola quasi per definizione satanica, perfetta nel suo cinismo procurato. Nessuno spoiler, naturalmente. Ma, in fondo, quale punizione perversa può immaginarsi il Diavolo (o chi per lui) per una persona che abbia passato il tempo a macerarsi in seguito a un atto di pedofilia e che per di più, a ben vedere, c’era pure riuscita? Quale sarcastico (e diciamo pure raccapricciante) evento può colpire il nostro protagonista? Quale efferata punizione può metterlo radicalmente in crisi? Quando avrete letto il romanzo, la risposta vi sembrerà sin troppo ovvia, e altrettanto (o quasi) scontato apparirà il coronamento dell’intreccio (prima dell’episodio rasserenante di cui si è detto).
In presenza di tanti eccessi, a ben vedere, in noi lettori possono sorgere molti dubbi. Ci è stato da molto tempo insegnato che il plot per lo più si manifesta come plotting, cioè come una costruzione di senso latamente ideologica; che far seguire a un certo accadimento un certo altro accadimento ha una precisa responsabilità etica. E l’osservazione vale in particolare per un romanzo come il presente che in un tempo della storia di meno di un anno stipa una quantità di eventi, tra il criminale e il luttuoso, degni di un giallo dei più truculenti, e che insegue una serie di scelte esistenziali, ricche di svolte improvvise, tanto numerose che ci sembra di assistere a Un posto al sole. Sia ben chiaro: nessuno qui critica la scelta romanzesca di Siti; anzi. Del resto, lo stesso autore prova a scherzarci sopra: ed escogita, in finzione, la forza demiurgica di un Angelo che fattivamente interviene a modellare l’intreccio nella forma leggermente implausibile con cui abbiamo a che fare. Se il fondale è artificioso, artificioso è anche il plot, appunto.
Il fatto è che proprio la morale del plotting ci lascia un po’ perplessi. Inaspettatamente, Siti si comporta in maniera bacchettona, punendo in maniera spietata il colpevole di pedofilia e in genere distruggendo tutti i personaggi che non abbiano vissuto l’esperienza del sesso con adeguata leggerezza e spensieratezza. Tradimenti e perversioni non rispettosi dell’altro non possono restare impuniti. E salvo sarà persino il vecchio parroco, don Fermo, che negli anni si è riconciliato con il proprio amore anche fisico per la perpetua, e che è accettato e giustificato – oltre che dall’autore – dal confratello Leo.
Prendiamo, per vederci meglio, un episodio che nell’economia dell’intrigo sembra avere un ruolo decisivo. Prima che tutto precipiti, il protagonista pronuncia un’omelia appassionata in cui sono giustificati i comportamenti di tutti quei musulmani che abbiano fatto una violenta scelta integralista, nei modi in particolare dell’Isis. Stare dalla parte di Allah, anzi di quell’Allah primitivo e sanguinario, potrebbe essere il miglior modo per difendere il cristianesimo e il suo Dio («Se Cristo decidesse di ridiscendere ora sulla terra, non sono sicuro che sarebbe nel campo cristiano», p. 331). A fronte di un Occidente ormai privo – direbbe Badiou – di passione del reale, la semplificazione vitalistica del fondamentalismo ci ricorda la necessità di un Dio révolté, fautore di una violenza purificatrice.
Tutto chiaro, fin troppo chiaro, a ben vedere. Ma è sulla funzione di una simile sparata che ci si interroga. Di fatto, Siti racconta due volte questa provocazione: narrando prima i pensieri di don Leo, poi la sua omelia, le sue parole parlate. La sottolineatura dello scandalo è enfatizzata. Ma è anche fine a se stessa. L’episodio è un ramo secco dell’intreccio, la cui verità è – come detto – un’altra: tiene del delitto e del conseguente castigo. L’omelia è soprattutto un esercizio di arguzia in senso largo apocalittica: disvela una possibile eresia discendente dagli eccessi “perversi” del cattolicesimo (il secondo esergo da Lacan lo dice benissimo sin dall’inizio: «Chi trascura la legge limitata della parola interumana per una Legge e una Parola superiore, è un perverso»). La diremmo ridondante, quell’eresia, se non proprio narrativamente inutile: un accanimento dell’angelo-diavolo-scrittore che esula dalla “tipicità” dell’intreccio.
Questo – lo dice lo stesso autore nella nota finale – è il primo romanzo in cui Walter Siti non agisce da personaggio (se non di scorcio, per pochissime righe: a p. 269) e in cui un tipo di fecalizzazione interna produce veri effetti “figuralizzanti”: la storia, cioè, è restituita in quanto percepita da un personaggio del tutto diverso dal soggetto che enuncia. Un romanzo (quasi) senza io, potremmo dire: flaubertiano, potremmo aggiungere. Eppure, questa coraggiosa dislocazione che riduce di molto l’invadenza del cosiddetto narratore non ridimensiona una caratteristica che è da sempre un pregio e un limite (ma più il primo che il secondo) del raccontare di Siti. Dico della sua natura profondamente, irriducibilmente saggistica’. espositiva, per certi versi, ma soprattutto argomentativa. Il fenomeno è così radicato nella sua scrittura che, spesso, persino i dialoghi ne sono affetti. La conversazione che l’autore privilegia è da sempre intessuta di “ragionari” ora argutissimi, ora banalissimi, ora lambiccati, ora terra terra. C’è però sempre qualcuno che mette in piazza soprattutto le proprie idee, la propria visione del mondo, piuttosto che il proprio sé esistenziale. Siti, prima che narrare persone ed eventi, mette in racconto un bisogno di presa di posizione ideologica, di orientamento ai temi emergenti del presente, di discussione dei valori o disvalori dell’oggi (cioè, spesso, dell’indistinzione di valori e disvalori).
Riducendo l’opera ai minimi termini, possiamo affermare che chi ha scritto Bruciare tutto ha offerto soprattutto un trattato sulla nuova Milano, su certi paradossi della sua rinnovata spazialità, dello spaesamento che le si accompagna; e che insieme ha criticato gli eccessi della morale repressiva cattolica, incapace di interrogarsi sull’origine di certe pulsioni trasgressive. Lo ha fatto, come ogni bravo saggista, con un dispiegamento imponente di citazioni, di prove anche ideologiche a sostegno delle sue tesi, nonché con l’ausilio di una notevole quantità (non tanto di sotto-trame, quanto) di argomentazioni accessorie, qualcuna delle quali non del tutto indispensabile. Come peraltro capita sempre in ogni saggio ben scritto.
Da milanese e da cittadino del mondo, ringrazio Siti delle sue analisi, che certo mi aiutano a snebbiare con intelligenza e anche ironia tante cupaggini del nostro tempo. Un lettore di romanzi “puro” avrebbe certo chiesto un rigore meno ferreo nell’intreccio e un numero minore di ridondanze. Ma questo, forse, è il necessario destino di un moralismo (più esattamente: di una morale) adeguato al presente.